Vol. 6, n. 2 ottobre 2020

Modelli educativi

Le comunità di apprendimento in Spagna

Un affascinante progetto educativo

Paolo Scotton1

Sommario

L’articolo analizza le principali motivazioni e obiettivi del progetto pedagogico delle comunità di apprendimento che negli ultimi venti anni si sono venute consolidando e implementando con sempre maggiore frequenza all’interno del panorama educativo iberoamericano. Collocando tale progetto all’interno della riflessione teorica circa la crescente importanza di un’educazione diffusa e continua, necessaria per promuovere la cittadinanza critica nell’attuale società dell’informazione, l’articolo approfondisce tanto il quadro concettuale come le buone pratiche che caratterizzano le comunità di apprendimento. Allo stesso tempo, offre una discussione critica di questo progetto, sottolineandone possibili limiti e problemi.

Parole chiave

Comunità educante, comunità di apprendimento, buone pratiche educative.

Educational models

Learning communities in Spain

A fascinating educational project

Paolo Scotton2

Abstract

The article analyses the main motivations and aims of the pedagogical project represented by learning communities. A project that, over the last twenty years, has been increasingly consolidated and implemented, in particular in Latin-American educational systems. The article considers this project in relation to the theoretical discussion about the growing importance of diffused and lifelong learning, conceived as an indispensable means for fostering critical citizenship within our current information society. Accordingly, it studies both the conceptual framework and the best practices that characterise learning communities. Moreover, it offers a critical discussion of this project, underlying potential limits and problems.

Keywords

Educational communities, learning communities, best educational practices.

Dalla scuola alla comunità educante

La critica dell’istituzione scolastica intesa come una realtà chiusa, un’entità artificiale che si offre all’interno di un contesto circoscritto, autoreferenziale e incapace di rapportarsi in modo efficace alla realtà sociale nella quale è immersa rappresenta una costante del pensiero pedagogico, almeno dalla seconda metà del secolo scorso. La provocazione di Giovanni Papini, che già nel 1914 proponeva di chiudere le scuole, considerate come luoghi in cui si realizza «lo sforzo disastroso per imparare con metodi imbecilli moltissime cose inutili» (Papini, 1932, p. 190), è diventata nel corso degli anni una riflessione ben più complessa e sistematica. Un noto esempio è offerto dal sociologo americano Marshall McLuhan che, nel 1960, teorizzava la possibile esistenza di un’aula senza muri, sostenendo con tale metafora la necessità di superare una visione ristretta della scuola, incapace di assumere la responsabilità di un cambiamento in relazione ai bisogni e agli strumenti di produzione del sapere propri della nuova società di massa (McLuhan, 1960). In un momento storico in cui le istituzioni educative stavano perdendo la propria centralità come monopolizzatrici della produzione e trasmissione del sapere, la scuola si convertiva sempre più rapidamente in una realtà in equilibrio precario tra mera sopravvivenza e possibilità di rigenerazione (Kuskis, 2012).

Come e più di allora, l’attuale società di massa e la produzione massmediatica — esponenzialmente in crescita grazie alla rete e alla produzione condivisa del sapere — impongono la necessità di confrontarsi con una realtà più vasta e complessa che in passato. Infatti, in presenza di più agenti educativi, si è obbligati, in modo sempre più urgente, a integrare nuovi strumenti d’apprendimento, esogeni rispetto alla scuola stessa.

