Vol. 7, n. 2, ottobre 2021

TEORIA DELLA FORMAZIONE: CONTESTI SCOLASTICI

Verso un’educazione etico-sociale nella comunità scolastica (e oltre)

Uno sguardo sociologico

Giorgio Manfré1

Sommario

Questo articolo esplora alcune tra le principali prospettive sociologiche allo scopo di delineare una riflessione sull’educazione etico-sociale nella comunità scolastica attuale e, più in generale, nelle altre agenzie educative e di socializzazione del mondo contemporaneo. Attraverso un percorso che affronta analiticamente i concetti di morale, identità e relazione intergenerazionale, l’obiettivo principale di questa proposta consiste nell’evidenziare l’importanza di un rinnovamento dell’azione educativa attraverso un diverso equilibrio tra normatività delle appartenenze sociali e desiderio di partecipazione democratica.

Parole chiave

Educazione etico-sociale, Comunità scolastica, Identità, Rapporti intergenerazionali, Desiderio di partecipazione democratica.

THEORY OF TRAINING: SCHOOL CONTEXTS

Towards an ethical-social education in the school community (and beyond)

A sociological perspective

Giorgio Manfré2

Abstract

This article explores some of the main sociological perspectives in order to outline a reflection on ethical-social education in the current school community and, more generally, in educational and socialization agencies of the contemporary world. Starting from an analysis that focuses on the concepts of moral, identity and intergenerational relationship, the main objective of this proposal is to highlight the importance of a renewal of educational action through a different balance between normativity of social belongings and the desire for democratic participation.

Keywords

Ethical-social education, School community, Identity, Intergenerational relationships, Desire for democratic partecipation.

Introduzione

Il problema regolativo della convivenza civile e del suo fondamento morale ha assunto nel tempo una crescente rilevanza, sia per la costruzione delle teorie scientifiche sia per quanto riguarda, in generale, la strutturazione dei processi socioculturali. D’altro canto, non potrebbe essere altrimenti: da sempre, per così dire, il lógos della morale è nel lógos della società. È però nella modernità, in particolare, che mutano e si moltiplicano sensibilmente i modi di descrivere la società e quindi, giocoforza, di descrivere la morale stessa. Da allora, per molti versi, si procede implementando ulteriormente questa stessa costellazione semantica: tanto è vero che la morale e la sua riflessività, l’etica, oggi si confermano come chiavi di volta della sociologia, anche di quella che vorrebbe mettere definitivamente da parte gli aspetti dialogici in favore della razionalizzazione tecnica delle relazioni sociali.

A questo riguardo, il presente lavoro muove da una precisa scelta di campo: quella di prediligere l’espressione «etico-sociale» ritenendola, in sintonia con Massimo Baldacci (2020), più adeguata rispetto alla più tradizionale categoria di «morale» — intorno alla quale comunque prenderà corpo la nostra analisi — a fare emergere, alla fine, l’essenziale dimensione dialogica dell’agire educativo, nonché la specificità del ruolo della scuola rispetto a questo aspetto cruciale della formazione. Da tale prospettiva, l’etica si configura — diversamente, appunto, dalla morale corrente — come quel significante che dischiude il senso di una comunità, ovvero il costume (o l’habitus) che in quest’ultima rinvia a ciò che è bene non solo e non tanto al livello delle singole coscienze individuali, quanto piuttosto, per usare una locuzione di Émile Durkheim (1962) molto cara ai sociologi, al livello della «coscienza collettiva». È su questo piano, infatti, che può concretamente dispiegarsi l’orizzonte della democrazia partecipativa e della cittadinanza come dimensione propriamente etica dell’educazione scolastica (Dewey, 2000).

