Vol. 8, n. 2, ottobre 2022

FILOSOFIA DELL’EDUCAZIONE

Educazione, ambienti e apprendimento nella cultura della complessità

Barbara Tognazzi1

Sommario

Il dibattito epistemologico sulla complessa fenomenologia educativa sollecita una riflessione dialettica intorno agli elementi che caratterizzano l’educazione e le sue componenti. A questo scopo emerge la necessità di approfondire il rapporto problematico e la natura delle relazioni che intercorrono tra istanze dinamiche, funzionali e strutturali dei processi educativi e dei processi formativi, orientando l’attenzione sia ai principi teorici sia ai contenuti pragmatici che il rinnovato concetto di educazione racchiude in sé. Recuperando l’evento educativo in tutte le sue complesse e molteplici sfaccettature si apre un sentiero in cui problematicità, complessità e ambivalenza non si danno come eccezioni, ma come categorie immanenti dell’uomo e della società alla luce di una metodologia problematicista.

Parole chiave

Educazione, Complessità, Apprendimento.

PHILOSOPHY OF EDUCATION

Education, environments and learning in the culture of complexity

Barbara Tognazzi2

Abstract

The epistemological controversy on complex educational phenomenology implies a dialectical reflection on the elements that characterize education and its components. To this purpose the need arises to deepen the problematic relationship and the nature of the relationships between dynamic, functional and structural instances of educational processes and training processes, focusing both on theoretical principles and on pragmatic contents that the renewed concept of education encloses. Recovering the educational event in all its complex and multiple facets opens a path in which problematicity, complexity and ambivalence are not given as exceptions, but as immanent categories of man and society in the light of the methodology of problematicism.

Keywords

Education, Complexity, Learning.

Introduzione

Le immanenti complessità e problematicità che caratterizzano l’intera esperienza umana considerata in tutti i suoi ambiti e aspetti, così come il progressivo abbandono di sicurezze, che si è venuto delineando attraverso il cammino compiuto dalla scienza per opera di numerosi studiosi, hanno determinato notevoli cambiamenti anche nella scienza pedagogica non solo rispetto al suo statuto disciplinare, ma soprattutto in rapporto alla sua progettualità operativa. Fare i conti con la complessità ha significato per la pedagogia un riesame del suo linguaggio, della sua logica, della sua metodologia per poter affrontare sia la pluralità di emergenze con cui sente il bisogno e il dovere di confrontarsi, sia una pluralità di scienze con cui intrecciare i propri contenuti e le proprie metodologie di ricerca.

A livello operativo le ricadute in campo pedagogico hanno comportato in particolar modo la scelta di operare secondo i termini di una educazione alla ragione, ovvero una educazione problematica capace di pensare la complessità e di sviluppare una conoscenza della conoscenza in cui il soggetto possa trovare una sua collocazione pur con la parzialità del proprio punto di vista saldando insieme cognizione e affettività, ragione e creatività, pluralità e differenze al fine di favorire lo sviluppo di nuovi modelli di pensiero lontani da comportamenti rigidi, autocentrati e dogmatici.

Premesso che l’educazione è probabilmente l’elemento qualitativamente più significativo dell’esistenza in quanto partecipa alla crescita, allo sviluppo e alla maturazione di ogni individuo, non si può ignorare la fragilità del prodotto educativo dimostrata anche dalle difficoltà che i diversi progetti educativi incontrano sia a livello individuale che sociale nella loro applicazione, anche quando le premesse teoriche della loro realizzazione risultano ottimali.

Le ragioni di questa fragilità sono molteplici. In primo luogo, la complessità, nonché i conflitti culturali, sociali e politici in cui i processi educativi sono necessariamente inseriti indeboliscono la continuità dell’educazione e la possibilità di una organizzazione della propria struttura organica ma soprattutto continuativa che saldi insieme esigenze razionali, logiche e comunicative con quelle esistenziali, storiche e sociali. Ma anche qualora si riuscisse a realizzare questa liaison, la debolezza costituzionale dell’educazione continuerebbe a sussistere per la specificità delle interazioni non risolvibile attraverso la semplice somma o la convergenza dei suddetti elementi.

