Vol. 7, n. 2, ottobre 2021

FILOSOFIA DELL’EDUCAZIONE

Il valore dell’incertezza

Gli effetti della pandemia tra crisi e cambiamento

Silvia Demozzi1 e Nicoletta Chieregato2

Sommario

L’emergenza pandemica attuale svela il tema della vulnerabilità umana, l’incertezza che accompagna le esistenze, nonché l’impossibilità di esercitare un controllo sull’intreccio di variabili che interagiscono in un sistema complesso. Si presenta come sintomo di una crisi più profonda di quella esclusivamente sanitaria: è la crisi dei paradigmi epistemologici e socio-economici della società modernamente intesa, rispetto ai quali si impone l’esigenza di un cambiamento radicale. Perché non guardare a tale crisi anche come a un’occasione? Il contributo si interroga sulla possibilità che il cambiamento possa generare una (ri)nascita, grazie a soggetti protagonisti di narrazioni inedite. In tale contesto si inserisce l’indagine qualitativa L’educazione ai tempi del Coronavirus (e dopo), svolta dal CREIF (Università di Bologna) con l’obiettivo di indagare quali siano state, da parte dei professionisti dell’educazione, le emozioni vissute e le risposte elaborate durante la prima fase dell’emergenza. La ricerca ha esplorato le aree relative al senso e alla motivazione attribuiti alla propria azione educativa, ai timori emersi, alle idee sollecitate dal cambiamento, interrogandosi sulle possibili condizioni strutturali in grado di favorire «uscite creative». La valorizzazione del lavoro in équipe — in grado di alimentare processi riflessivi — e la centralità dei processi di accompagnamento e formazione continua emergono quali elementi cruciali.

Parole chiave

Pandemia, Crisi, Cambiamento, Educazione, Nuovi paradigmi.

PHILOSOPHY OF EDUCATION

The value of uncertainty

The pandemic consequences, between crisis and change

Silvia Demozzi3 and Nicoletta Chieregato4

Abstract

The current pandemic emergency brings the theme of human vulnerability on the proscenium and reveals the uncertainty associated to existences, as well as the impossibility of having control of all variables interacting in a complex system. It appears as symptom of a deeper crisis, exceeding the health one: the crisis of modern society epistemological and socio-economic paradigms, which need to be radically questioned and changed. Then why not thinking of this crisis as an opportunity? This paper deepens the possibility of looking at change as (re)birth chance, thanks to subjects choosing to be the protagonists of new narratives. The qualitative research Education in the time of Coronavirus (and after) fits this theoretical frame. The study, carried out by CREIF, aimed at investigating the emotions experienced and the responses developed by the education professionals during the first phase of the emergency. It explored the areas related to the meaning and motivation attributed to one’s educational action, the fears that emerged, the ideas prompted by the change, with a particular focus on the structural conditions able to foster «creative solutions». The enhancement of teamwork — able to feed reflexive processes — and the presence of support and training programmes appear to be crucial elements.

Keywords

Pandemic, Crisis, Change, Education, New paradigms.

Introduzione

L’emergenza pandemica che ha colpito il nostro pianeta si presenta come sintomo di una crisi più profonda di quella esclusivamente sanitaria: è la crisi dei paradigmi epistemologici e socio-economici della società modernamente intesa, che si trovano ora a fare i conti con uno scenario sempre più incerto, di fronte al quale si impone, non senza lacerazione, l’esigenza di un cambiamento radicale (Fabbri, 2019; Morin, 2020). Scrive Contini che «era prevedibile. Ma non lo avevamo previsto» (2021, p. 9), perché credevamo che tutto quello che di spaventoso potesse essere preannunciato non ci avrebbe comunque riguardato da vicino. E quand’anche qualcosa di inedito si fosse presentato, ci saremmo certamente dimostrati pronti, tecnologicamente «avanzati», in un certo senso onnipotenti.

Un’ubriacatura che aveva cancellato il senso del limite inscritto nella condizione umana, e che si era portato via con sé la consapevolezza della nostra finitudine, il rispetto per la natura e la solidarietà e la pietas per gli «altri» umani (Contini, 2021, p.9).