Educazione morale e identità sociale

Sulla base di questi presupposti è tuttavia opportuno mettere a fuoco, in primo luogo, la peculiarità della prospettiva sociologica rispetto al tema classico dell’educazione morale, evidenziando come in un certo senso le due cose — l’educazione e la morale — siano strettamente intrecciate tra loro. A questo scopo possiamo fare ricorso a una formulazione sociologica stilizzata che recita: l’educazione va considerata come quella «azione metodica» (Parsons e Bales, 1974) e «pedagogicamente intenzionale» (Luhmann e Schorr, 1988) — condizionata dalle diverse epoche storiche e dalle differenti culture — tesa a suscitare, nel bambino o nel ragazzo (nel caso della scuola), e in genere nell’educando, un’ampia gamma di stati emotivi, cognitivi e morali (Durkheim, 1992) che il più delle volte riconducono in un contesto asimmetrico di interazione una generazione adulta e una, invece, non ancora matura per la vita sociale. In breve, dai tempi di Durkheim a oggi, agli occhi del sociologo l’educazione consiste, sostanzialmente, nella «socializzazione metodica — e non universale — delle nuove generazioni». In particolare, si può parlare in modo sociologicamente appropriato di educazione laddove è possibile osservare, distintamente, l’intenzionalità dell’atto educativo, e unicamente nella misura in cui è chiaro che il comportamento insegnato al livello intergenerazionale viene presentato come comportamento giusto (Baraldi e Corsi, 2017). Da qui il nesso, pressoché inscindibile, con la dimensione morale.

Affinché il rapporto educativo possa allora effettivamente ritenersi tale, questo dovrà esplicitarsi nella trasmissione consapevole di contenuti normativi e valoriali, tra le cui componenti indispensabili vi sono, principalmente, i comportamenti e le pratiche morali. Riassumendo a grandi linee quanto sostenuto nella prima parte del mio rapporto di ricerca (Manfré, 2020), comportarsi moralmente significa agire in modo conforme a una norma appropriata a una determinata situazione (o a un certo contesto) prima ancora di trovarsi incalzati dalla necessità di prendere una decisione vincolante. Si tratta di un dovere che in qualche modo il bambino o il ragazzo ha interiorizzato nell’ambito del processo educativo (Durkheim, 1992; Parsons e Bales, 1974) — quello scolastico, nella fattispecie — grazie all’efficacia dell’azione pedagogica esercitata dall’educatore (il maestro o l’insegnante). Dobbiamo dunque distinguere due elementi che, tuttavia, si presentano ancora una volta fra loro interrelati: da un lato, per l’appunto, il dovere (la disciplina che consente di orientarsi in modo pertinente a un contesto strutturato, esterno all’educando) e, dall’altro, il bene (l’elemento sensibile, interno all’educando, che prende le distanze da tutti quei comportamenti inappropriati che la struttura disciplinare intende scoraggiare o disincentivare sempre attraverso l’azione dell’educatore). In breve, la disciplina morale può essere efficacemente trasmessa al livello del processo educativo nella misura in cui, al bambino o al ragazzo, venga reso al tempo stesso doveroso e desiderabile abbracciare le norme e i valori della coscienza collettiva, ossia della società. Occorre, in altre parole, che la società sia desiderata come tale. Solo così i valori morali comuni — che indubbiamente limitano in una certa misura il comportamento — potranno poi essere interiorizzati e, quindi, sentiti come propri. Ecco allora perché la morale può essere realizzata sul piano fattuale, unicamente laddove c’è senso di appartenenza alla comunità, attaccamento al gruppo. Come scrive Durkheim (1969, p. 533): «La moralità ha inizio semplicemente con l’appartenenza a un gruppo umano, qualunque esso sia».

Se dunque l’educazione intende essere a tutti gli effetti morale, questa dovrà realizzarsi nelle forme proprie all’agire genuinamente sociale; dovrà, in buona sostanza, essere in grado di infondere — e al tempo stesso rendere desiderabile — nelle giovani generazioni la coscienza collettiva che caratterizza il senso di appartenenza al gruppo della generazione adulta. Il primo compito dell’educazione morale consiste, perciò, nel congiungere il bambino alla società a lui più prossima: la famiglia, appunto. In un secondo momento, sarà la comunità scolastica a dover ulteriormente consolidare il legame tra i più giovani e la società nel suo complesso. Certo, per la scuola non è facile individuare con precisione i momenti peculiari dell’educazione morale. Come è noto, infatti, essa assume un carattere latente (Parsons e Bales, 1974), indiretto rispetto al comune svolgimento dell’attività didattica (Baldacci, 2020). Eppure, nel contesto delle attività culturali, mentre si insegna, si sviluppano continuamente capacità di comportamento e di ragionamento morale (Martini e Tombolato, 2021).