La rappresentazione dell’educazione come matassa intricata ben si addice quindi a descrivere una situazione che non si presta a facili soluzioni, in cui trovare il bandolo non risulta sufficiente per risolvere e comprendere la dinamica dei processi educativi. Il fatto stesso che, accanto ai molteplici significati e sinonimi che campeggiano nei vocabolari, nelle enciclopedie e nei dizionari, siano state date nel corso della storia dai principali pedagogisti molteplici definizioni differenti della nozione dimostra come anche l’oggetto stesso del termine educazione sia instabile, nebuloso e appunto complesso (Cambi, Cives e Fornaca, 1991, p. 75).

Riscoprire pertanto il significato di un termine solo apparentemente ovvio diventa un’esigenza fondamentale sia per la dinamica dei processi educativi sia per la costruzione di un sapere pedagogico scientificamente fondato. Questa necessità vale per ogni tipo di modello pedagogico, da quelli maggiormente empirici a quelli a più alto tasso speculativo, in quanto l’individuazione degli elementi che caratterizzano i fenomeni educativi consente di astenersi dal procedere per ipotesi, assiomi e postulati. Il riferimento empirico permette infatti, indipendentemente dal privilegiare nell’educazione l’aspetto spirituale piuttosto che quello sperimentale o scientifico, di cogliere meglio la complessità di questo fenomeno che si presenta di volta in volta disgregato o strutturato a seconda delle situazioni e delle forze che lo condizionano.

Complessità del fenomeno educativo

Prima di considerare il problema del rapporto tra l’educazione e le sue componenti è opportuno riflettere sul significato di esperienza educativa, concetto che trova già nelle teorizzazioni di Locke, per poi articolarsi in altre correnti filosofiche quali il positivismo, il pragmatismo, la fenomenologia e il problematicismo, interessanti declinazioni. Tra queste prospettive, particolarmente significativa è quella del problematicismo così come si sviluppa dai lavori di Banfi e Bertin.

Banfi propone una riflessione sull’esperienza educativa che tenga conto «della complessità della problematicità, della concretezza e del rilievo culturale che ineriscono costitutivamente all’esperienza educativa» (Massa, 1990, p. 250). Le dimensioni storico-sociali sono per loro natura problematiche e trovano nell’idea di educazione una sintesi aperta che non si risolve mai una volta per tutte e che lascia sussistere la tensione fra locale e reale, fra soggettività e oggettività. Con le parole di Bertin l’esperienza si configura come il processo per il quale l’uomo «modifica incessantemente il mondo e se stesso, le condizioni oggettive e quelle soggettive legate alla propria individualità, in rapporto ai complessi problemi che gli si pongono nella situazione storica in cui è chiamato a vivere la propria vita e a decidere del proprio destino e di quello degli altri» (Fornaca, ١٩٨٦, p. ٢٣٠).

Ciò consente di salvaguardare nell’esperienza educativa la dimensione individuale della vita del singolo e la dimensione sociale in cui lo scambio culturale e l’apertura al futuro si compiono sempre a partire dall’analisi critica delle condizioni storico-sociali del presente e dell’accadere educativo. L’esperienza educativa, pur fondando la sua ragion d’essere sul concetto più vasto e generale di esperienza umana, mostra di possedere delle categorie specifiche che riguardano in primo luogo la sua concretezza e la sua fisicità che rendono possibile, al di là di dogmi metafisici e teleologici, analisi quantitative, progettazioni, interventi e misurazioni attraverso l’uso di metodologie scientifiche.

Intendere l’esperienza educativa scevra da ogni dogmatismo equivale al rifiutare i principi positivistici che intendono ridurla solo al dato quantificabile e perciò indagabile attraverso l’uso dei metodi di ricerca matematici, che considerano l’educazione come una situazione da laboratorio ignorando quel carattere di trascendenza che le è proprio e che deriva dal suo proiettarsi verso un futuro, che a motivo della precarietà che la caratterizza e che la connette con il limite, il nulla, il fine, la sconfitta rendendola non solo consolante ma anche frustrante, non è mai garantito, né è prevedibile o programmabile.