Negli anni Settanta, il ruolo sempre meno centrale della scuola nel processo di formazione dell’individuo e della società nel suo congiunto spingeva Ivan Illich a teorizzare una società descolarizzata, dal momento che tale istituzione anacronistica si stava convertendo in uno strumento di dominio, controllo e gerarchizzazione conservatrice dell’ordine costituito, generando discriminazioni sociali che la scolarizzazione di massa, invece di attenuare, contribuiva ad accrescere. Secondo Illich: «La scuola è divenuta la religione universale di un proletariato modernizzato e fa vuote promesse di salvezza ai poveri dell’era tecnologica. Lo stato nazionale ha fatto propria questa religione arruolando tutti i cittadini in un programma scolastico graduato che porta a una successione di diplomi e che ricorda i rituali iniziatici e le ordinazioni sacerdotali di tempi lontani» (Illich, 1973, p. 25). Di contro, abbracciando le nuove possibilità offerte dallo sviluppo tecnologico della società dell’informazione, e l’esistenza di una crescente rete orizzontale della conoscenza, è fondamentale, secondo il pensatore austriaco, che le istituzioni scolastiche si convertano in «trame di possibilità» che diano ragione degli interessi di ogni individuo, facilitandogli l’accesso equo alle risorse intellettuali, culturali ed economiche. In altre parole, si rende necessario un sistema educativo «che consenta il montaggio autonomo dei mezzi disponibili sotto il controllo diretto di ogni discente» (Illich, 1973, p. 118).

Facendo propria, almeno in parte, la visione critica ed emancipatrice della proposta pedagogica di Illich, nacque, a principio degli anni Novanta, il progetto delle città educative. Alla proposta di Illich si univano alcune istanze nuove e distinte, in particolare: 1) una nuova sensibilità che criticava il crescente asservimento della società, e con essa dell’educazione, alle logiche neoliberali del mercato; 2) la finalità esplicita di includere processi di educazione non formale e informale all’interno di un sistema educativo che risultava altrimenti sempre più obsoleto. Il progetto delle città educative, sancito dalla Dichiarazione di Barcellona, venne formalizzandosi negli anni successivi in un’associazione, la quale è attualmente attiva a livello internazionale in oltre trenta Paesi. Tale progetto intende la città come: «un sistema complesso in evoluzione costante che può esprimersi secondo modalità diverse ma darà sempre una priorità assoluta all’accrescimento culturale e alla formazione permanente dei suoi abitanti».3 In altre parole, la società dell’informazione si traduce in un’opportunità di miglioramento per il sistema educativo, rompendo i tradizionali limiti istituzionali. Tuttavia, tale processo d’apertura non deve far perdere di vista il fine ultimo dell’educazione e la sua propria ragione d’essere, vale a dire la costruzione delle basi intellettuali, sociali, affettive ed economiche indispensabili per rendere possibile un civismo solidale.

Negli stessi anni in cui prendeva forma tale progetto Francesco Tonucci rendeva nota la sua innovativa proposta di ricostruire la partecipazione civile all’interno di una città pensata a misura dei bambini, realizzata sperimentalmente a Fano, a partire dal 1991. Tonucci prendeva atto del fatto che molto spesso la città non è un luogo d’incontro e dialogo che permette un’autentica relazione educativa, ma al contrario un luogo freddo e distante di segregazione e separazione, che amplifica le differenze e impedisce il confronto tra persone, tra esseri umani. La città veniva così radicalmente ripensata come una comunità educante in quanto spazio di autentica partecipazione, collaborazione e solidarietà.4 Un’esperienza che si potrebbe definire di educazione diffusa, la quale si fa carico dell’urgenza di superare una visione rigida e anacronistica della scuola intesa come il solo luogo in cui si trasmette il sapere in ragione d’un ordine, d’una gerarchia e d’una finalità scientificamente e rigorosamente rivolta all’efficienza e alla produttività.5