Ed è così che, all’improvviso, sono emersi in superficie, con «lo scandalo dell’imprevedibile» (Petrosino, 2020) e con la potenza di un’onda anomala, quei temi «scomodi» connaturati alla stessa esistenza umana, ovverosia la sua finitudine, il suo essere sempre, dal giorno uno, inevitabilmente a rischio, fragile e frangibile. Tuttavia, riprendendo le riflessioni di Brown (2016), è forse proprio a partire dal riconoscimento della vulnerabilità insita nell’esperienza umana (che, inevitabilmente, incontra e affronta momenti di crisi), che si apre la possibilità di un cambiamento, a patto che, però, si sia in grado di accettare anche i sentimenti di sofferenza e paura ad esso connessi, sia nell’ambito più intimo e privato, ma anche nel campo della propria professione.

«Il re è nudo!»: tra crisi, crisalide e farfalla

La pandemia svela, come il bambino ne I vestiti nuovi dell’Imperatore di Andersen, il tema della vulnerabilità umana, l’incertezza che accompagna le esistenze, nonché l’impossibilità di esercitare un controllo, collettivo o individuale che sia, sull’intreccio di variabili che interagiscono in un sistema complesso (Bateson, 1976).

Il 2020 è stato l’anno del trauma, gli anni a seguire saranno quelli in cui ci confronteremo con le conseguenze: a noi spetta la sfida di trasformare la crisi in crisalide, di portare a compimento il più importante processo di metamorfosi dell’umanità. La crisi rappresenta, dunque, un momento di discontinuità che, inevitabilmente, ci impone una valutazione, una scelta, un cambiamento (Fabbri, 2019). Perché non guardare, quindi, ad essa, e alla vulnerabilità che ne deriva, anche come a un’occasione? Se, finalmente, ciò che pareva essere incontestabile dovesse essere ora necessariamente messo in discussione? Un paradigma di pensiero, un modello di vita, un intero sistema socio-economico non potrebbero finalmente essere interrogati e decostruiti, rinnovati e innovati, laddove necessario?

Ci si interroga nelle prossime righe sulla possibilità che il cambiamento, per quanto incerto e doloroso, possa essere affrontato attivamente e non subìto; è una scommessa, senz’altro coraggiosa, per resistere alla necessità di un destino e muoversi all’insegna di «un’uscita creativa», che non inchiodi i soggetti allo status di vittime, ma li veda protagonisti di narrazioni inedite, anche all’interno della propria professione.

Leonard Mlodinow (2018) sottolinea l’importanza della capacità di abbandonare (che, forse, passa anche per quella di «disapprendere») le nostre rassicuranti certezze e zone di conforto, accettando le ambiguità e le contraddizioni ed esercitando quello che egli stesso definisce un «pensiero flessibile». L’importanza di accettare e saper sostare nell’incertezza rappresenta, infatti, un momento necessario all’interno del processo di cambiamento: l’incertezza assume qui un valore, non fosse altro per il fatto che è ineliminabile (anche nel processo scientifico) e che non è data al soggetto umano, pur nel suo essere dall’intelligenza sviluppata, né nella sua interazione con la macchina, la possibilità di controllare sempre e comunque le variabili della complessità (Morin, 1993). Nel paradigma della complessità, scrive Simon (1958), facciamo i conti con una razionalità limitata: l’essere umano, costretto dai limiti della propria conoscenza, ha sviluppato alcune strategie che gli consentono di superarli solo parzialmente. Sulla base delle informazioni disponibili, sempre e inevitabilmente frammentate e parziali, e contemplando solo alcune delle conseguenze possibili, l’essere umano cerca di compiere scelte soddisfacenti e sufficientemente buone, senza mai avere la certezza di aver scelto l’opzione ottimale.