Dall’educazione all’apprendimento

Tutti i fenomeni educativi contengono caratteri problematici e ambivalenti non solo per l’evoluzione e i cambiamenti che sono in grado di promuovere, ma anche e soprattutto per le componenti principali che li contraddistinguono e che trovano nel soggetto, nella socialità, nell’apprendimento, nell’informazione, nella cultura, nella progettazione e nei valori gli attori principali con cui recitare. Tra gli elementi appena citati riveste particolare attenzione la categoria dell’apprendimento che consente all’educazione una propria strutturazione specifica e una continua trasformazione in cui non c’è spazio per la conservazione dello status quo, sbilanciato ora in termini soggettivi ora in termini oggettivi.

Accettare la tesi che non può esserci educazione senza apprendimento, cercando in questo modo di fornire una definizione di educazione meno vaga e più circoscritta, richiede di utilizzare una strategia di riduzione empirica, rifacendoci in questo senso al tentativo compiuto tra gli altri da Laporta che ha proposto di ridurre il concetto di educazione a quello di apprendimento cercando di fornire una sistematizzazione a un termine tanto necessario, quanto vago e indefinito.3

Ciò implica definire la nozione non solo a livello concettuale ma soprattutto sul piano empirico, al fine di renderla controllabile scientificamente. Se però questa operazione riduttiva consente di circoscrivere in modo più preciso i processi educativi, orientando in una direzione più mirata ed efficace gli interventi in relazione ai problemi pratici e specifici dell’educazione rispetto a come si potrebbe fare utilizzando la nozione di educazione in generale, non permette altresì di cogliere gli aspetti e i «significati culturalmente sedimentati» (Baldacci, 2006, p. 15) di questo concetto. Che nei processi educativi sia presente la componente dell’apprendimento è facilmente riscontrabile e al tempo stesso intuitivamente evidente, specialmente se si tiene conto del fatto che l’imparare qualcosa ha un forte valore adattivo per la preservazione della vita di un organismo che deve avere la capacità di conservare quelle condotte in grado di assicurargli la sopravvivenza. Questo ci pone però di fronte alla necessità di isolare quei processi educativi specificamente umani, dal momento che l’apprendimento non è prerogativa dell’uomo ma caratterizza tutte le specie viventi.

La soluzione a questo problema, nella prospettiva di Laporta, sta nell’allargare la nozione di apprendimento presentandolo non solo come strumento in grado di modificare il comportamento come avviene ad esempio nelle concezioni etologiche e comportamentiste, ma come una «costante riorganizzazione della nostra esperienza, dove “nostra esperienza” sembra stare per esperienza umana» (Baldacci, 2006, p. 15), assumendo così maggiore specificità rispetto all’apprendimento animale in genere. Secondo Laporta, infatti, la riduzione empirica a cui si fa riferimento non è da intendersi né in termini husserliani di riduzione fenomenologica, né in termini hempeliani di riduzione di una scienza a un’altra ritenuta più semplice e per questo governata da leggi più precise, ma semplicemente come il passaggio da un concetto più vago — concetto teoretico della pedagogia — a uno più circoscritto che nel caso in questione corrisponde a un concetto della scienza empirica. In questo caso la riduzione nel considerare l’educazione in termini di apprendimento sta nell’incapacità a livello empirico di accogliere tutti gli elementi astratti o metafisici propri del concetto teoretico e di conseguenza non controllabili dalle leggi e dal controllo empirico. L’esito di questa riduzione, che orienta nella direzione di un significato univoco di educazione, interviene sia sul carattere polisemico del termine sia «limitando l’ambito denotativo del termine con il determinarne più rigorosamente, attraverso il controllo empirico, le connotazioni» (Laporta, 1996, p. 114). Il pericolo del riduzionismo che inevitabilmente questa impostazione solleva viene affrontato da Laporta cercando di mostrare come le classiche questioni teoretiche della pedagogia trovino spazio nella cornice da lui delineata in modo più specifico e controllabile empiricamente, così che il problema della libertà dell’educando possa ripensarsi come problema della libertà in situazioni di apprendimento, trovando nelle nozioni di motivazione o scelta della condotta dei riferimenti empiricamente controllabili (Acone, 1995, p. 276).

