Vol. 9, n. 1, aprile 2023

TEORIE E MODELLI DIDATTICI

La scuola del Merito

Maria-Chiara Michelini1

Sommario

Il presente saggio affronta il tema del merito con riferimento al sistema scolastico. Soprattutto negli ultimi tempi il concetto è stato insistentemente riproposto e affermato come criterio guida dell’agire scolastico, tanto da essere assunto a intitolazione del Ministero dell’Istruzione e del Merito. Il contributo mette a confronto a grandi linee due prospettive a partire dalle quali intendere il tema: quella neoliberista e quella intitolata allo sviluppo umano. Analizzando le implicazioni delle medesime e assumendo una chiara posizione a favore della seconda, sottolinea la responsabilità della comunità pedagogica per una riflessione su questioni cruciali dell’educare a scuola in riferimento ad esso. Congiuntamente, sottolinea la necessità per la comunità pedagogica di proporre un dialogo ricco e propositivo con le forze politiche, sociali e culturali per elaborare prospettive percorribili in termini di strategie complessive, istituzionali e politiche, nella direzione dello sviluppo umano, anche attraverso un contributo di denuncia critica di quanto ad essa si contrappone.

Parole chiave

Merito, Equità, Uguaglianza, Sistema Scolastico, Sviluppo.

THEORIES AND DIDACTIC MODELS

The School of Merit

Maria-Chiara Michelini2

Abstract

This essay deals with the theme of merit with reference to the school system, which, especially in recent times, has been insistently re-proposed and affirmed as a guiding criterion for school action, so much so that it has been taken as the title of the Ministry of Education and Merit. The essay compares two perspectives: the neo-liberal one and the one devoted to human development. Analysing the implications of both and taking a clear position in favour of the latter, it emphasises the responsibility of the pedagogical community to reflect on crucial issues of schooling with reference to the topic. The essay also emphasises the need for the pedagogical community to propose a proactive dialogue with political, social and cultural forces in order to elaborate possible comprehensive, institutional and social strategies in the direction of human development, also through a contribution of critical denunciation of what is opposed to it.

Keywords

Merit, Equity, Equality, Education System, Development.

A proposito di merito

Il tema del merito, con riferimento al sistema scolastico, da tempo viene rilanciato e dibattuto, a partire dalla spinta di concezioni ideologiche e culturali soprattutto di tipo neoliberista e libertarie, su cui avremo modo di discutere nel presente saggio. Nel contesto italiano, l’accelerazione in tal senso viene impressa dalla nuova denominazione voluta dall’attuale governo in carica per lo storico Ministero dell’Istruzione (già Ministero della Pubblica Istruzione) di Ministero dell’Istruzione e del Merito. Un indicatore piuttosto esplicito della volontà di istituzionalizzare un programma politico di una certa parte.

Riteniamo opportuno e doveroso, unendoci ai tanti che lo hanno già fatto, offrire un contributo alla riflessione su un tema per nulla scontato e facile, come invece può sembrare nell’uso di senso comune del termine, riguardo il quale Baldacci (2022) afferma che siamo di fronte a un’alcinesca seduzione.3 Assumiamo tale seduzione all’interno della tendenza ontologizzante del nostro linguaggio, per la quale «è facile slittare dai sostantivi alle sostanze, così dimenticando l’origine umile e lo status “terrestre”, dei concetti. Questi vengono, in tal senso, reificati; trattati e “maneggiati” come se fossero realtà di per sé sussistenti, autonome e indipendenti rispetto alle operazioni-di-concettualizzazione e ai materiali di esperienza su cui quelle operazioni sono state condotte» (Colicchi, 2021, p. 57). Dunque, dire merito rischia di tradursi in un’automatica attribuzione di verità e autenticità sostanziali a determinate realtà, senza la necessaria operazione di concettualizzazione, di vaglio critico dei processi e degli esiti di giudizi di valore relativi. In tal senso la seducente espressione può davvero ingenerare illusioni fatali, con ricadute nefaste, facilmente immaginabili per il nostro sistema scolastico e, conseguentemente, per il tessuto sociale presente e futuro.