La consapevolezza della crescente complessità della produzione e trasmissione del sapere e, allo stesso tempo, il bisogno di una continua formazione che permetta alle persone di codificare e attribuire significato a una società dell’informazione in continuo cambiamento sono del resto preoccupazioni centrali che orientano le attuali politiche educative a livello globale, invitando a un nuovo umanesimo.6 In almeno due rapporti chiave della storia dell’UNESCO, che si legano strettamente allo sviluppo della società dell’informazione e alla crisi dell’ideale culturale neoliberale, rispettivamente negli anni Settanta e negli anni Novanta del secolo scorso, questa sensibilità verso il bisogno di rendere la scuola permeabile alla società e viceversa è emersa, come noto, con tutta evidenza. Si tratta in particolare del rapporto Faure e del rapporto Delors. Il primo sottolineava con forza la necessità di una lifelong education, dato che: «Close correlation between society and education would seem to be especially important now that possibilities of improving one’s mind and acquiring knowledge and culture are increasing» (Faure et al., 1972, p. 137). Il secondo poneva invece l’accento sulla creazione di una learning society, senza occultare il rischio connesso a una fiducia eccessivamente entusiasta nel potenziale formativo di questa società, giacché: «Although people need to take every opportunity for learning and self-improvement, they will not be able to make good use of all these potential resources unless they have received a sound basic education» (Delors, 1996, p. 19).

A partire da queste considerazioni si rende manifesto il bisogno urgente di disegnare un possible percorso educativo che sia in grado di dare ragione d’una società complessa, marcata da un’educazione inevitabilmente sempre più diffusa, ma ancora in gran parte incapace di favorire la partecipazione attiva ed equitativa delle persone nella costruzione di un ideale sociale comune. Un processo di educazione continua, dentro lo stesso sistema educativo formale, capace di agglutinare con successo diverse istanze di giustizia sociale.

La comunità di apprendimento nel mondo iberoamericano

Una possibile risposta a queste nuove sfide sociali e educative è stata recentemente offerta, in ambito spagnolo, da quelle che si definiscono come Comunidades de aprendizaje, un termine traducibile in italiano come comunità di apprendimento. Queste comunità sono sorte a partire da un’esperienza educativa di persone adulte a rischio di povertà: il centro educativo «La Verneda» del quartiere di Sant Martí, fondato nel 1978 nella città di Barcellona (Folgueiras Bertomeu, 2011). In seguito, le comunità si sono venute istituzionalizzando come modelli d’insegnamento alternativi in diversi centri educativi catalani, in particolare grazie all’iniziativa del Centro de Investigación en Teorías y Prácticas Superadoras de Desigualdades e dell’Università di Barcellona, a partire dal 1995. Le prime elaborazioni teoriche di tale proposta pedagogica, che risalgono al periodo a cavallo tra la fine del secolo scorso e l’inizio di quello in corso,7 mettevano l’accento in particolare sulla necessità di costruire un ambiente in cui i diversi membri della comunità educativa — studenti, docenti, familiari e residenti nel quartiere — collaborassero insieme alla creazione di un progetto comune finalizzato a garantire l’integrazione scolastica e a migliorare il rendimento accademico, attraverso l’educazione diffusa e condivisa tra tutti i soggetti coinvolti, tanto dentro l’aula come fuori, con l’obiettivo di fare del centro educativo un agente attivo del cambiamento sociale nel circondario prossimo, e di promuovere l’emancipazione sociale ed economica di alunni e famiglie. Secondo la definizione di Flecha e Puigvalert, le comunità di apprendimento sarebbero infatti: «Una scommessa a favore dell’uguaglianza educativa all’interno del contesto della società dell’informazione, con il fine di combattere le situazioni di disuguaglianza in cui si incontrano molte persone a rischio di esclusione sociale. L’asse pedagogico portante di una comunità di apprendimento è rappresentato dalla possibilità di favorire il cambiamento sociale e diminuire le disuguaglianze. L’apprendimento è inteso come dialogico e trasformatore, tanto della scuola come dell’ambiente circostante» (Flecha e Puigvert, 2002, p. 12).8