L’incertezza, però, va detto, spesso si accompagna con la paura, a testimonianza che le emozioni umane non sono mai inscrivibili entro confini definiti con tratto indelebile, ma piuttosto testimonianza delle ambivalenze insite nel nostro essere-nel-mondo. Per dirla con le parole di Bauman (2008), «paura» è il nome che scegliamo per battezzare le nostre incertezze, a memento del fatto che, di fronte alla necessità di un cambiamento, generantesi da una situazione di crisi e di relativa incertezza, il timore è inevitabile ma, nonostante ciò, esso rappresenta anche il reale motore di una scelta di coraggio. Il coraggio, infatti, non è non avere paura tout court, bensì è esposizione e assunzione del rischio. È tuffo senza rete nella vulnerabilità. Proprio dentro all’assunzione del rischio risiede la possibilità del cambiamento, del passaggio di attraversamento, della metamorfosi che porterà dalla crisi alla farfalla. La paura del cambiamento, infatti, oltre che inibire l’azione, può portare ad aggrapparsi, a cercare rifugio nelle certezze che si pensano di avere (ad esempio, in pratiche professionali consolidate che si ritengono «valide a prescindere»). Ma può essere anche vissuta come il momento che precede il salto nel (quasi) vuoto, la vertigine di fronte all’impossibilità di prevedere, che, però, si rende desiderabile e/o necessaria.

Leggiamo qui la crisi, dunque, come opportunità di cambiamento e, tornando al binomio «crisi-crisalide» accennato in apertura, possiamo intenderla come una frattura: una breccia nella corazza della nostra comfort zone e delle nostre «rassicuranti certezze». Per la crisalide, infatti, è proprio nella frattura dell’involucro (che protegge e rassicura) il segnale che la metamorfosi (la trasformazione) è in atto, pronta a manifestarsi in tutta la sua potenziale bellezza.

Il discorso su crisi e cambiamento ci interessa qui soprattutto per i contesti dell’educazione e le relazioni tra i soggetti che li abitano. Tutti gli ambiti dell’educazione, infatti, sono stati costretti a un adeguamento per far fronte all’emergenza pandemica, e ciò ha implicato necessariamente il mettersi creativamente in gioco, anche reinventando prassi ormai consolidate (e per questo spesso considerate inattaccabili). Il richiamo, dunque, per chi si occupa di educazione, è di interrogarsi sulla necessità di un cambio di paradigma cui il virus ci ha posto di fronte.

La ricerca L’educazione ai tempi del Coronavirus (e dopo)

All’interno e sulla scia di queste riflessioni, si inserisce l’indagine di tipo qualitativo L’educazione ai tempi del Coronavirus (e dopo), svolta dal Centro di Ricerche Educative su Infanzie e Famiglie dell’Università di Bologna, con l’obiettivo di indagare quale fosse stata, da parte dei professionisti dell’educazione, la percezione del proprio ruolo in situazione di emergenza, anche — ma non soltanto — in relazione al rapporto con le famiglie. La ricerca ha esplorato le aree relative al senso e alla motivazione attribuiti alla propria azione educativa, ai dubbi e ai timori emersi, alle nuove idee sollecitate dal cambiamento e ai rischi percepiti.

Aspetti metodologici

La ricerca si è articolata in cinque focus group realizzati in modalità online, nel periodo maggio-giugno 2020.

I territori coinvolti sono stati quelli di Bologna, Cervia (RA), Chiaravalle (AN), Faenza (RA), Modena, Ravenna, Unione dei Comuni della Bassa Romagna, Unione dei Comuni della Romagna Faentina e Unione dei Comuni delle Terre d’Argine.

Agli incontri hanno preso parte educatrici, insegnanti e coordinatori pedagogici di servizi per la prima infanzia e insegnanti della scuola primaria e secondaria di II grado, per un totale di 28 soggetti (26 F, 2 M). Ciascun gruppo è stato formato secondo criteri di omogeneità rispetto alla tipologia di servizio o al grado scolastico.

I contenuti degli incontri sono stati integralmente trascritti e il gruppo di lavoro ha proceduto all’analisi dei contenuti e alla codifica per argomenti.