È opportuno, anzitutto, intendersi sul significato del termine merito. Etimologicamente (dal lat. merĭtum, der. di merere «meritare»), rimanda all’idea del diritto di stima, lode, ricompensa (materiale, morale, soprannaturale) in relazione e in proporzione al bene (o al male) compiuto con le proprie opere o con le proprie qualità. In tal senso il concetto di merito è strettamente correlato con la dimensione morale dell’agire, specificamente con la responsabilità personale. Da questo punto di vista, ben si comprende come nel senso comune il termine abbia una accezione positiva (di qui anche la seduzione di cui parla Baldacci) corrispondente a una concezione di giustizia, di corrispondenza tra le qualità e le azioni individuali e il loro riconoscimento e apprezzamento in tutti i sensi. Pensiamo anche solo alla locuzione diffusa nell’uso onore al merito, per cogliere intuitivamente l’idea che l’onore, massima espressione di considerazione sociale, spetti legittimamente a chi si è dimostrato capace, con il proprio agire o con le proprie qualità, di avere successo, di vincere, di conseguire risultati e riconoscimenti.4

Nel tempo il tema, per la sua natura multidisciplinare, è stato oggetto di approcci di vario genere: sociologici, filosofici, pedagogici, politici ecc. Nel loro volume, in cui operano un’articolata esplorazione in tal senso, Benadusi e Giancola (2020) distinguono le varie concezione tra «spurie (o classiche)» e «pure», riconducendole essenzialmente alla coincidenza o meno tra giustizia ed eguaglianza. La meritocrazia spuria è per gli autori quella «classica», meglio definibile come «meritismo». Le concezioni di questo tipo concepiscono l’equità come non coincidente con l’uguaglianza. Il presupposto di partenza è che la selezione dei ruoli sociali debba avvenire in base alle competenze, inevitabilmente diverse, degli esseri umani. In tal senso si considera giusto attribuire riconoscimenti per merito a chi si dimostri capace di affrontare compiti o svolgere ruoli, indipendentemente dalle opportunità di partenza. Chi è bravo, più bravo di altri, merita posizioni sociali migliori. Sono denominate «pure», viceversa, tutte le concezioni che pur considerando la necessità di riconoscimento positivo del merito, lo correlano strettamente all’eguaglianza delle opportunità. Nella tradizione sociologica, punto di vista degli autori, le radici di queste sono riconducibili a Emile Durkheim, Talcott Parsons e Michael Young. Sul piano filosofico, viceversa, essi le rapportano all’opera di John Rawls. Si deve al sociologo, nonché politico e attivista Young (1958) il successo del neologismo meritocrazia (forse utilizzato per la prima volta da un altro sociologo inglese, Alan Fox), che compare già nel titolo del suo volume The rise of meritocracy. Con esso egli intendeva proprio mettere in guardia dai rischi insiti nell’affermazione di una società basata sulla competizione e sul merito, inteso come prodotto dell’impegno e dell’intelligenza. Il suo volume, estremamente ironico e distopico, ipotizza uno scenario in cui la selezione è basata esclusivamente sull’intelligenza, attraverso una precoce misurazione delle capacità, ispirata allo studio dei tempi e dell’organizzazione scientifica del lavoro, grazie alla quale diventa possibile ristrutturare un nuovo sistema scolastico che differenzia l’offerta formativa sulla base delle diverse capacità individuali rilevate. L’intelligenza diventa il criterio di misura con il quale la società giudica i suoi membri, coltivando in senso utilitaristico il loro potenziale. La canalizzazione precoce diventa strumento indiretto per aumentare la produzione. A una aristocrazia di nascita, si sostituisce un’aristocrazia dell’ingegno. Il lavoro di Young rappresenta la denuncia del pericolo dell’avvento di una società futura basato sul merito, che comporterebbe una stratificazione sociale radicale in cui i più deboli e deprivati, verrebbero emarginati, con un effetto contrario alle intenzioni di tale concezione in termini di sviluppo economico. Una società, di fatto privata del contributo di un’ampia fascia di persone, non sostenute in senso egualitario, appunto, sarebbe destinata a un incremento complessivo di povertà e a un corrispondente calo di produttività. Il neologismo coniato da Young è passato a identificare l’accezione positiva del termine, divenendo bandiera dei sostenitori di un sistema sociale basato sul riconoscimento del merito in senso classico o «spurio». Secondo alcuni autori una delle ragioni del destino del termine risiede nella povertà culturale dell’ideologia del merito, priva di un proprio linguaggio, se non quello mutuato del mondo economico, per cui l’uso di un neologismo, di fatto vergine, avrebbe potuto efficacemente veicolare il significato voluto. Ed effettivamente ciò è avvenuto.