Ora, poiché il nostro studio sugli atteggiamenti morali si è rivolto in modo privilegiato alla pre-adolescenza, cioè a quella fase dello sviluppo considerata metaforicamente da più parti una «terra di mezzo» (Aroldi e Colombo, 2013; Magnoni e Venera, 2009), in cui però comincia a prendere forma il «Sé psico-sociale» (Mead, 1966), abbiamo ritenuto essenziale dare spazio a una rivisitazione in chiave sociologica del processo di costruzione dell’identità. È nella pre-adolescenza, difatti, che emergono alcuni cambiamenti significativi — sia al livello introspettivo, sia al livello esteriore (Rizzardi e Tognazzi, 2021) — che preludono alla progressiva ricerca di identità la quale, a sua volta, si configura nella logica valoriale del confronto-differenza con gli adulti o, più in generale, nella relazione con gli altri (ad esempio nel gruppo dei pari). Non a caso tale ricerca nasce da un inaggirabile paradosso: la sorprendente scoperta che, in questo delicato momento della vita, non vi è pieno appagamento del desiderio individuale, se non nei termini di un superamento al livello collettivo del proprio egoico e solipsistico narcisismo.

In questo quadro teorico, il concetto di «identità» può allora essere efficacemente descritto come l’insieme di due processi fra loro complementari: il processo di individuazione e quello di identificazione (Gallino, 1987). Per l’individuo, individuazione significa capacità di tracciare una differenza osservabile tra sé e l’altro da sé, di differenziarsi dal mondo esterno, e di mantenere, nel tempo, il senso di tale differenza. Al contrario, l’identificazione è il risultato della tendenza alla compartecipazione, a essere incluso, nel senso di una comunanza o di un’affinità con altri in virtù della quale l’individuo sente di essere aggregato in una realtà più ampia che lo sollecita «a usare come parlante il noi in luogo dell’io» (Gallino, 1987, p. 169). Questi due processi sono, per l’appunto, reciprocamente funzionali, nel senso che non è data — o meglio: non dovrebbe darsi — individuazione senza identificazione e viceversa. L’identità, in altre parole, si prospetta nei termini di un gioco continuo di rimandi fra differenza (individuazione) e uguaglianza (identificazione). Essa, come ben chiarisce Niklas Luhmann (1983, p. 27), «non è una sostanza autosufficiente, ma è una sintesi coordinante che conferisce un determinato ordine ai rinvii ad altre esperienze possibili».

Il problema attualmente sembra dunque essere che, nella nostra società, l’auspicabile equilibrio fra i due processi di cui sopra sia progressivamente venuto meno. Facendo riferimento alla cosiddetta «società liquida» (Bauman, 2013; 2018), la teoria sociologica parla di un surplus di individuazione e di un deficit di identificazione. Come se, in effetti, si fosse smarrito il luogo della localizzazione dell’individuo, della sua inclusione. Si potrebbe dire così: in una dinamica alquanto paradossale, oggi l’individuo tenta di recuperare il senso della propria identità cercando di colmare il deficit di identificazione attraverso sempre nuove individuazioni. E, ciò nonostante, non vi riesce, poiché sono le identificazioni che rendono poi possibile l’individuazione. In definitiva, è solo l’appartenenza a un contesto socioculturale — cioè l’interiorizzazione delle sue norme e dei suoi valori morali — che, di fatto, mette l’individuo nelle condizioni di sapere come individuarsi: venendo a mancare o essendo debole l’identificazione, insomma, l’individuazione gira a vuoto.