Prendendo come punto di riferimento tale definizione, risulta possibile sottolineare tanto le motivazioni come gli obiettivi principali che orientano tale progetto educativo. Da una parte, in relazione alle motivazioni, si può apprezzare in primo luogo il riconoscimento di una crescente pluralità e diversità dentro le aule scolastiche, segno evidente della crescente multiculturalità della società. La sfida rappresentata dall’inclusione di questa diversità in un progetto collettivo comune si lega strettamente alla seconda ragione che determina la creazione di tale progetto, vale a dire la volontà di evitare la segregazione, la differenziazione e, in ultima analisi, la marginalizzazione sociale che deriva da una condizione di partenza — tanto economica come culturale — estremamente disuguale. A fare da anello di congiunzione di tutte queste istanze vi è infine quello che i fautori di tale proposta pedagogica chiamano con il nome di dialogic turn, vale a dire l’apertura della società a una rete orizzontale di produzione e trasmissione del sapere, con la conseguente messa in questione del principio di autorità e, di contro, la ricerca della verità attraverso il consenso e il dialogo razionale. La diffusione di una pratica comunicativa intesa come strumento di creazione comune del significato, con la conseguente perdita del monopolio del sapere da parte dell’istituzione scolastica.9

A partire da queste motivazioni le Comunidades de Aprendizaje si ripromettono di conseguire cinque obiettivi principali. Secondo una prospettiva che va dalla specificità dell’educazione formale alla generalità dei rapporti sociali è possibile individuare i seguenti obiettivi:10 1) favorire un miglior rendimento accademico degli studenti integrando una metodologia d’insegnamento dialogica; 2) evitare l’abbandono scolastico, più frequente tra le persone deboli ed emarginate; 3) promuovere un’uguaglianza reale in relazione ai risultati ottenuti accademici e professionali; 4) garantire un clima di rispetto e solidarietà tra tutti i membri della comunità educativa; 5) migliorare le condizioni del contesto sociale in cui si inserisce il centro educativo.11

In relazione al primo di questi obiettivi risulta importante chiarire in che termini trovi spazio in questa proposta pedagogica l’integrazione della società della comunicazione nell’educazione formale, così da favorire un apprendimento significativo e allo stesso tempo non anacronistico. È frequente incontrare tra gli autori più rappresentativi di questo progetto sette principi fondamentali dell’apprendimento e dell’educazione dialogica. In sintesi: 1) l’esistenza di un dialogo egualitario, dove prevale la validità del ragionamento sull’autorità di chi lo enuncia; 2) l’importanza di prendere in considerazione molteplici forme di intelligenza, per favorire lo scambio d’informazioni tra persone di estrazione sociale, culturale ed economica differente; 3) la necessità di promuovere un dialogo performativo, finalizzato a produrre un cambiamento reale nella società; 4) la costruzione di un sapere strumentale, che consenta il pieno sviluppo umano e sociale; 5) la realizzazione di un dialogo che possa costruire un mondo di significati condivisi tra i membri della comunità educativa; 6) il rafforzamento di vincoli di solidarietà e cooperazione; 7) l’inclusione di tutte le persone in un progetto comune, indipendentemente da differenze fisiche, culturali, economiche o sociali.12

Senza entrare in una discussione dettagliata di questi principi, vale la pena sottolineare come in essi sia presente una sottile ma rilevante confusione tra due piani distinti. Da una parte, un insieme di prescrizioni connesse alle condizioni di possibilità del dialogo (principi 1, 2, 6 e 7); dall’altra una serie di desiderata riguardo all’azione sociale che il dialogo stesso può realizzare (principi 3, 4 e 5). Si confondono, in altri termini, i metodi per realizzare il dialogo con le finalità proprie dell’apprendimento dialogico. Laddove, da un lato, ciò consente il fruttuoso sviluppo di una perenne attenzione critica nei riguardi del processo educativo da parte di tutti i membri della comunità, dall’altro rischia di confondere il livello descrittivo con il livello normativo del discorso.