Negli stessi anni in cui Young pubblicava il suo volume, Hannah Arendt dava alle stampe il noto saggio La crisi dell’istruzione, apparso in Tra passato e futuro (1961), nel quale criticava pesantemente il sistema scolastico inglese che a soli undici anni sottoponeva gli allievi a un duro test per l’accesso alle scuole superiori. L’autrice denunciava la tendenza di tale sistema all’istituzione di una meritocrazia, come nuova forma di oligarchia che contraddiceva il principio dell’eguaglianza di una società autenticamente egualitaria. Sono questi gli anni in cui si afferma la teoria del capitale umano, di cui l’enfasi posta su una certa concezione di merito è espressione. È infatti del 1964, ad esempio, il volume di Gary Becker intitolato Il capitale umano che si occupa delle attività che influenzano il futuro reddito monetario e psichico, elevando conseguentemente il livello delle risorse a disposizione di tutti. Becker estende alle conoscenze, competenze e abilità degli individui il concetto di capitale, assumendo come dogma la convinzione che gli esseri umani debbano investire in tale direzione, anche attraverso l’istruzione e la formazione, secondo un calcolo razionale dei benefici che ne deriveranno.

A partire dagli studi del premio Nobel per l’economia Amartya Sen (1999), approfonditi da Martha Nussbaum (2012b), la prospettiva intitolata allo sviluppo umano si sta configurando come orizzonte entro il quale considerare lo sviluppo non solo in senso economico, come la logica liberista del mercato e di una certa concezione del merito intendono, ma in senso integrale, come processo di espansione delle libertà reali delle persone e della crescita personale e sociale. In relazione al tema del merito, tale prospettiva sottolinea la necessità che vengano create le reali condizioni affinché gli individui possano davvero sviluppare le proprie capacità. In tal senso l’approccio delle capacità (o delle capacitazioni) rappresenta la chiave del programma economico e politico proposto da Sen in volumi come La diseguaglianza e Lo sviluppo è libertà. Intendendo sempre la persona come fine, a differenza di quanto avviene nell’ambito della logica del profitto, l’approccio dello sviluppo umano si configura come una teoria della giustizia sociale, nella quale occorre combinare abilità personali e ambiente politico ed economico in cui gli individui possano sviluppare le capacità interne, in un crescente spazio di libertà. In tal senso sono strumenti essenziali un sistema educativo efficiente, l’istruzione, le risorse destinate a potenziare la salute fisica ed emotiva, il sostegno alla cura e all’amore familiare, ecc. L’impegno politico essenziale di ogni società deve essere volto alla creazione e allo sviluppo di tali strumenti essenziali. Si comprende che, all’interno di questa cornice, potremmo parlare di merito in senso «puro», secondo la distinzione proposta da Benadusi e Giancola, vale a dire in una logica che impegna i sistemi politici, sociali, economici, culturali a creare le condizioni affinché le capacità originali delle persone trovino possibilità concrete di espansione, secondo un principio di giustizia che assicuri a tutti le migliori opportunità di sviluppo. L’assenza o la presenza di ciò comporta la libertà o meno delle persone, con tutto il portato immaginabile sul piano dello sviluppo sociale ed economico. Il concetto di capacità così inteso viene distinto dal concetto di funzionamento, come realizzazione attiva di una determinata capacità, la quale fa capo alla libertà di scegliere, per cui, stando all’esempio di Sen, una persona che soffre la fame e una che digiuna hanno lo stesso funzionamento, ma non la stessa capacità. Questa prospettiva ci conduce a esplorare un risvolto chiave della riflessione sul merito, all’insegna della libertà di attivare le proprie capacità, traducendole in funzionamenti effettivi. Al riguardo risulta opportuna la critica radicale alla nostra società proposta da Benasayag, nei termini dell’accusa di non lasciare più alle persone la libertà di vivere «così come sono». Lo psicanalista e filosofo, infatti, denuncia il diktat del biopotere postmoderno che vuole trasformare le persone in gelatina plasmabile rispetto alle istanze del mercato e dell’impresa. Le metafore di endoscheletro ed esoscheletro traducono la differenza radicale tra uno sviluppo delle attitudini e potenzialità individuali, secondo una prospettiva unica e originale e uno sviluppo coincidente con la capacità di adeguarsi perfettamente alle istanze poste e imposte dal sistema economico del mercato. Dal punto di vista del suo interesse specifico, Benasayag ravvisa in ciò la causa della profonda sofferenza del nostro tempo.

La postmodernità chiama intelligenza la capacità di disintegrarsi quanto basta per potersi conformare all’esoscheletro dell’impresa. Risulta intelligente chi è capace di giocare a nascondino con sé stesso fino al punto di perdersi […] chi fa sforzi terribili per cancellare ogni singolarità e aderire ai bisogni dell’impresa. […] I quadri sono sovente ossessionati dalla logica dei risultati e dalla loro valutazione da parte dell’impresa, all’interno della quale non può sussistere la minima scissione tra i moventi del dipendente e gli obiettivi del datore di lavoro (Benasayag, 2016, pp. 18-19).