I risultati

L’indagine ha permesso di illuminare alcune delle emozioni provate dai professionisti durante il periodo di lockdown e di riflettere su come queste possano aver inciso sulla percezione di efficacia del proprio ruolo educativo. A partire dal riconoscimento della natura e dalla portata del vissuto emotivo dei professionisti stessi, è stato possibile comprendere meglio la cornice entro la quale sono maturate le loro risposte al cambiamento.

Si è ad esempio rilevato come l’impossibilità di esercitare controllo sugli eventi abbia fatto emergere elementi di fragilità e vulnerabilità, descritti da alcuni dei partecipanti con parole come: «abbiamo tentennato» (G., ins.)5, «era tutto così nuovo. Io mi sono sentita un po’ su una zattera, un po’ in preda agli eventi» (M., ins.), «siamo state tanto disorientate […]» (F., ins.) o, ancora, «c’è stato lo shock iniziale […]. È stato un momento personale molto difficile» (B., edu.).

Tali emozioni, di cui si è fatta esperienza prima di tutto sul piano personale, hanno avuto un’eco nella dimensione professionale, manifestandosi con sentimenti di incertezza, timore e impotenza percepita rispetto al proprio ruolo. «Ero timorosa», afferma B. (edu.). «Mi sono sentita impotente», aggiunge C.B. (ins.).

Una richiesta di tempo per l’elaborazione della risposta segnata certamente anche dall’incertezza in merito all’orizzonte temporale.

Appaiono emblematiche la parole di M. (ins.) e G. (ins.), che descrivono l’esperienza di didattica a distanza come «un ospedale da campo […], una situazione emergenziale», «una toppa […], un palliativo […], uno schifo».

Quali possibili risposte, allora, di fronte a questo spaesamento e senso di inefficacia?

Le reazioni hanno oscillato fra tentativi di rimanere entro il più rassicurante perimetro delle pratiche consolidate e il desiderio di avviare processi di esplorazione, alla ricerca di nuove linee di azione ispirate da un vero e proprio ripensamento dell’agire educativo.

Il desiderio di rimanere (o rientrare) nel perimetro del conosciuto emerge ad esempio dalle parole di L. (ins.), che afferma: «quando tu trovi qualcosa che sovverte questo equilibrio, interrompe, tu […] puoi comunque, tra virgolette, tornare sulla strada già delineata. È un po’ questo quello che stiamo attendendo, dal mio punto di vista». Quella dell’attesa si presenta come un’immagine significativa, di chi si dispone al verificarsi di un evento già noto, conosciuto. L’attesa è un tempo in cui si aspetta — senza proporsi nella veste di attori protagonisti — che qualcosa si compia.

Ma, come si è visto precedentemente, il cambiamento può essere vissuto anche con un ruolo attivo e pro-attivo. Tra gli elementi intercettati durante i focus group, spicca, per «saturazione», proprio quello della necessità, di fronte all’incertezza, di impegnarsi in una riflessione sulle pratiche educative consolidate, messe in discussione di fronte a situazioni di discontinuità così profonda. Quando le soluzioni già note o quelle che paiono essere definite «a priori» si rivelano inefficaci, diventa indispensabile trovare nuove piste di intervento. È richiesto un pensiero di tipo creativo, a partire proprio dalla problematizzazione di ciò che pare definitivamente acquisito, certo, quasi incontestabile. Il bisogno di riflettere sui paradigmi consolidati emerge dalle parole di E. (c.p.):

Abbiamo l’occasione di lavorare su diversi aspetti di un paradigma pedagogico che forse aveva bisogno anche di essere un po’ rinfrescato. […] perché delle volte […] noto un immobilismo. Io non ci credo a questa cosa, non ci credo a questa modalità, come se fosse una fede e non un lavoro. Non ci devi credere. Oppure: «abbiamo sempre fatto così», che magari «hai sempre sbagliato, quindi non è detto che …» e questo delle volte diventa uno schermo culturale. Sono delle scuse rispetto a delle novità o a portare delle altre cose. […] penso che sia l’occasione rispetto ai servizi, rispetto alla professionalità delle educatrici, ma anche rispetto proprio alle famiglie, ai genitori: in un lavoro che potrebbe essere di formazione, ma anche di autoformazione.