Indipendentemente da ciò, sta di fatto che le comunità di apprendimento stanno ottenendo sempre più attenzione e consensi nella pratica educativa, in Spagna e non solo. Nell’attualità, tale proposta conta infatti un numero crescente di studi e pubblicazioni. Si tratta di un dibattito che sta acquisendo un peso sempre più considerevole all’interno del discorso educativo, dando luogo a un importante proliferare d’esperienze didattiche.13 In Spagna la conversione di centri scolastici tradizionali in comunità di apprendimento risulta di fatto in crescente espansione, e attualmente nel territorio spagnolo si contano oltre centoventi di questi centri educativi, distribuiti in quindici delle diciassette regioni e due città autonome che compongono la geografia spagnola. Progetti implementati a livello tanto di scuola infantile, come elementare e superiore, sia di primo che secondo grado. Si tratta di una diffusione molto significativa, che appare destinata a crescere, e che si apprezza anche in molti stati del Sud America, tra cui Brasile, Cile e Argentina.14

Good practices nelle comunità di apprendimento

Di seguito si considerano tre proposte didattiche che si realizzano comunemente in centri educativi che hanno acquisito la forma di comunità di apprendimento, con il fine di rendere più chiaro come, da un punto di vista pratico, questa proposta educativa cerchi di rispondere ai problemi, motivazioni e obiettivi evidenziati in precedenza. Si tratta di casi di good practices educative, o, in altri termini, di attuazioni educative di successo (Flecha, 2011).

La prima di queste azioni didattiche è costituita dalle riunioni dialogiche letterarie (tertulias dialógicas literarias). In queste riunioni, tendenzialmente ripetute durante una o due ore a settimana per tutto l’anno scolastico, gli studenti condividono con il docente e i volontari, laddove presenti (familiari dei ragazzi, o residenti nel quartiere del centro educativo, ecc.), le loro sensazioni, idee e riflessioni a partire dalla lettura di uno stesso libro, in genere un classico della letteratura (Flecha e Álvarez Cifuentes, 2016).15 Una volta stabilito, con l’accordo tra le parti, il libro oggetto di queste riunioni, prima di ognuna di esse ciascuno legge e medita a casa uno stesso capitolo. Durante la riunione, studenti, docente e volontari, seduti in circolo, scambiano i loro pareri, veicolando attraverso l’uso della parola emozioni e sensazioni, e costruendo attraverso il dialogo una comprensione condivisa del testo, migliorando la capacità di tutti e ciascuno di ascoltare e comprendere (Aguilar et al., 2010). Per far ciò si rispettano alcune regole fondamentali che favoriscono un clima di rispetto, ascolto e inclusione, e che un moderatore, solitamente scelto tra gli stessi ragazzi, si incarica di garantire. Tra queste norme: rispettare il turno di parola, non correggere gli errori dei compagni quando leggono, leggere da punto a punto per garantire la trasmissione e comprensione del significato della frase, concedere la parola a chi meno ha avuto occasione di parlare. Si tratta di norme semplici, e tuttavia straordinariamente efficaci, per permettere a tutti di esprimersi, di condividere le proprie emozioni, trovando così uno spazio di ascolto e di riflessione, in cui il significato di un testo trascende i limiti della parola scritta e si arricchisce di contributi inediti da parte di tutti i partecipanti. Non solo si conseguono i risultati attesi in riferimento al miglioramento della capacità di lettura, ma anche al miglioramento delle relazioni interpersonali all’interno del centro educativo (García, Girbés e Gómez, 2015).