L’accusa sferrata da Benasayag alla cultura della performance che considera come brillanti e intelligenti coloro i quali posseggono le caratteristiche valorizzate dal mondo postmoderno neoliberale, riuscendo a adattarsi al modello proposto, ci sembra utile a mostrare un aspetto cruciale del tema del merito, vale a dire la richiesta di adeguamento a un prototipo, a uno standard prestabilito da una istanza esterna. Benasayag (2016, p. 82) riconduce allo stesso alveo quella che egli chiama la pedagogia delle competenze come «una visione meccanica e troppo semplicistica dei fatti e dei gesti dell’umano». Insieme ad Angèlique Del Rey sviluppa in tal direzione un’analisi critica di quella che egli considera una sottile, strisciante subordinazione anche della pedagogia e dell’educare al diktat neoliberista della conformazione alle istanze del mercato. Quest’ultimo esige l’accumulazione di competenze funzionali alla produzione da parte del soggetto che passa dall’essere uomo che, grazie alla sua storia personale possiede certe qualità, all’essere un uomo senza qualità (Benasayag, 2018, p. 36). L’analisi affonda in un interrogativo radicale circa la fine dell’umanesimo. Da tempo la pedagogia italiana ha avviato una riflessione estremamente significativa in questa medesima direzione. Pensiamo a titolo di esempio a Baldacci de La scuola al Bivio. Mercato o Democrazia? Occorre continuare in questa direzione, anzitutto sul piano della riflessione culturale in senso ampio, ponendo al centro della narrazione del nostro tempo il senso e la distanza inconciliabile tra una concezione dell’uomo come mezzo asservito alla logica del mercato globale, anziché come fine. In tal senso occorre evidenziare il portato sotteso di una richiesta di adeguamento a uno standard prefissato dai poteri economici e finanziari delle personalità con particolare riguardo alle giovani generazioni. L’enfasi posta sulla performance, sull’eccellenza, sulle competenze e, appunto, sul merito, altro non è che l’espressione dei tratti dell’esoscheletro ai quali occorre adeguarsi per ottenere successo, con tutto quel che consegue, nel mondo attuale e futuro.

C’è poi, necessariamente, un piano politico rispetto al quale la pedagogia non può limitarsi ad apportare un timido contributo, inseguendo goffamente le mode di volta in volta proposte in aderenza ai miti neoliberisti, che assumano le sembianze di merito, di tecnologia, di performance, ecc. Compito della pedagogia è quello di saper proporre prospettive percorribili in termini di strategie complessive, istituzionali e sociali nella direzione dello sviluppo umano, anche attraverso un contributo di denuncia critica di quanto ad essa si contrappone.

Il terzo piano, naturalmente, è quello più squisitamente legato alle pratiche educative e ai modelli da implementare nella prassi. Su questo aspetto torneremo nel paragrafo successivo.

Il merito nella scuola

L’idea di merito in riferimento alla scuola certo non rappresenta una novità degli ultimi tempi. Il suo incardinamento avviene nella costituzione italiana che, all’articolo 34 recita: «La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie e altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso». Questo ancoraggio segna in maniera chiara l’orizzonte democratico entro cui ogni discorso del merito può essere sviluppato con riferimento alla scuola. Nella distinzione che abbiamo assunto schematicamente a riferimento, possiamo dire che ci troviamo nell’ambito delle concezioni pure, le quali legano l’idea di merito all’idea di giustizia e di eguaglianza delle opportunità, che la Repubblica ha il dovere di assicurare, rendendo effettivo un diritto inalienabile. L’impegno in questa direzione ha segnato importanti traiettorie e stagioni dell’educare nella scuola italiana, trovando emblematicamente una sintesi limpida e credibile nelle parole di don Lorenzo Milani (Scuola di Barbiana, 1982, p. 55): non c’è nulla che sia ingiusto quanto far le parti eguali fra diseguali. Intendere il merito in senso democratico e costituzionale si traduce nell’impegno a promuovere lo sviluppo di ogni persona, impiegando conseguentemente tutte le risorse necessarie a colmare il gap delle condizioni svantaggiate di partenza da parte dei più disagiati. In questo senso occorre rapportare le risorse, intese come mezzo, ai bisogni formativi di chi parte da condizioni più deficitarie, intendendo autenticamente le risorse come mezzo in vista dello sviluppo della persona, considerata come fine.