Queste correlazioni tra libertà, motivazione e condotta, nel senso appena considerato, liberano l’educazione da quelle dimensioni teoretiche attribuendole un significato empirico che in questo caso si traduce nel fatto che si apprende sempre e solo per un atto di spontaneità. Il pensiero di Laporta, recuperando la dimensione costruttivista dell’educazione, consente di individuarne non solo la condizione di possibilità ma di evidenziare la complessità insita in questo concetto senza privilegiare questa o quell’altra dimensione, rinunciando a cogliere la «complessa articolazione fenomenologica dell’esperienza educativa» (Baldacci, 2006, p. 16). In questo senso, l’invito a pensare l’educazione senza semplificazioni, sia nella forma che nei contenuti, «rispettandone le dimensioni di vissuto che ingloba in un sistema sia il soggetto in formazione che colui che è chiamato a fare informazione» (De Mennato, 1999, p. 60) recupera l’evento educativo in tutte le sue complesse e molteplici sfaccettature seguendo un sentiero disposto a considerare la problematicità, la complessità e l’ambivalenza non come un’eccezione ma come categorie immanenti dell’uomo e della società.

Parlare di apprendimento richiede però necessariamente una riflessione sui cambiamenti che hanno caratterizzato e che ancora caratterizzano questo processo rendendolo sempre più orientato a privilegiare le strutture del sapere piuttosto che i contenuti delle nozioni, favorendo una dimensione metacognitiva e un modello di pensiero basato su una razionalità non più lineare e convergente ma circolare, caratterizzata da una partecipazione attiva del soggetto ai processi di apprendimento, restituendo così spazio a quegli aspetti intuitivi, creativi, emozionali, estetici, immaginativi, metaforici relegati a un ruolo di secondo ordine nell’educazione ispirata al paradigma classico.

Conoscenza e complessità

Un’ulteriore conseguenza dei modelli complessi, che gioca un ruolo importante nel campo dell’insegnamento/apprendimento e che attiene al modello epistemologico del costruttivismo radicale, riguarda la partecipazione attiva del soggetto nei processi conoscitivi. Le teorie della complessità presuppongono infatti un modello di mente che anziché rispecchiare oggettivamente la realtà esterna attui delle strategie operative per adattarsi al contesto riuscendo a integrare le perturbazioni attraverso una continua riequilibrazione nei confronti dei mutamenti imprevisti dello sfondo.

Sebbene il carattere pluralistico del paradigma della complessità rifiuti soluzioni rigide e unilaterali impedendo di fare terra bruciata delle conquiste del pensiero educativo correlato al paradigma classico, che vanno però integrate in una visione più ampia e comprensiva, i pedagogisti che aderiscono a questa prospettiva promuovono una serie di principi a cui far riferimento riguardanti in primo luogo la comunicazione tra cultura scientifica e cultura umanistica in grado di favorire un approccio al sapere meno dogmatico, più pluralistico e articolato e al tempo stesso meno neutrale e asettico, capace di interpretare il mondo in modo più ricco e flessibile.

In secondo luogo, si ribadisce il carattere non lineare dell’apprendimento che comporta in tutti i momenti della vita di un individuo l’uso di una conoscenza di tipo flessibile che sappia interpretare i diversi problemi sia con processi di tipo bottom-up, dal basso verso l’alto, dai dati ai concetti, che top-down, dai concetti alla realtà esperienziale allargando lo spazio di informazioni necessario per il raggiungimento di una decisione finale. In un contesto scolastico ciò significa che, sebbene la suddivisione delle materie così come la ripartizione interna dei contenuti delle stesse si basino su un criterio di organizzazione didattica del sapere, non bisogna perdere mai di vista il fatto che la realtà così come la mente di un alunno vadano accolte nella loro pienezza, favorendo, in considerazione di ciò, un’organizzazione dell’insegnamento più attenta alle strategie dei processi che alla formalizzazione analitica degli obiettivi e alla scomposizione dei compiti, in cui la conoscenza, raffigurabile con l’immagine di un reticolo dinamico in cui le conoscenze sono interconnesse e interagenti l’una con l’altra e in cui proprio solo dalla loro interazione si ha nascita di conoscenza, si configuri soprattutto come esplorazione di percorsi che abbiano un senso autentico per il soggetto che li percorre, piuttosto che «come una costruzione composta da vari mattoni impilati via via dal basso verso l’alto, dal semplice al complesso, dal concreto all’astratto» (Fabbri Montesano e Munari, 2007, p. 338).