Il cambiamento e l’incertezza si presentano anche come occasione per ridefinirsi come professionisti e ritornare criticamente alle finalità che ispirano il proprio agire. C.F. (ins.), racconta:

È stata una bella opportunità anche come gruppo-sezione per rileggersi, per rifare il punto delle cose fatte, delle motivazioni che c’erano dietro, per rimetterle sul tavolo, anche nel momento in cui siamo andate a illustrarle con le famiglie che ce l’hanno chiesto e anche di fronte alle difficoltà, è stato veramente utile rendersi conto che abbiamo ristudiato molto, abbiamo ripreso le indicazioni nazionali, abbiamo fatto degli approfondimenti che in realtà ci sono serviti.

Tali evidenze mettono in luce quanto sia importante, per cogliere l’opportunità della crisi, sviluppare atteggiamenti di tipo riflessivo, alimentati da un continuo rinnovamento dei saperi, da curiosità e disponibilità a un confronto intersoggettivo autentico. Tracce di questa disposizione sono emerse dal confronto con i professionisti.

Fra queste, ad esempio, la disponibilità a lasciarsi stupire ed essere in grado di vedere anche ciò che non conferma le proprie aspettative. Quando G. (ins.) afferma «è stato bellissimo perché alcuni di loro [ndr, studenti] comunque hanno sviluppato delle capacità, ad esempio quella digitale, che comunque da un bambino così piccolo non t’aspetti; in realtà hanno tirato fuori tantissimo», sottolinea come sia fondamentale riuscire a cogliere e dare significato anche all’inatteso.

L’essere in grado di sviluppare nuove soluzioni, attivando modalità di pensiero flessibile, e di avviare un confronto aperto all’interno del gruppo di lavoro emerge come ulteriore elemento cruciale. È ciò che F. (ins.) mette in risalto, per contrasto, quando racconta:

Ognuno — con la propria collega, nella propria sezione — si è detto «Dai, andiamo. Cosa facciamo? Partiamo? Proviamo questo». Invece magari il confrontarsi prima e partire tutti insieme poteva essere più utile. Poi è vero che ogni sezione ha i suoi bambini, ha i suoi rappresentanti, ha i suoi genitori — quindi magari una cosa che andava bene per la sezione mia non sarebbe andata bene per un’altra — però, ecco…

Il ragionare insieme, mettendo sul tavolo timori e vincoli (reali e/o percepiti), esplicitando la propria idea di educazione e gli obiettivi che si ritengono imprescindibili e prioritari, può infatti aiutare a trovare, insieme, risposte organiche, strutturate, che esprimano una chiara intenzionalità anche oltre il breve termine segnato dall’emergenza (sebbene non si voglia qui negare l’importanza in contesti emergenziali di saper essere reattivi e di rispondere in tempi brevissimi ai bisogni cogenti, vitali). Il confronto in équipe offre la preziosa opportunità di (ri)significare, a livello individuale e collettivo, la propria azione educativa, di trovare nuove motivazioni e apre a un contesto di relazioni in cui è possibile sentirsi meno soli nelle proprie sfide professionali. In questa direzione si esprime M. (ins.) quando afferma: «serve al team docente di essere corpo coeso e di aver riflettuto, aver ragionato insieme su come pensiamo la scuola, come pensiamo ai bambini, cosa pensiamo del rapporto insegnanti e famiglie».

Anche queste ultime, le famiglie, si offrono come risorsa preziosa, se riconosciuta, valorizzata e resa complementare alle competenze professionali. D. (c.p.) ricorda:

Sono stati i genitori che hanno fatto partire questa richiesta [ndr, video-chiamate fra bambini e educatrici] e noi l’abbiamo accolta, proprio per rimanere in quel filo dell’alleanza […] anche se l’uso dei mezzi di comunicazione deve essere fatto con coscienza […] secondo me dobbiamo essere anche noi adulti — e noi comunque competenti a livello educativo — che diamo un segnale rispetto a questo.