Non si fraintenda, però. Non è che non vi sono ancora i gruppi o i momenti di aggregazione, i partiti o i movimenti politici, i movimenti ambientalisti, i club e quanto altro. Anzi, ve ne sono sicuramente molti di più rispetto al passato. Il problema, piuttosto, sta nel fatto che queste stesse appartenenze collettive sembrano essere vissute, almeno per la gran parte, come alternative reversibili e contingenti; ovvero: come l’espressione di un incessante rinvio ad altro da sé, a un sempre possibile altrimenti.

La mancanza di complementarietà tra identificazione e individuazione si riscontra, naturalmente, anche nel caso inverso (un po’ meno generalizzato, ma comunque sempre innervato nel mood della contingenza), contraddistinto da un surplus di identificazione e un deficit di individuazione: basti pensare alle forme contemporanee di integralismo, di etnocentrismo o di esasperato nazionalismo (Bauman, 2013; 2018), ma anche ai gruppi di hater in rete o al bullismo — più o meno cyber — delle bande giovanili (Bartholini e Marcantonio, 2007).

In questo scenario molto frammentato e incerto, una cosa, tuttavia, appare abbastanza evidente: nell’attuale società complessa, con l’evanescenza di ogni spazio di identificazione collettiva, i bambini o i ragazzi (pre-adolescenti, adolescenti, ecc.), così sollecitati, si ritrovano a fronteggiare un potente carico emozionale, senza avere più a loro disposizione spazi adeguati di riflessione o di contenimento. Oggi, così si dice, la sfera emotiva viene normalmente incalzata da un numero di possibilità di esperienza superiore rispetto a quelle che sono le effettive capacità di elaborazione cognitiva da parte dei giovani (ma anche degli adulti). A ciò va poi ad aggiungersi che, tale eccedenza, dovrà sempre essere gestita in una dinamica fluttuante, nomade, di continua reversibilità (Crespi, 2004).

Riguardo quest’ultimo aspetto, una tra le più ampie e articolate indagini sociologiche sulla condizione giovanile, condotta attraverso una metodologia di tipo prettamente quantitativo (studio che è appunto parte del vasto repertorio di ricerca sul tema che, fino a un certo momento, l’Istituto Iard ha pubblicato con cadenza annuale), pone in risalto la progressiva affermazione non del «nichilismo» di cui parla, ad esempio, il filosofo Umberto Galimberti (2007), bensì di una sorta di «politeismo valoriale», intendendo con quest’ultima celebre espressione di impronta weberiana, la pluralità di riferimenti vissuta dagli adolescenti come un modo per sottrarsi alla consapevolezza del significato delle proprie scelte (Buzzi, Cavalli e De Lillo, 2007). Ciò che, inoltre, emerge — da questa indagine Iard, come anche da un’altra importante ricerca mirata, in particolare, sul rapporto tra giovani e scuola (Cavalli e Argentin, 2007) — è la tendenza alla costruzione di un’identità estremamente individualizzata, in linea d’altronde con le caratteristiche della società attuale descritte fin qui. Ma l’elemento forse più interessante che le ricerche citate mettono in luce è che i valori cui gli adolescenti attribuiscono maggiore significato — la famiglia, l’amicizia, l’amore — riguardano, essenzialmente, la sfera dell’affettività: ciò ci induce a ritenere che, come suggerisce Baldacci (2020), questo indicatore sia correlato a un’esigenza diffusa di comunità, la quale già per se stessa potrebbe rivelarsi preziosa, quantomeno per controbilanciare la tendenza all’individualizzazione identitaria di cui sopra.

Si tratta, peraltro, di un aspetto significativo per maestri e insegnanti, poiché la comunità scolastica mette in gioco, fra le altre cose, anche la dimensione affettivo-morale dell’esperienza, e quindi la scuola è destinata a generare successi o insuccessi formativi anche su questo piano. L’apprendimento, ad esempio, non può realizzarsi senza curare gli aspetti affettivi e morali dell’educazione, così come non può esserci ragionamento morale o un processo cognitivo efficace in assenza di componenti emotive e affettive (Santerini, 2011).