Altro elemento di attenzione da parte degli epistemologi della complessità riguarda l’articolazione lineare e razionale delle unità didattiche e la conseguente organizzazione gerarchica degli obiettivi che favorirebbero un offuscamento della complessità degli eventi e dei fenomeni. Infatti, come sostengono Cambi, Cives e Fornaca occorre ripensare teorie e prassi educative «avendo l’avvertenza che non pagano le scelte del riduzionismo razionale, tecnologico, della schematizzazione logica, della programmazione lineare» (Cambi, Cives e Fornaca, 1991, p. 167).

Rinunciare alla trappola del pensiero lineare in educazione significa non solo accettare l’idea che l’alunno «sia sempre meno pensabile come un futuro da scoprire, ma debba essere un programma da realizzare, diventi materiale umano» (Boselli, 1991, p. 51), ma anche accogliere la problematicità antinomica (tra autonomia ed eteronomia, bisogni del soggetto e richieste della società, interesse e sforzo, pianificazione e improvvisazione creativa) del fatto educativo che non può né essere eliminata né ridotta in una sintesi definitiva.

La pedagogia, in qualità di scienza umana non può essere pensata, secondo le coordinate del paradigma classico, come in grado di affrontare i problemi divergenti che la riguardano come problemi convergenti e pertanto risolvibili con formule scientifiche a senso unico, ma assumendo un approccio sempre curioso e interrogante che opera e gestisce i propri metodi leggendo il fatto educativo secondo la complessità della relazione uno/due/molteplice (Annacontini, 2008, p. 153).

Nella pedagogia della complessità non c’è spazio che per un sapere pluralistico e antigerarchico, dove la molteplicità delle connessioni tra i suoi diversi aspetti ben si adatta a una visione più democratica e comprensiva delle differenze individuali nei processi conoscitivi. L’allievo non può essere considerato come una banale macchina in cui immettere input per produrre output e con cui l’educatore, secondo un’impostazione comportamentistica di tipo skinneriano, agisce dall’esterno al fine di indurre nell’organizzazione cognitiva dell’alunno determinati comportamenti. L’allievo, piuttosto, è possessore di una sua autonomia ed è in grado di interagire e apprendere, insieme con l’insegnante, nell’ottica di una programmazione coevolutiva.

Promuovere l’autonomia è la sfida che la scuola deve accogliere per rinnovarsi e per garantire, in una società in cui le agenzie educative e le occasioni di informazione si moltiplicano anche all’esterno dell’ambiente scolastico, maggiori possibilità di rapporti orizzontali tra gli allievi soddisfacendo il bisogno di comunicazione tipico dei giovani nella creazione di spazi di apprendimento da gestire insieme e che abbiano un senso per chi vuole intraprendere ricerche e iniziative concretamente finalizzate.

In una visione dell’educazione coerente con il paradigma della complessità, l’accesso al pensiero plurale richiede in primo luogo che l’istituzione scolastica sia antiautoritaria e antidogmatica capace di assicurare con il suo insegnamento l’apprendimento per tutti gli allievi e in secondo luogo che la professionalità degli insegnanti sia tale da fornire agli allievi sia affascinanti orizzonti culturali e pluralistiche forme di conoscenza, sia strumenti cognitivi e valoriali con i quali poter interagire nella società del cambiamento, complessa e in trasformazione.