Quando D. (c.p.) ed E. (c.p.) affermano rispettivamente: «ci portiamo dietro che i genitori sanno fare i genitori» e «è calato un pochettino anche […] il colonialismo pedagogico che ogni tanto qualche educatrice ha, che insegna al mondo come fare ad allevare i figli», sembrano voler confermare come l’emergenza sanitaria (tuttora in corso) abbia e stia aiutando a prendere contatto con alcuni concetti, che a volte rischiano di rimanere astratte enunciazioni. Fra questi, la consapevolezza che un’azione educativa efficace sia pensabile all’interno di un approccio sistemico e secondo una logica di reciprocità, dove ciascuno — nel rispetto dei ruoli e delle competenze (professionali o non) specifiche — è in grado di apportare il proprio contributo e mettere in campo il proprio valore.

Possibili nuove soluzioni creative sono dunque il frutto di un percorso intrapreso non da soli, ma all’interno di una comunità, dove l’altro rappresenta una ricchezza.

Certamente le nuove piste di azione non sono prive di rischi, reali o percepiti: pur all’interno di una cornice deontologica e di responsabilità educativa — che non contempla la possibilità di procedere semplicemente «per tentativi ed errori», ma che esige una chiara intenzionalità eticamente guidata — cogliere la sfida del cambiamento e dell’incertezza significa sapersi accettare fallibili e perfettibili. Racconta M. (ins.):

Proviamo, facciamo. Questa era l’unica cosa che potevamo fare, cos’altro potevamo fare? Quali erano i rischi e quali erano le possibilità? […] se fossimo stati con le mani in mano non avremmo potuto fare niente. […] Proviamo, […]: inseriamo una variabile, osserviamo i bambini e le bambine, cerchiamo di trovare strade, opportunità e percorsi per rispondere alle loro esigenze.

Il percepirsi — così come si è appena visto — parziali e non infallibili può però innescare processi di controllo e razionalizzazione che portano a «scartare» quanto contraddice (o quantomeno non conferma) il sistema di pensiero e azione che si ritiene logico, coerente e validato (Morin, 1993). Questi stessi processi sono a volte connessi a un «principio di autorità» latente (o piuttosto a un «desiderio di autorità», se si concorda sul fatto che l’elemento di reciprocità — affatto scontato — sia necessario affinché si possa stabilire un principio), capace di limitare la disponibilità a ripensare apertamente e continuamente la propria professione: se si interpreta il proprio valore professionale all’interno di un rapporto asimmetrico, legato a una posizione di «superiorità di conoscenze e capacità», diviene difficile aprirsi al confronto con gli altri e accettare di co-costruire con questi un nuovo percorso.

La più o meno esplicita presenza di un «desiderio di autorità» da parte dei professionisti è rilevabile, a tratti, dalle parole da loro utilizzate per descrivere una buona relazione con le famiglie: «quando i genitori hanno accolto le nostre richieste di buon grado è andata meglio» (L., ins.), «è importante avere dei genitori partecipativi, ma discreti» (M., ins.), «è positivo quando ci sono genitori che vengono “con il cappello in mano” metaforicamente, [che] sono lì che vogliono sentire che cosa dici, ti chiedono consiglio. Purtroppo non tutti» (G., ins.). Oppure, «il ragazzo migliora perché a casa sostanzialmente loro fanno una sorta di eco di quello che io dico a scuola» (D., ins.).

Andare oltre tale desiderio, trovando nella simmetria relazionale e nella complementarietà di esperienze una fonte di motivazione e idee, si presenta come ulteriore elemento in grado di disvelare il potenziale positivo e generativo di una crisi.

Conclusioni

L’emergenza della pandemia si configura quindi come un banco di prova dell’effettiva qualità del nostro sistema educativo e scolastico, mettendo sotto la lente di ingrandimento le logiche ad esso sottese, nonché la loro valenza socio-culturale oltre che pedagogica.

Come affermano gli stessi professionisti incontrati, «nel lockdown […] tutto si è ingigantito, quindi le cose belle sono diventate bellissime, le cose brutte terribili», M. (ins.). L’eccezionalità della situazione ha illuminato e portato in primo piano temi già noti, a volte relegati allo statuto di questioni secondarie, «posizioni che noi forse non volevamo capire o [con cui] non volevamo pensare di dover avere a che fare», dice L. (ins.).