Il valore formativo della storia

Spesso si ha la netta sensazione che una tra le ultime generazioni di giovani — quella dei millennial — sia la prima ad avere impresso una vera e propria inversione nel senso direzionale della cultura: non più, come sempre è stato, dagli adulti ai giovani, ma al contrario, dai giovani agli adulti. Come se la cultura non fosse più soltanto un processo discendente, dai genitori ai figli, ma in molti casi avrebbe ormai assunto un andamento ascendente, dai figli ai genitori. Una sorta di iniziazione rovesciata che passa, inevitabilmente, attraverso le nuove e interattive tecnologie della comunicazione. Certo, le cose non stanno poi esattamente così — o meglio: non dovrebbero esserlo e non sempre lo sono; tuttavia, che la tendenza in atto sia questa, sembra essere fuori discussione (AA.VV., 2012). In effetti, la sorprendente disinvoltura con la quale adolescenti e pre-adolescenti esperiscono la dimensione high tech dà spesso agli adulti l’impressione di vedere all’opera dei giovanissimi iniziatori e maestri dei nuovi linguaggi informatici. E se si tiene conto della grande influenza che i vari device digitali hanno assunto sugli stili di comportamento di tutti, questo non è certo un aspetto trascurabile. Una delle conseguenze più rilevanti al riguardo è che le ultimissime generazioni resettano continuamente il loro immaginario aggiornando in tempo reale (up to date) qualsiasi codice necessario a essere sempre connessi in rete. È appunto in tal senso che l’evoluzione tecnologica ha proiettato in modo completamente inconsueto i ragazzi più avanti, per così dire, dei loro educatori, facendo per certi versi vacillare l’idea tradizionale di una conoscenza cumulativa che si conquista con fatica e per tappe intermedie nell’ambito di un lungo processo di formazione.

Non si tratta, come accadeva in passato nei casi di formazione di nuove identità generazionali, di una chiara cesura che si riscontra nel momento stesso in cui i giovani cominciano a emanciparsi dalle tradizionali agenzie di socializzazione — famiglia e scuola — per proiettarsi con relativa autonomia di pensiero critico sulla scena pubblica (Mannheim, 2008). Questo scarto oggi si verifica in una fase addirittura precedente all’adolescenza, quando — per apprendere e per maturare un rapporto equilibrato con il mondo che li circonda — tale progenie necessita di punti di riferimento in grado di far valere una certa autorevolezza: genitori, maestri, insegnanti. Qui a essere messi seriamente in discussione sono i principi stessi su cui si fonda la relazione educativa. Comunque, l’impressione è che tutto ciò derivi, non solo e non tanto dalla tecnologia in sé, quanto piuttosto dal contesto relazionale fra giovani e adulti che le trasformazioni della struttura sociale hanno gradualmente contributo a determinare. Più precisamente: nel tentativo di colmare la distanza venutasi a instaurare nei rapporti intergenerazionali, in modo quasi inconsapevole la relazione educativa tende spesso ad assumere la forma di una relazione simmetrica nell’ambito della quale — in famiglia, nei vari contesti educativi, a scuola, alle volte anche all’università — il genitore, il maestro o il professore non sembrano rappresentare più di tanto un simbolo autorevole agli occhi dei più giovani.