Di conseguenza l’insegnante deve sempre di più sapersi caratterizzare secondo un profilo dinamico a più dimensioni, rinunciando all’immagine ipertrofica del docente tuttologo depositario e trasmettitore del sapere per indossare gli abiti di un architetto dell’educazione e dell’istruzione secondo un profilo che risponda a più istanze: alle irrinunciabili competenze professionali e teoriche del sapere, riguardanti le conoscenze psicopedagogiche, culturali e contenutistiche delle discipline insegnate; alle competenze operative inerenti il cosa saper-fare relative alla padronanza metodologica ed empirica; alle competenze relazionali del saper interagire con gli altri nelle dinamiche socio-affettive con gli allievi e alle competenze deontologiche del saper-essere intese come capacità di salvaguardia dei valori democratici della cittadinanza e della singolarità dell’individuo fortemente minacciata dalla triplice alleanza tra la globalizzazione dei mercati (in cui si avverte una forte competitività sia a livello economico che in ogni aspetto esistenziale), dell’informazione (impoverita dalla parcellizzazione elettronica del linguaggio e del pensiero) e della cultura (sempre a rischio di uniformizzazione e omologazione dei modelli di vita quotidiana).

Considerata la conoscenza nel suo carattere provvisorio e mai definito di interpretazione della realtà, diventa fondamentale per la scuola proporsi non solo come un veicolo di conoscenze ma come un luogo di conoscenze, che sappia offrire ai suoi abitanti la possibilità di imparare a imparare utilizzando gli strumenti intellettuali. L’obiettivo è prolungare il processo di apprendimento per l’intero arco di vita coprendo tutte e cinque le fasi dell’esistenza dell’individuo (l’infanzia, l’adolescenza, la giovinezza, l’età adulta e la senescenza), in un longitudinale procedimento di life long learning in cui è prioritario rispetto al quanto conoscere, caratterizzato da saperi mnemonici e riproduttivi, il come conoscere, inteso come capacità di costruzione del sapere da parte di teste-ben-fatte in grado di assicurare un tipo di apprendimento senza fine e di arginare il rischio dell’evaporazione delle conoscenze.

L’impegno pedagogico

Consapevoli del fatto che chi opera in educazione si trova a doversi confrontare con le conseguenze che i fenomeni socio-politici e i condizionamenti della globalizzazione impongono al cittadino del terzo millennio, il richiamo al paradigma della complessità, che suggerisce un approccio alla conoscenza diverso da quello tradizionale e favorevole all’utilizzo di strategie di pensiero multidimensionali e di modelli che si connettono a vari livelli, si conferma il paradigma più adatto per l’uso di una nuova razionalità (complessa, appunto!), in grado di superare la limitatezza e l’unilateralità delle concezioni lineari e meccanicistiche. La pedagogia deve perciò rifondarsi e orientarsi verso elementi di pluralismo e di dialetticità che devono essere i «regolatori della metateorizzazione, poiché capaci di garantirne la fedeltà alla complessità/problematicità e alla specificità epistemica» (Cambi, 1986, p. 27). La rifondazione della pedagogia sul nuovo modello epistemologico della complessità, rispetto a quello empiristico basato sul fiscalismo e quindi sul primato delle scienze naturali come strumento di investigazione scientifica, si orienta a un pensiero generale multidimensionale e ipercomplesso, più globale che unilaterale, caratterizzato sia da antinomie e ambivalenze, da problematicità e polivalenze che da razionalità e mediazione, in grado di cogliere la specificità del discorso pedagogico.

A Morin va il merito del superamento di un’epistemologia di matrice empiristica in favore di un’epistemologia dove «i caratteri del disordine, del superamento dell’universalità della complicazione, dell’organizzazione, dell’ologramma della fine dei concetti chiusi e della chiarezza e dell’assenza della comprensione ecc., danno vita a un paradigma cognitivo scientificamente trasversale» (Cambi, Cives e Fornaca, ١٩٩١, p. ١٣٤).

Il pensiero moriniano accoglie l’idea di una epistemologia comprendente in grado di assicurare la promozione della libertà attraverso una pluralità di teorie e prassi educative in cui la scienza, superando i limiti teoretici classici-empirici, si configura nell’era della complessità non più come «razionalità (già) formalizzata e dottrina (già) strutturata, ma quale intreccio di invenzione, creatività, sperimentazione, tentativo, saggio, che nel mentre si costruisce muta, trasforma la stessa coscienza dello sperimentatore, divenendo dapprima intreccio, tessitura, trama e poi teoria» (De Siena, ٢٠٠٣, p. ١٦).