Anche la scuola, viceversa, non è stata esente dall’influenza esercitata dalla concezione neoliberista del merito, assimilandone, anche il linguaggio. A titolo del tutto esemplificativo, ricordiamo come il DPR 275/99, che ha attribuito autonomia funzionale alle istituzioni scolastiche, pur guardando idealmente all’orizzonte dello sviluppo della persona umana, attraverso interventi di educazione, formazione e istruzione adeguati al contesto e alle specifiche caratteristiche dei soggetti, considera il successo formativo obiettivo dei medesimi. L’uso di un termine mutuato dal linguaggio imprenditoriale, per definire lo scopo del lavoro educativo e didattico, ci sembra emblematicamente indicativo di uno scivolamento operato in una direzione che tende a considerare conoscenze, competenze e abilità nella logica del capitale umano. D’altronde, sappiamo bene in quanti rivoli tale scivolamento sia stato operato nella scuola dell’autonoma. Nella stessa direzione, ad esempio, vanno interventi succedutisi negli anni che hanno introdotto strumenti quali la Rendicontazione sociale della scuola (art. 6, c. 2, lettera d del D.P.R. 80/2013) intesa come pubblicazione e diffusione dei risultati raggiunti, attraverso indicatori e dati comparabili, o il Rapporto di autovalutazione (RAV – DPR n. 80/2013, Direttiva N. 11/2014, C.M. 47/2014), nell’ambito del SNV (Sistema Nazionale di Valutazione), la Scuola in chiaro, ecc. Tutti questi interventi hanno effettivamente tradotto in termini di sistema e di procedure la logica competitiva che lega il merito (in questo caso delle istituzioni scolastiche) all’adeguamento ai parametri fissati a livello centrale. Ancora, la Legge 13 luglio 2015 n. 107, la cosiddetta Buona scuola, in più passaggi si riferisce alla valorizzazione della professionalità docente in relazione al merito (in particolare si veda l’art.1, commi 126, 127, 128, 129, 130), prevedendo un apposito stanziamento ripartito a livello territoriale e tra le istituzioni scolastiche.5

Questo rapidissimo affresco intende solo sintetizzare alcune direzioni in cui una certa concezione di merito è entrata nella scuola italiana, segnandone stagioni, riforme, strumenti, cultura. E oggi ha ben ragione Baldacci (2019) nel dichiarare che siamo di fronte a un bivio tra due idee di scuola, quella che rimanda all’idea di comunità democratica e quella che realizza il disegno del mercato, passando, peraltro per una progressiva eclissi dell’idea stessa di scuola. E il merito rappresenta uno dei concetti che veicola e realizza tale movimento. I segnali in tal senso sono piuttosto indicativi di una realtà sempre più sbilanciata attraverso il progressivo taglio delle risorse,6 cosa che penalizza soprattutto coloro i quali non sono sostenuti da un contesto familiare e culturale favorevole; la costante squalifica di fatto del ruolo docente, sempre più ridotto a funzioni amministrative ed esecutive, rispetto ad apparati intitolati alla valutazione e valorizzazione della qualità; l’incremento delle pressioni nella direzione dell’adeguamento della scuola a modelli imprenditoriali in termini di obiettivi e modalità organizzative. Una realtà sbilanciata, in cui i segnali di sofferenza si fanno tanto più forti, quanto più inascoltati.