La seconda pratica sono i gruppi interattivi (grupos interactivos). Si tratta di un esempio in cui, in misura maggiore rispetto alla prima, intervengono tutti gli agenti della comunità. In questo caso, infatti, tendenzialmente con la stessa regolarità con cui si realizzano le riunioni dialogiche, gli studenti di una stessa classe si dividono in gruppi, disomogenei per livello e possibili difficoltà di apprendimento, di quattro o cinque persone, all’interno della stessa aula. Ogni gruppo lavora alternativamente sotto la supervisione di un adulto, docente o familiare, che interviene come facilitatore nel processo di apprendimento. La funzione dell’adulto consiste nel dare le istruzioni per realizzare una determinata attività che il gruppo, durante circa venti minuti, dovrà realizzare. Saranno i ragazzi stessi, attraverso la collaborazione reciproca, a risolvere il problema posto dall’adulto, il quale solo si dovrà far carico di favorire la ricerca della soluzione e di mediare nella comunicazione tra pari. Passati venti minuti ogni gruppo terminerà un’attività per iniziarne una nuova, spostandosi, all’interno della stessa aula, alla «stazione» successiva, dove l’adulto di turno lo accoglierà e darà nuovamente le istruzioni relative alla sua attività (Odina, Buitago e Alcalde, 2008). Si tratta in questo caso di un intervento didattico in grado di favorire l’interazione tra tutti i membri della comunità, preoccupandosi in particolar modo di favorire un ambiente inclusivo, anche e soprattutto per coloro che, in una normale dinamica di gruppo, non avrebbero la capacità di esprimersi liberamente. Inoltre, favorisce la solidarietà e l’aiuto reciproco: i genitori, convertitisi in volontari, hanno la possibilità di essere agenti attivi in un mutuo processo di insegnamento e apprendimento (Valls e Kyriakides, 2013). In questo modo non solo si migliora l’apprendimento, ma anche lo sviluppo emotivo, trasmettendo i valori di uguaglianza, solidarietà, rispetto e intelligenza culturale (Leiva Aguilera, 2018).

Infine, la terza proposta educativa è quella che maggiormente ha a che vedere con la formazione diffusa e continua di cui si è parlato in precedenza: le assemblee e gruppi di lavoro misti (asambleas e comisiones mixtas). Si tratta di iniziative che si svolgono tra studenti, genitori e insegnanti. Le assemblee tra studenti sono convocate su suggerimento degli stessi alunni, non a intervalli prestabiliti ma a partire dall’insorgenza d’un problema, e sono mediate da un docente. Si tratta di uno strumento utile per autoregolare eventuali problemi a livello interpersonale, e per mediare in caso di conflitto. Le assemblee sono momenti di autentico dialogo contrapposto allo scontro, al silenzio, all’invisibilità che spesso caratterizza il delicato rapporto umano, specie, ma non unicamente, tra bambini e ragazzi. In modo simile, le assemblee si ampliano anche al resto della comunità, nei gruppi di lavoro misti, tra studenti, famiglia, docenti e, potenzialmente anche residenti del quartiere. Il loro obiettivo principale è quello di migliorare le condizioni materiali e immateriali del centro e dell’ambiente circostante, per favorire una maggiore partecipazione di tutti nella vita della scuola, condividendo obiettivi e progetti in un clima di reciproco rispetto e ascolto (Flecha, 2011). Si crea così una visione comune a tutta la comunità, progettando insieme un cammino congiunto verso la convivenza, tanto all’interno come all’esterno del centro educativo.

Tutte queste proposte d’intervento didattico rappresentano una traduzione pratica coerente con i principi teorici visti in precedenza. Nel loro insieme cercano di rispondere quindi al bisogno di creare spazi e momenti in cui un’educazione diffusa e di qualità, non superficiale ma ricca e vissuta in modo significativo, sia offerta non solo agli studenti ma anche al resto della comunità educativa e della società, in un rapporto di scambio reciproco e continuo di conoscenze e capacità.

Conclusioni. Alcuni limiti della comunità di apprendimento

Dall’analisi condotta in queste pagine risultano senz’altro evidenti gli aspetti positivi di questo progetto pedagogico che sempre più sta acquistando importanza all’interno del panorama iberoamericano e non solo, suscitando interesse crescente, sia all’interno della comunità scientifica, in una prospettiva top-down come, in una prospettiva bottom-up, tra studenti, docenti e familiari.

Tuttavia, in fase di conclusione, sembra opportuno sottolineare anche alcuni aspetti critici legati a questa prospettiva. Da una parte, infatti, si è legata strettamente tale proposta alle sfide della società dell’informazione, alla necessità di un’educazione diffusa e continua in grado di produrre una trasformazione positiva nella vita democratica delle comunità, oltre i limiti dell’istituzione scolastica stessa. A tal proposito, nell’attualità, è possibile notare una progressiva perdita di interesse per questo carattere trasformatore, tuttavia professato a livello teorico da questo progetto pedagogico e sociale.