Il modello di un sapere aperto e complesso si sostituisce a quello oggettivistico/naturalistico inglobando non solo la soggettività umana promotrice di immaginazione ma promuovendo un tipo di conoscenza che non è adeguatio interna della realtà oggettiva, bensì «conoscenza prodotta dal soggetto produttore che non riflette direttamente il reale, ma lo traduce, lo ricostruisce, lo trasforma in un’altra realtà» (De Siena, 2003, p. 148).

Liberata dagli sterili dualismi corpo/anima, cervello/mente, natura/cultura della unidimensionalità paradigmatica in favore di una multi-meta-paradigmaticità, la pedagogia, come scienza dell’educazione, in aperto scambio con le altre scienze trae nutrimento, sia sul piano della teoresi che della prassi, dal disordine (contrasto teoria/prassi) e dal caos informazionale (interdisciplinarietà) attraverso un procedimento ricorsivo di organizzazione e riorganizzazione degli elementi caratterizzanti sia il suo sapere che la sua autonomia epistemologica, per far sopravvivere e riprodurre le proprie teorie che si degradano e si rinnovano.

Così concepita la pedagogia della complessità si configura come una scienza a cui è affidato il compito di investigare, in una democrazia cognitiva, le dimensioni pratiche e teoretiche di una nuova forma di educazione che sappia garantire una riforma del pensiero in direzione transdisciplinare, coinvolgendo tutti gli aspetti del discorso pedagogico dal linguaggio, all’uomo, alla società.

La complessità e problematicità delle situazioni esistenziali, che la pedagogia e l’educazione nella loro duplice dimensione critico-progettuale riflettono, richiedono una vasta gamma di repertori linguistici che trovano in quello narrativo il linguaggio preferito, sia per la sua capacità di innescare i processi di transfert, sia per la sua valenza descrittiva, nonché per il suo potere di riconoscere l’elevato valore cognitivo dell’analogia che, «presa in senso lato con la sua cugina somiglianza (o similarità), è certamente il supporto di numerose attività cognitive» tale da ritenerla «uno dei determinanti fondamentali del funzionamento cognitivo» e della metafora, che costituisce «un indicatore di non linearità locale nel testo o nel pensiero, [...] un indicatore d’apertura del testo o del pensiero a diverse interpretazioni o reinterpretazioni» per «ragionare con le idee personali di un lettore o di un interlocutore» (Morin, 2000, p. 94). A ciò si aggiunga l’uso contemporaneo della spiegazione, della comprensione e dell’argomentazione per lo studio della condizione umana in un’ottica non disgiunta ma transdisciplinare.

Se la spiegazione, in qualità di «procedura di tipo scientifico, la cui logica è caratterizzata dai procedimenti di inferenza e dalla enucleazione sperimentale di un principio oggettivo di causazione di una classe di fenomeni» o eventi, «mira a ridurre la complessità e il pluralismo degli eventi educativi e dei discorsi pedagogici, il loro status polimorfo e selvaggio, applicandovi le procedure e i principi della scienza moderna, secondo un’ottica che vede le scienze umane (e perfino quelle estreme fra esse, come la pedagogia) regolabili e ristrutturabili attraverso il modello logico dell’empirismo, attraverso la sua logica sperimentale» (Cambi, 1986, pp. 123-124), la comprensione consente di cogliere insieme il testo e il suo contesto, le parti e il tutto, il molteplice e l’uno e si sostanzia, secondo Morin, non solo a livello intellettuale o oggettivo ma soprattutto a livello intersoggettivo o umano, portando a considerare l’altro non come oggetto ma come alter ego e comportando un processo di empatia, di identificazione e di proiezioni. Sempre intersoggettiva, la comprensione richiede apertura, simpatia e generosità. Affinché possa esserci comprensione fra le varie strutture di pensiero, afferma Morin: «occorre poter acquisire una meta-struttura di pensiero che comprenda le cause dell’incomprensione delle une rispetto alle altre e che possa superarle. La comprensione è nello stesso tempo mezzo e fine della comunicazione umana» (Morin, 2001, p. 98).