Da un punto di vista puramente formale il fatto che la relazione appaia (seppur apparentemente) paritetica potrebbe anche non costituire un particolare problema, salvo quello di creare una certa confusione tra i differenti ruoli. È, invece, dal punto di vista propriamente sostanziale che la presunta simmetria della relazione rischia di generare un allarmante corto circuito: senza una chiara differenza asimmetrica, infatti, costruire un contesto propizio alla relazione educativa diventa parecchio difficile. Il problema sta nel fatto che, in questa trama atipica, sono prima di tutto gli stessi genitori a porsi nei confronti dei figli come altri simmetrici, così che la relazione fra loro rischia di trasformarsi in una sorta di relazione di scambio (Benasayag e Schmit, 2005), destinata inevitabilmente a generare non poche contraddizioni e incoerenze. In breve, si potrebbe dire così: pur di non arrivare al conflitto, essendo sempre meno capaci di dire dei no e quindi di creare le condizioni favorevoli all’attesa, in cambio di piccole contropartite i genitori concedono ai figli le cose prima ancora che questi ultimi le abbiano effettivamente desiderate.

Si capisce allora come mai, in questo clima esistenziale, per qualsiasi educatore sia sempre più complicato ottenere un riconoscimento concreto della propria autorevolezza, anche a partire da un’impostazione che segni uno scarto significativo rispetto alle forme tradizionali cui finora siamo stati abituati.

L’autorevolezza si fonda su quell’elemento comune, che è proprio ad ambedue i poli della relazione educativa, da un principio verso cui entrambi tendono, da un bene condiviso, ovvero da un valore che viene interiorizzato nell’esperienza affettiva e morale di ciascun singolo componente che in tale rapporto fiduciario viene coinvolto (Piazzi, 1999).

Tutti gli insegnanti, e gli educatori in genere, sanno quanto oggi sia importante creare, nell’ambito delle attività didattiche, un contesto adeguato a questo — così lo potremmo definire — andare insieme verso. Da ciò dipende la possibilità stessa di mantenere viva — in forme nuove, si intende — la trasmissione della cultura nell’ambito di un processo discendente dagli adulti ai giovani senza il quale cesserebbe di esistere il senso stesso del divenire storico. Sebbene tale processo dipenda da condizioni culturali che evolvono nel tempo, non deve tuttavia meravigliare il fatto che esso è sempre gravitato intorno a una struttura normativa rimasta pressoché costante.

Come sostiene l’etnologa francese Françoise Héritier (2000), infatti, questa universale struttura trasmissiva della cultura procede in modo invariante lungo la linea della sequenza anteriorità-autorevolezza verso posteriorità-discendenza. In questa successione, chi è più maturo — anteriore, preesistente rispetto al giovane — incarna una dimensione morale non perché gli viene attribuita a priori una particolare dotazione antropologica, bensì perché da lui deriva, in modo tangibile, la possibilità di diffusione della cultura. Questa struttura non esclude la possibilità del cambiamento, tutt’al più costituisce la garanzia di sopravvivenza del sapere della tradizione nel quadro di un processo ordinato dell’evoluzione culturale che prevede, da un lato, la trasformazione consapevole delle norme e degli stili di comportamento e, dall’altro, l’assunzione di responsabilità comuni a tutti i membri.

È proprio in questo movimento che la trasmissione culturale discendente esprime tutto il suo significato simbolico: connette — mette insieme (sym-ballein, per l’appunto) — l’appartenenza consapevole a una tradizione socioculturale con la concreta possibilità di trasformare, responsabilmente e secondo una certa continuità storica, ciò che è stato ed è (le norme e valori di riferimento) in ciò che sarà. Qui l’adolescenza costituisce una sorta di rito iniziatico che sancisce il passaggio dal ruolo di figlio a quello di membro della comunità che, unitamente alla famiglia di origine, lo ha socializzato. Come una seconda nascita: la fine di un tempo della vita e l’inizio di uno nuovo.

La logica del desiderio

Come è possibile, allora, attuare progetti educativi di senso morale ed etico-sociale nell’ambito di un contesto culturale che ha sostanzialmente indebolito — quando non addirittura: smarrito — la sua ritualità iniziatica? In assenza di una riflessione socio-pedagogica, politica e filosofica di ampio respiro critico su questo tema, riteniamo che difficilmente si potranno fronteggiare con successo le difficoltà che emergono nei contesti educativi e formativi in cui si gioca la relazione fra adulti e giovani. Non ci si può limitare a prendere atto che i ragazzi sono immaturi (o dis-maturi oppure dis-tratti) e che nell’attuale società complessa l’adolescenza si è notevolmente prolungata nel tempo. Su questo tutti concordano nel sostenere che si tratta di una tendenza di ordine storico. Si è arrivati a ritenere, ad esempio, l’adolescenza come un momento di crisi che oggi può addirittura protrarsi oltre i trentacinque anni di età.