Di fatto, la concentrazione sempre più frequente sulle good practices sta producendo uno spostamento sempre più significativo dal piano della riforma sociale — in nome dell’uguaglianza, della solidarietà e della costruzione di una cittadinanza critica — verso un’attenzione sempre più marcata per i risultati accademici che tali attuazioni possono favorire. Si preferisce così, a una prospettiva critica e trasformatrice, una proposta che si adegua agli standard e agli imperativi economici e ideologici della società odierna.16 Si preferisce, in altri termini, puntare all’efficienza, al successo della proposta secondo un’ottica più conservatrice di quanto proponga sia la prospettiva descolarizzatrice di Illich, che quella emancipatrice di Freire, o quella civica di Tonucci. In questo modo, si snatura l’essenza stessa della comunità di apprendimento, dal momento che tutte queste good practices possono essere implementate in qualsiasi centro indipendentemente dalla visione condivisa dai diversi agenti educativi, e con totale indipendenza dal contesto sociale nel quale e per il quale dovrebbero operare.

Quest’aspetto conservatore della proposta risulta implicitamente evidente anche in relazione all’uso di un linguaggio egemonico, fatto di frequenti parole chiave e riferimenti comuni, spesso acriticamente accettati e difesi, da parte di molti degli autori impegnati nella definizione e diffusione di questo progetto educativo. Se, per un verso, questo risulta parzialmente comprensibile nella fase di creazione di una nuova proposta, al contrario, trovandosi a rivestire nell’attualità un ruolo predominante, anche al livello delle politiche educative, questa proposta educativa sembra pericolosamente incapace d’accogliere al suo interno nuovi suggerimenti pedagogici. In altri termini, non si promuove una partecipazione democratica a un progetto comune, al sapere che si intenderebbe creare secondo una dinamica comunicativa orizzontale e rispettosa. Al contrario, si presenta invece un sapere chiuso, impermeabile e settario, più simile a un brand da vendere che a un progetto educativo partecipativo, aperto e intenzionato a promuovere realmente una trasformazione globale attraverso la partecipazione autentica della società nel suo congiunto. Una rigidità e assenza di flessibilità che rischia di bloccare sul nascere nuove esperienze educative originali.

Infine, se da una parte le comunità di apprendimento dipingono chiaramente lo scenario che aspirano a realizzare, peccano talvolta di un errore di prospettiva, che porta a confondere, come visto nel caso dei principi della comunicazione dialogica, tra piano descrittivo e piano normativo della proposta stessa. In altri termini, si confonde ciò che la comunità di apprendimento vuole essere con quello che di fatto è. Si tratta di un errore assai pericoloso dal momento che ogni comunità, politica come educativa, è sempre, in quanto tale, un progetto aperto al futuro, mai realizzato e sempre in bilico tra successo e fallimento (Millei, 2012). Non una realtà precostituita, ma un processo dinamico in continuo ed energico cambiamento, aperto al rischio e all’evento inaspettato.

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1 Universidad Pública de Navarra.

2 Universidad Pública de Navarra.

3 La Carta delle città educative è consultabile online, in diverse lingue, all’indirizzo: www.edcities.org (consultato il 24 settembre 2020).

4 Tonucci, 1996. La proposta di Tonucci possiede chiaramente un forte impatto in termini di costruzione di una partecipazione critica alla cittadinanza democratica. Si veda, a questo proposito Tonucci, 2009.

5 Come scrivono Mottana e Campagnoli (2017, p. 17): «Se provassimo a rimuovere dal nostro campo di abitudini mentali quel luogo di detenzione che si dice a fin di bene e che chiamiamo scuola, potremmo vedere prendere forma un altro mondo, un altro mondo possibile, un mondo giovane, dai bagliori imprevedibili, un mondo ricco, colorato, carico di futuro. È pensando a un mondo così che occorre oltrepassare i muri della scuola e guardare diversamente, verso ciò che qui vorremmo chiamare, come già detto, educazione dell’esperienza diffusa, o, più semplicemente, educazione diffusa, o ancora scuola ma scuola diffusa».