Il ruolo della pedagogia

Domandiamoci ora che cosa la pedagogia può e deve fare, a partire dall’occasione offerta dalla questione del merito. Dovrà, anzitutto, rinnovare o ricostruire l’alleanza tra chi opera prevalentemente nel campo della teoresi e chi è impegnato soprattutto nei contesti della pratica educativa. Già Dewey (1929, pp. 29-30) ne Le fonti di una scienza dell’educazione riteneva assolutamente necessaria tale alleanza, nei termini del fluire di una sorta di corrente o connessione vitale. Non si tratta dell’invocazione di un ecumenismo formale, ma della necessità d’istituzione di nuovi spazi di confronto democratico, adeguati a un’autentica riflessione sul senso di processi, misure, azioni in atto nella scuola, oltre che, naturalmente relativo alle scelte operative da realizzare. Di fronte a quel bivio, di cui parla Baldacci, la scuola militante non può essere lasciata da sola a fronteggiare una pressione di proporzioni enormi. Non basterà certo, neppure la sola alleanza con la pur migliore pedagogia. Come abbiamo già detto, si tratta di svolgere un’azione culturale e pedagogica, politica e sociale. Riteniamo però che l’alleanza tra chi opera nei contesti educativi e chi è impegnato sul fronte teorico, rappresenti l’inizio, non sufficiente, ma necessario, nella direzione dell’incremento di una riflessione critica e propositiva circa gli eventi e le scelte da intraprendere. Da tempo abbiamo proposto l’ipotesi di Comunità di Pensiero (Michelini, 2013; 2016) da intendersi non soltanto in senso funzionale al miglioramento dell’efficacia dell’agire professionale, ma anche e soprattutto, come creazione di uno spazio riflessivo democratico in cui possano trovare respiro i diversi contributi, creando le condizioni effettive di elaborazione culturale. Si tratta di istituire strutture che pongano le basi per quello scambio riflessivo da noi ritenuto fondamentale per lo sviluppo del pensiero sia in senso individuale che in senso sociale. Riteniamo che tale proposta possa anche essere intesa come una possibile concretizzazione dell’idea che la «capacità è un concetto esigente» (Nussbaum, 2012a; 2012b) nel senso di richiedere la creazione delle condizioni per la messa in pratica e per lo sviluppo delle capacitazioni. Grava in capo ai sistemi economici e politici la menzionata responsabilità di creare i presupposti che consentono alle persone di maturare capacità e tradurle in funzionamenti effettivi, attraverso adeguati apparati educativi e formativi. Questi ultimi devono poter dare vita a strutture e processi che consentano a ciascuno di sviluppare l’intera gamma delle facoltà umane, ivi compresa l’immaginazione e la facoltà di riconoscimento reciproco. In relazione al merito, possiamo affermare che la comunità pedagogica nel suo complesso è chiamata a una riflessione critica sul tema e sulle concezioni ad esso sotteso, operando nella direzione di sistemi che favoriscano un vantaggio cooperativo, contrapposto all’idea di vantaggio competitivo, per indicare il valore aggiunto per ciascuno e per la collettività di un regime in cui ognuno esprima e sviluppi al meglio le proprie facoltà. Riteniamo che tale ipotesi vada, peraltro, nella direzione della valorizzazione del raffinato apparato teorico elaborato da Sen e Nussbaum in relazione al paradigma dello sviluppo umano, nel segno di una sua traduzione concreta, attraverso ricerche empiriche, come auspicato anche da Benadusi e Giancola nel loro lavoro. Il docente riflessivo, ricerca da noi condotta (Michelini, 2016), ha in tal senso consentito di sperimentare l’istituzione di comunità di pensiero di docenti, capaci di quella riflessione critica e trasformativa di secondo livello, necessaria all’elaborazione culturale, oltre che metodologica e operativa, a cui stiamo facendo riferimento. Questo spazio generativo dovrebbe essere istituito a partire da quei processi che fanno emergere con maggiore evidenza la necessità di assumere consapevolezza della cornice culturale e assiologica di riferimento. In questo senso, crediamo sia opportuno segnalare alcuni punti che più di altri richiedono attenzione. Si tratta di una indicazione minima, suggerita dal criterio della cogenza rispetto all’attualità, ma molti altri meriterebbero menzione e approfondimento.

Ci riferiamo, in primis, alla progettazione curriculare in relazione alle modificazioni non residuali di costrutti quali, appunto, le competenze. Su questo fronte la migliore riflessione pedagogica ha cercato, anzitutto, di disambiguare l’interpretazione in campo educativo, rispetto alla provenienza dalla cultura imprenditoriale. In tal senso si è anche fatta carico di cogliere alcune istanze condivisibili da parte dell’extra-scuola, con particolare riguardo al mondo del lavoro. A titolo di esempio: l’invito alla coniugazione delle conoscenze con le dimensioni operative e concrete del vivere e dell’operare, anche attraverso un’opportuna disamina del potenziale formativo delle singole discipline; la focalizzazione, di alcune competenze chiave per l’esercizio della cittadinanza delle nuove generazioni (quali ad esempio la competenza personale, sociale e capacità di imparare a imparare e la competenza in materia di cittadinanza); un profondo ripensamento di strategie metodologico-didattiche nelle direzioni sottese al costrutto di competenza quali i passaggi dal verbalismo all’apprendimento attivo, dall’apprendimento meccanico alla comprensione, dalla riproduzione culturale alla soluzione di problemi, dall’apprendimento incapsulato al transfert, ecc. Al tempo stesso, andrebbe sviluppata in misura maggiore di quanto non sia stato fatto una riflessione critica in merito al senso e alle implicazioni della competenza imprenditoriale, una delle otto indicate dall’UE nel 2018, con l’invito a svilupparla anche offrendo le occasioni in cui i giovani possano fare almeno un’esperienza imprenditoriale pratica durante l’istruzione scolastica. Nella sua formulazione essa sembra esprimere la volontà di una applicazione tout court della cultura imprenditoriale in ambito scolastico. Sono i ragazzi e i giovani a doversi conformare alla capacità di divenire imprenditori, apprendendo quanto prima le regole dei contesti professionali. Le scuole si sono doverosamente attivate in tal direzione (pensiamo alle esperienze di scuola-lavoro), ma in molti casi senza un’adeguata elaborazione culturale sul senso e sulle conseguenze di tale immersione. Pensiamo che in questa direzione sia assolutamente necessaria una riflessione ampia e profonda che restituisca alla progettazione curriculare il doveroso compito di indirizzare e orientare le esperienze proposte, anche nella auspicabile collaborazione con il mondo del lavoro. Se saranno le imprese a farlo in maniera verticale e lineare, il merito si tradurrà nella misura della rispondenza alle performances richieste.