Non si tratta di immaginare un romantico, o addirittura, melanconico, ritorno al passato. Semmai occorre riflettere, nel presente, su come è possibile trarre dal passato indicazioni preziose per progettare su nuove basi il futuro. È come se, per via delle proprie stesse esigenze strutturali, la società odierna non possa più prospettare ai giovani appartenenze che consentano di dare una forma espressiva al loro insopprimibile desiderio di imparare e di comprendere insieme.

Ora che l’attuale società liquida si dimostra incapace di contenere l’emotività debordante a causa dell’assenza di adeguati spazi sociali esterni di riflessione o di contenimento (basti pensare a questo proposito alle varie, e talvolta inefficaci, campagne di contrasto al cosiddetto analfabetismo emotivo), l’ipotesi che finisce col rivelarsi più ricca di implicazioni strategiche per fronteggiare tale criticità consiste, dal punto di vista di questo studio, nel rovesciare la prospettiva, cioè valorizzare al livello umano il potenziale interno. E da lì, proprio da queste risorse emotive animate dal desiderio, vivacizzate da nuove effervescenze creative, sensibilizzare forme di partecipazione democratica che possano favorire la nascita di solide e ben strutturate (dunque: convenientemente disciplinate) appartenenze socioculturali. Se quella che stiamo vivendo è davvero, come sostengono Benasayag e Schmit (2005), un’epoca delle passioni tristi, per l’appunto non favorevole al desiderio, allora forse questo pervasivo senso di melanconica tristezza dipende, fra le altre cose, anche dal carattere contraddittorio, e talvolta paradossale, di queste logiche nell’ambito delle relazioni educative. Come ci ricorda Lev Tolstoj in Anna Karenina, infatti, la melanconia non è altro che «il desiderio di un desiderio». Allo stesso modo, la depressione — la malattia dell’anima di cui, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, attualmente soffrono circa 322 milioni di persone nel mondo — consiste in una sostanziale inibizione dell’agire, ossia è il sintomo di un diffuso e lacerante senso di inadeguatezza per ciò che si dovrebbe/potrebbe essere in grado di fare e che, invece, non si desidera più nemmeno attuare (Ehrenberg, 2010).

Di fronte a questa situazione è difficile non pensare al classico contributo di Sigmund Freud e dell’intero movimento psicoanalitico su questo tema. Rispetto a ciò, infatti, la psicoanalisi chiarisce molto efficacemente come sia proprio il desiderio a generare la spinta motivazionale del bambino all’apprendimento. In particolare, Freud (2012) spiega la possibilità di accostarsi alla cultura da parte del bambino attraverso la «sublimazione della libido», cioè la competenza di scambiare sia la meta sia l’oggetto della pulsione libidica, affinché essa trovi il proprio soddisfacimento in un’attività alternativa, ritenuta socialmente ed eticamente di maggior valore. La sublimazione indica, in altre parole e più concretamente, la capacità del bambino di esprimere il desiderio di imparare, spostando una parte della propria pulsione libidica verso gli oggetti del mondo che deve abitare e comprendere.

Spesso, in effetti, oggi i problemi di apprendimento sono il sintomo di una profonda difficoltà di desiderare il «mondo della vita» (Habermas, 1997), di dare una forma espressiva a tale desiderio. Del resto, questa profonda istanza vitale non può sicuramente trovare spazi di espressione adeguati, allorché la struttura dominante dell’epoca attuale — quella del neoliberismo finanziario e tecno-mediale — enfatizza in ogni dove la logica utilitaristica del capitale umano come la sola strategia praticabile.