Le parole dei professionisti incontrati rappresentano una testimonianza significativa e tangibile dei temi della crisi come occasione, dell’ambivalenza legata ai processi di cambiamento, della possibilità di trasformarli in opportunità generativa se vissuti da protagonisti, con responsabilità, creatività e flessibilità.

Aprono allo stesso tempo una riflessione su quali condizioni strutturali possano favorire questo tipo di atteggiamento e di risposta, mettendo in evidenza due elementi cruciali che possono aiutare ad «avere cura della crisi».

Da un lato, l’importanza della valorizzazione del lavoro in équipe e la presenza di professionisti che facilitino i processi riflessivi. Dall’altro, la centralità dei processi di accompagnamento e formazione continua, volti a potenziare competenze metacognitive ed emotive. Fattori chiave per una cura delle professioni educative anche, soprattutto, ma non solo in tempi di crisi.

I servizi e la scuola del dopo pandemia, infatti, non dovrebbero essere un ritorno allo status quo ante, ma l’occasione per mettere a frutto la lezione di questa fase e compiere un passo avanti nella direzione di un’educazione realmente democratica ed emancipatrice.

Dopo questa esperienza, […] vi potrebbero essere le condizioni per una battaglia politico-culturale […] per riaffermare il valore della scuola in quanto comunità. Una comunità democratica che si regge sulla partecipazione attiva e sulla cooperazione dei suoi membri, sulla passione civile per l’insegnamento e sulla voglia di imparare, e nella quale tutti trovano l’opportunità di una crescita intellettuale ed etico-sociale (Baldacci, 2020, p. 157).

Questa imprevista e paradossale opportunità potrebbe favorire una presa di coscienza collettiva sul senso del lavoro educativo (e di cura). Non si tratta dunque di «non preoccuparsi, non fare tante domande e vedere come va», come è stato suggerito a F., una delle insegnanti incontrate, ma forse proprio, al contrario, di non smettere di riflettere. Nel pieno dell’emergenza, infatti, i luoghi dell’educazione, seppur cambiati, non hanno mai smesso di essere abitati, portando alla luce ciò che, forse per troppo tempo, era stato dato per scontato: dal nido di infanzia all’università, il mondo dell’educazione, con i suoi protagonisti, ha continuato a costruire, pur collezionando (anche) arresti e fallimenti (la perpetrazione delle disuguaglianze primo tra tutti). Sono emerse le dimensioni essenziali dell’educazione, mai veramente dimenticate: la relazione, la comunità, il valore della conoscenza come strumento di crescita collettivo e individuale.

Ma non è solo nei contesti dell’educazione più strettamente formale che possiamo cogliere i frutti dell’occasione «offerta» dalla pandemia: la riflessione pedagogica, infatti, può farsi strada e opportunità nei più svariati ambiti della vita personale e collettiva. Come scrive Franco Cambi, siamo chiamati a mettere in discussione tutti i «grandi» temi pedagogici:

dallo stile di vita a un ripensamento dei valori-guida, da un rinnovamento della politica a un rilancio del ruolo della cultura (e anche e proprio di quella più alta e nobile), dalla coltivazione del sé (di quel foro interiore dell’io che la pandemia col suo isolamento ha rimesso al centro e di fatto e di diritto), guardando anche a una ridefinizione della nostra idea di civiltà nel suo complesso […] (Cambi, 2020, p. 56).

Bibliografia

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1 Professoressa Associata, Università di Bologna.

2 Dottoranda, Università di Bologna.

3 Università di Bologna.

4 Università di Bologna.

5 Le verbalizzazioni dei partecipanti ai focus group sono qui riportate indicando l’iniziale puntata del nome del soggetto e la sua professione (coordinatore/coordinatrice pedagogico/a, educatore/educatrice, insegnante; per brevità, le professioni sono abbreviate rispettivamente in «c.p.», «edu.», «ins.»).

Vol. 7, Issue 2, October 2021

 

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