Alla base dell’epistemologia moriniana si pongono pertanto i caratteri di superamento della visione riduzionistica del modello empiristico-operativo, incapace di guardare dal di dentro i suoi elementi di acriticità e di oltrepassare l’assunzione del fisicalismo come unico modello di sapere che riduce il complesso al semplice, il pluralismo alla singolarità e di garantire la dialogicità fra modelli di sapere che la storia della pedagogia ha sempre considerato come contrapposti.

La revisione della logica della scienza ha dato luogo, verso la metà degli anni Ottanta, all’esplosione della complessità come paradigma culturale governando ogni aspetto dell’esperienza, dalla società al soggetto, dal pensiero alla cultura e dimostrando la pluralità dei suoi volti da quello epistemologico a quello cognitivo, sociale, interculturale, tecnologico e informativo.

Educare alla complessità, senza semplificarla, come dice Morin, significa in primo luogo assolvere il compito cognitivo di formare le menti, gli stili cognitivi, le diverse formae mentis secondo modelli cognitivi trasversali e innovativi, capaci di sfidare il consueto e l’ordinario attraverso un gioco sottile di rimandi, distinzioni e integrazioni in cui sia contemplato l’uso, ad esempio, della metafora, della narrazione, dell’interpretazione, in grado di rendere la conoscenza sempre più dismorfica, plurale e problematica.

Per l’educazione si apre così una sfida che coinvolge in primis una delle sue principali agenzie, la scuola, impegnata nel difficile compito di abitare e formare a comprendere la complessità. Se la complessità è da intendersi quindi come un’esigenza imprescindibile di un tipo di conoscenza che si muove in direzione di un universo incerto, in grado di gestire le ansie provocate dall’assenza di regole predefinite e generalizzate, la scuola non può sottrarsi a questo nuovo progetto culturale: «La complessità della scuola è legata alla natura probabilistica della relazione attorno alla quale ruotano tutte le attività e i processi che in essa si sviluppano: insegnamento e apprendimento. Ma ciò che veramente succede in una situazione di insegnamento-apprendimento non è mai del tutto conoscibile né predeterminabile con i soli strumenti della razionalità» (Studi e Documenti degli Annali della Pubblica Istruzione, 2000, p. 26).

Ne consegue che l’indiscussa e assoluta fede nella ragione non può essere accettata in modo incondizionato, se si tiene presente che nei processi di insegnamento e apprendimento entrano in gioco numerose variabili, da quelle emotive a quelle affettive e intuitive non facilmente riconoscibili e valutabili: «Gran parte dei fenomeni che incidono su questi processi avvengono secondo logiche proprie, con dinamiche che sfuggono ai tentativi di controllo progettuale. Attraverso la razionalità possiamo elaborare congetture sulla base delle quali possiamo rappresentare realtà complesse, costruendo ipotesi di nessi ragionevoli tra ciò che si fa e i risultati che si vogliono realizzare dando una descrizione sensata alle situazioni e formulando previsioni in ordine alla sua probabile evoluzione» (Studi e Documenti degli Annali della Pubblica Istruzione, 2000, p. 84).

Nella stessa direzione di apertura e mobilità si muove anche il problematicismo pedagogico contemporaneo. In questo senso si esprimono infatti Franco Frabboni e Franca Pinto Minerva quando asseriscono che non è più un singolo modello a egemonizzare il progetto pedagogico ma «la problematicità, la complessità e la pluralità di tutti i possibili e più diversificati approcci di ricerca» (Frabboni e Pinto Minerva, 2002, p. 38).

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1 Assegnista di ricerca e docente a contratto di Pedagogia dell’infanzia e della adolescenza, Università degli Studi di Urbino «Carlo Bo»..

2 Università degli Studi di Urbino «Carlo Bo».

3 Per una maggiore trattazione dell’argomento si veda: Baldacci, 2006, pp. 15-22; Laporta, 1996.

Vol. 8, Issue 2, October 2022

 

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