Pur tuttavia siamo dell’idea che la direzione da intraprendere debba auspicabilmente essere di segno divergente. Andrebbero realizzati, ecco il punto decisivo, ampi spazi democratici animati dal desiderio, di fare e di apprendere — anche se questo dovesse contrastare con le esigenze funzionali del mercato e con le logiche dei sistemi sociali sempre più emergenti. Particolarmente efficace, a tal proposito, suona il titolo di un libro abbastanza recente di Massimo Baldacci (2019), La scuola al bivio: mercato o democrazia?

Si tratta, insomma, di scegliere in che direzione andare, di «saper per prendere posizione», come amava spesso ripetere Michel Foucault (2001): in ciò consiste — concretamente! — la sfida di quest’epoca storico-culturale. È ciò che è possibile fare già nel presente per dare al futuro una diversa configurazione.

Educare al desiderio di cultura democratica significa creare un tessuto sociale vivo in cui possano emergere — nel rispetto del valore formativo della storia che ci ha preceduto — progetti capaci di condurre verso un reale rinnovamento. Proprio a partire dalla scuola. Dove altrimenti?

Come afferma sovente Massimo Recalcati (2012; 2014), è il contagio con il desiderio del maestro che suscita il desiderio dell’allievo. Il compito primo del maestro o della maestra, dunque, non è di trasmettere il sapere, ma quello di portare il fuoco, cioè accendere — anche a conferma di una propria rinnovata autorevolezza — il desiderio morale di sapere.

D’altra parte, sulla pressione di una frammentazione eccessiva e di una quantità smisurata di stimoli esterni rispetto a quelle che sono le loro effettive capacità di elaborazione, gli atteggiamenti degli allievi sono spesso caratterizzati dalla difficoltà nel dare un’adeguata forma espressiva a un carico emozionale che alla fine si rivela debordante, talvolta perfino fuori controllo. La diffusa persistenza di tali atteggiamenti sembra essere riconducibile, principalmente, a una sottovalutazione dell’educazione etico-sociale di cui oggi, invece, si sente sempre più l’urgenza: in famiglia, a scuola, forse anche all’università. Dare impulso a un’educazione etico-sociale costituisce una priorità poiché, in un’epoca in cui tutti i punti di riferimento vengono messi in discussione, essa rappresenta quel nucleo di senso riflessivo da cui dipende la convivenza civile, la cooperazione e, non ultimo, il benessere collettivo e individuale.

Proprio su queste basi, a scuola la promozione di una moralità concreta può quindi essere espressa dai valori della democrazia partecipativa, nei termini della relazione reciproca tra la sua peculiare eticità e la sua specifica forma di moralità. In tal modo la scuola, intesa appunto come comunità democratica (Dewey, 2000), avrà senz’altro maggiori possibilità di consolidare la dimensione più genuinamente dialogica dell’agire educativo e di garantire, a tutte le sue componenti, le condizioni essenziali per realizzare il loro pieno sviluppo morale, affettivo e intellettuale.

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1 Ricercatore confermato, Sociologia dei processi culturali e comunicativi - SPS/08 - Dipartimento di Studi Umanistici, Università degli Studi di Urbino «Carlo Bo». Questo contributo è parte (la mia seconda) del programma di ricerca Prin 2017 «Curricolo per l’Educazione Morale (CEM). La sfida della formazione morale dei pre-adolescenti oggi». Coordinatore nazionale del Progetto e Responsabile dell’unità operativa di Urbino (WP5): Prof. Massimo Baldacci.

2 Researcher and Lecturer in Sociology of Education - Department of Humanities, Università degli Studi di Urbino «Carlo Bo». This contribution is part (the second of mine) of the Prin 2017 research program «Curriculum for Moral Education (CME). The challenge of moral education of pre-teenagers today». National Project Coordinator and Head of the Urbino Operational Unit (WP5): Prof. Massimo Baldacci.

Vol. 7, Issue 2, October 2021

 

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