Un secondo punto di attenzione è rappresentato dalla valutazione, tema estremamente sensibile da qualsiasi versante lo si guardi (degli apprendimenti, delle istituzioni, dei docenti, dell’offerta formativa, ecc). Un punto di partenza dirimente sulla valutazione delle capacità e del merito è costituito dalla sentenza n. 215 del 1987 con la quale la Corte Costituzionale stabilì che gli alunni con disabilità fossero valutati secondo parametri peculiari, adeguati alle rispettive situazioni di minorazione. Al di là dello specifico ambito legato alla disabilità, questa sentenza sanciva l’importanza di inscrivere la valutazione entro la logica democratica di promozione di tutti i soggetti, attraverso la creazione di contesti e l’attivazione di processi specifici, da considerare in una logica formativa e regolativa. Una cornice di questo tipo collide enormemente con un’idea di merito come standard fissato a monte e a prescindere dalle condizioni peculiari, imprimendo la logica dell’adeguamento ad esso in senso lineare, sfuggendo a ogni complessità e pluralità. Ciò richiama il tema della logica entro la quale inscrivere ogni processo valutativo. Qual è lo scopo della valutazione? In che modo è possibile esprimere giudizi utili a promuovere sviluppo e non a incrementare logiche di passivo adattamento a uno standard fissato da un sistema che considera l’uomo strumento e non fine? Quali strumenti sono più idonei nell’ottica scelta e quali, viceversa, schiacciano l’attenzione prevalentemente sul prodotto e non sul processo, sull’esito finale e non sulla possibilità di formare e di regolare l’agire? Chi valuta il merito? In una fase storica in cui la valutazione ha raggiunto una pervasività estrema e schiacciante, la questione del merito può rappresentare il nocciolo duro e intaccabile della scuola del mercato, dell’adeguamento ad esso, dell’esoscheletro, oppure aprire a una riflessione che contribuisca a costruire una cultura della buona valutazione intesa in senso formativo, regolativo e autenticamente democratico. Ancora una volta ravvisiamo la necessità di porre in essere processi di elaborazione riflessiva nei contesti d’uso, da parte dei soggetti direttamente coinvolti nell’agire educativo, nel quadro di un più ampio confronto tra istituzioni educative, politiche, culturali e sociali, sia nell’ambito della comunità scientifica pedagogica, articolata nelle sue diverse competenze e specificità. In tal senso la questione della valutazione ha al suo centro il nesso tra strumenti valutativi e scelte etiche, culturali e politiche. La scelta, l’elaborazione delle procedure e degli strumenti atti a valutare il merito non possono essere considerate come operazioni asettiche e spurie, al contrario dovranno essere interpretate in tutto il suo spessore culturale, etico e metodologico.