6 Sul significato di questa preoccupazione qui definita come umanista, si veda in particolare Elfert, 2012 e UNESCO, 2015.

7 Si veda in particolare Flecha, 1997; Delgado-Gaitan, 2001; Elboj Saso et al., 2002; Aubert et al., 2004.

8 Traduzione da parte dell’autore del presente articolo.

9 A proposito di questo concetto si veda Aubert et al., 2008; in particolare pp. 29-37. Di particolare interesse risulta l’integrazione di diversi contributi teorici provenienti da varie discipline, come la filosofia, la sociologia e la pedagogia, al fine di delineare il senso dell’apprendimento dialogico nella società dell’informazione. In particolare, tra gli autori più frequentemente utilizzati come punti di riferimento, troviamo Mead, Freire, Chomsky, Habermas, Vygotsky e Giroux. Tuttavia, il rischio implicito nell’uso costante di questi riferimenti, e soprattutto la ripetitività con cui vengono citati all’interno di una produzione intellettuale tanto ampia come spesso omogenea, è quello di convertire questi autori in rappresentanti di un pantheon intellettuale presuntamente schierato a favore di questa proposta pedagogica successiva.

10 Questo elenco di obiettivi è una nostra elaborazione a partire da Flecha e Larena, 2008.

11 In relazione a questi aspetti inclusivi delle comunità d’apprendimento si veda Ortega e Puigdellívol, 2008.

12 Aubert et al., 2008, in particolare pp. 165-235. In relazione agli ultimi due aspetti si veda in particolare Elboj Saso, 2005.

13 Una capillare diffusione di questa prospettiva pedagogica è stata resa possibile grazie a un progetto di ricerca finanziato dall’Unione europea durante il quinquennio 2006-2011, guidato dalla stessa Università di Barcellona: INCLUD-ED Project. Strategies for inclusion and social cohesion in Europe from education, i cui risultati sono presentati in particolare in Flecha, 2015. Di grande utilità per orientarsi all’interno della produzione scientifica recente e sullo sviluppo delle tendenze didattiche più attuali risultano senza dubbio i numeri monografici che alcune riviste, in particolare in lingua spagnola, hanno dedicato al tema. In particolare El aprendizaje dialógico, «Cultura y Educación», vol. 21, n. 2, 2009; Comunidades de aprendizaje, «Revista Interuniversitaria de Formación del profesorado», n. 67, 2010; Claves para conseguir el éxito, «Cuadernos de Pedagogía», n. 429, 2012; Comunidades de aprendizaje, «Revista de Padres y Madres», n. 367, 2016.

14 Per una mappatura dell’attuale diffusione di questo modello pedagogico può risultare utile la consultazione del sito https://www.comunidaddeaprendizaje.com (consultato il 24 settembre 2020).

15 La scelta di un testo classico viene motivata dal fatto che in questo genere di opere, più e meglio che in altre, si possono apprezzare sfumature, intensità espressive ed emotive altrimenti difficilmente esperibili. Inoltre, avvicinare un lettore di una condizione socioeconomica svantaggiata a un classico, verrebbe ad assumere secondo loro una potente valenza emancipatrice.

16 Sembra in questo senso adequata la critica già mossa da tempo da Gimeno Lorente (2003, p. 149): «Si la sociedad, a la que se pretende incorporar a los alumnos que cuentan con menos recursos, no se cuestiona, lo único que estamos proponiendo es una finalidad adaptativa al sistema social de estos alumnos para que puedan “competir” dentro de ella, y esto no es un planteamiento crítico sino afirmativo, como lo definiría Adorno».

Vol. 6, Issue 2, October 2020

 

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