Un terzo punto di attenzione di estrema attualità, è costituito dall’irrompere dell’intelligenza artificiale nella nostra vita, ivi comprese le pratiche scolastiche. In particolare, il dibattito accesosi di recente su ChatGPT, potente strumento di sintesi dati di Microsoft (come di altri simili), capace di formulare in pochi istanti una risposta, una sintesi, un testo scritto, una definizione come la faremmo noi, e come l’abbiamo fatta nei secoli, diversificando il testo in base all’età del destinatario e al contesto, mostra i limiti di una concezione spuria del merito. Se il merito è riconducibile alla capacità di aderire quanto più possibile e quanto meglio a uno standard, certamente una macchina programmata allo scopo, la quale disponga di una mole enorme di dati immagazzinati e di immediata accessibilità, lo farà meglio di molti umani. Ma, e qui rimandiamo all’articolo di D’Avenia, sul Corriere della Sera del 13 marzo 2023, si tratta di stabilire se obiettivo della formazione anche scolastica è quello della fedele ripetizione di un modello, o piuttosto, lo sviluppo della capacità di creare qualcosa in maniera originale, valorizzando appieno le proprie potenzialità e immaginando alternative per sé e per la collettività umana. In realtà si tratta di un bivio evidenziato già da Hannah Arendt (1961), quando affermava che: «Nell’educazione si decide anche se noi amiamo tanto i nostri figli da non estrometterli dal nostro mondo lasciandoli in balia di se stessi, se li amiamo tanto da non strappargli di mano la loro occasione d’intraprendere qualcosa di nuovo, qualcosa d’imprevedibile per noi: e prepararli invece al compito di rinnovare un mondo che sarà comune a tutti».

Questo ragionamento ci riporta all’idea di merito: che merito attribuiamo a un assemblatore di materia, macchina o uomo che sia? Che merito, viceversa attribuiamo all’energia umana, al guizzo, alla creatività, all’apertura di nuovi sentieri? Che peso ha l’autenticità del risultato conseguito e quale, viceversa l’esito, il prodotto in quanto tale, a prescindere dalla modalità con cui si è pervenuti ad esso? Conseguentemente, la scuola dovrà fare le sue scelte in ordine alle forme con le quali far crescere le giovani generazioni nella direzione della riproduzione fedele, o in quella della creazione, eventualmente anche liberando energie e tempo con l’ausilio di macchine che possono sostituire l’uomo in ciò che è sostituibile.

Considerazioni conclusive

L’idea di merito sviluppata in questo saggio, nel confronto schematico e per sommi capi tra due diverse concezioni del medesimo, con particolare riguardo a quella affermatasi nel mondo occidentale in senso neoliberista e alla prospettiva dello sviluppo umano, mostra la complessità del tema, facendo emergere la delicatezza delle scelte alle quali oggi la scuola è chiamata. L’orientamento nella direzione di una concezione pura del merito porta in primo piano la necessità della creazione di condizioni che consentano a tutti gli individui, indipendentemente dalle origini, di sviluppare in direzione originale le proprie capacità. Per questa ragione il tema del merito è inesorabilmente legato a quelli di giustizia e di eguaglianza delle opportunità ed esige, conseguentemente, la sinergia tra le dimensioni politica, culturale, sociale e educativa. A questo scopo è essenziale che la pedagogia militante si faccia parte attiva nel proporre prospettive percorribili in termini di strategie complessive, istituzionali e sociali nella direzione dello sviluppo umano, anche attraverso un contributo di denuncia critica di quanto ad essa si contrappone. Parallelamente a questa linea d’impegno, la comunità pedagogica tutta è chiamata a riflettere e a scegliere le direzioni da intraprendere in ordine ad alcune dimensioni proprie dell’agire educativo scolastico, le quali rappresentano punti nodali di svolta su cui intervenire concretamente, in virtù dei propri compiti istituzionali.

Bibliografia

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1 Professore Associato in Pedagogia Generale e Sociale M-PED/01 Università di Urbino.

2 Università di Urbino.

3 Baldacci si riferisce esplicitamente alla celebre espressione di Croce nella Prefazione a Materialismo storico ed economia marxista, dell’edizione 1917, riferita ad Alcina, vecchia maga brutta e sdentata, che da lontano appare come una bellissima ragazza.

4 Non è questa la sede opportuna per una disamina articolata dei significati nell’uso comune del termine. Nei primi due capitoli del volume di Benadusi e Giancola (2020) è possibile approfondire questo aspetto.

5 La ricostruzione fatta è del tutto rapsodica, volta soltanto a fornire alcune indicazioni utili nell’economia del ragionamento svolto, tralasciando completamente passaggi ulteriormente significativi in questa direzione, quali le riforme delle allora ministre Moratti, prima e Gelmini, poi.

6 I dati a conferma di quest’affermazioni sono molteplici. A titolo meramente indicativo ricordiamo che è di questi giorni la rilevazione di un incremento del 24% delle prime classi delle superiori con oltre 27 alunni, passate dalle 1.981 (7,9% del totale) del 2021-22 alle 2.459 (9,8%) del corrente a.s. Ciò nonostante il dichiarato impegno dei vari ministri succedutisi nella direzione della riduzione/abolizioni delle cosiddette classi pollaio.

Vol. 9, Issue 1, April 2023

 

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