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Filosofia dell’educazione / Philosophy of education

Dewey e i modelli della scuola d’infanzia
Dewey and the models of the kindergarten



Sommario

L’articolo si propone di riflettere sulla problematica educativa relativa all’infanzia. L’analisi di questo argomento, ampio e complesso, avverrà attraverso l’interpretazione che Dewey fa, in alcuni momenti della sua produzione filosofico-pedagogica, di alcuni assunti della filosofia dell’educazione di Fröebel e della Montessori, autori che hanno promosso la centralità del bambino, difendendo i diritti dell’infanzia. Attraverso questa analisi critica si rifletterà sulle idee deweyane relative alla scuola d’infanzia. Una prospettiva che si delineerà proprio in virtù delle critiche che l’autore statunitense fa in alcuni passi dei suoi scritti.

Parole chiave

Educazione, sviluppo del bambino, esperienza.


Abstract

This paper intends to reflect on the educational problem related to childhood. The analysis of this wide and complicated question will take place through the Dewey’s interpretation on the philosophy of education of Fröebel and Montessori, authors who have promoted the centrality of the child, defending childhood’ rights. Through this critical analysis will be reflected on the deweyan ideas about the school of childhood. A perspective that emerges in virtue of the criticism that the American author makes in some passages of his writings.

Keywords

Education, child development, experience.


 

Introduzione

In merito alla pedagogia dell’infanzia, tra gli autori che hanno segnato profondi e radicali cambiamenti vanno collocati senza dubbio Fröebel e la Montessori. Studiosi che hanno introdotto non solo innovazioni metodologiche, ma soprattutto una nuova concezione dell’educazione infantile. Il confronto fra le filosofie dell’educazione di questi autori si rivela di grande interesse. In questa sede  il mio intento è mostrare l’approccio pedagogico di Fröebel e Montessori  attraverso gli occhi di Dewey, onde evidenziare il commento critico che lo studioso statunitense fa di questi autori.  Infatti, ritengo che riguardo al pensiero pedagogico deweyano una questione ancora non sufficientemente studiata sia il suo rapporto con le pedagogie europee inerenti la scuola dell’infanzia. Nel suo pensiero, infatti, Dewey ha fatto riferimento sia a Fröebel che alla Montessori, pur senza dedicare loro studi specifici.

Pertanto, usando le riflessioni e le parole di Dewey, si cercherà di mostrare la questione dell’educazione dell’infanzia da una duplice prospettiva: quella froebeliana e quella montessoriana. Da questo duplice sguardo si cercherà di offrire una terza angolazione, definita dal pensiero del pedagogista americano. Infatti, attraverso le critiche di Dewey si evidenzieranno le idee cardine della sua filosofia dell’educazione rispetto all’infanzia.

Per affrontare tale questione il discorso si articolerà in tre punti. Nel primo paragrafo, dopo avere fornito alcune note introduttive a Fröebel, si discuterà della sua filosofia dell’educazione attraverso l’analisi dei passi di School and Society del 1899 effettuata das Dewey. Al termine di questo esame si riporterà il giudizio dello studioso americano su Fröebel. Nel secondo paragrafo, usando il medesimo procedimento adottato nel primo punto, si discuterà della natura del metodo pedagogico nella Montessori attraverso la lettura critica deweyana presente nella sua opera più conosciuta, Democracy and Education del 1916.

Infine attraverso la critica deweyana a questi due studiosi della filosofia dell’educazione si cercherà di capire quale sia il contributo deweyano alla pedagogia dell’infanzia, mettendo sin da subito in evidenza il fondamento del processo educativo deweyano, ovvero la sua teoria dell’esperienza. L’individuo è espressione dell’esperienza e, dunque, l’esperienza codificata nella cultura deve andare di pari passo con l’esperienza del bambino. In questa prospettiva l’attenzione che Dewey dà alla discriminazione sensoriale è di fondamentale importanza per capire non solo la sua teoria pedagogica, ma anche il perché delle sue critiche a Fröebel e alla Montessori.

 

La pedagogia dell’infanzia di Fröebel

Nel parlare di Fröebel, pedagogista tedesco che si colloca nella corrente del Romanticismo, la mente corre subito alla sua attenzione e cura all’infanzia. Una cura ‒ di derivazione mistica ‒ e un amore per la natura che molto probabilmente hanno ispirato i giardini d’infanzia ‒ kindergarten. Il pensatore tedesco, autore di un cambiamento pedagogico significativo inteso a celebrare l'essenza del bambino, mette al di sopra di tutto la dimensione psicologica e pedagogica dell’infanzia. Il luogo idoneo a cogliere la psicologia del bambino e a dare impiego alle regole pedagogiche è appunto il kindergarten, che, garantendo lo sfogo della libertà, consente di cogliere la vera natura dell’infante.

Nel gioco il bambino manifesta la propria essenza e acquisisce consapevolezza di sé poiché il gioco è un metodo fisiologico di educazione spontanea. Questa teoria froebeliana, che si traduce in un progetto pedagogico, ha una natura mistica in quanto per il pensatore l’educazione ha il compito di “realizzare” il divino nell’uomo e proprio l’infanzia è “depositaria della voce divina”. Poiché Dio è immanente nella natura, il punto di approdo è l’unità. Tutto è regolato e si regola sul principio di unità.

Tutte le variabili esistenti in natura e nella natura di ogni singolo individuo sono riconducibili al principio di unità. Vi è dunque un principio o regola che unifica la molteplicità dei fenomeni. È, dunque, la natura dell’individuo a possedere un principio che unisce la molteplicità, dando un significato preciso al tutto. C’è uno spirito divino nell’uomo.  Spirito che ha una funzione precisa, la pace: raggiunta l’unità interiore la si dovrà utilizzare per raggiungere la pace globale. Aspetto, questo, che si ricollega  al pacifismo della Montessori. Tutto si origina dall'unità e tutto per avere un senso deve tendere all’unità. Per comprendere meglio un pensiero così complesso è utile soffermarsi sul commento di Dewey sui giardini d’infanzia.

Per il filosofo statunitense, la scuola di Chicago poteva essere considerata un’applicazione della filosofia dell’educazione di Fröebel, in quanto essa ne recepiva i princìpi fondanti. Un’applicazione che si estendeva dai bambini di 4 anni a quelli di 12 (“periodo dell’infanzia”, appunto), a differenza del periodo indicato da Fröebel che va dai 4 ai 6 anni. Allargando l’arco temporale del giardino d’infanzia, occorre – con alcune modifiche – ricrearlo pur rimanendo fedele ai suoi principi originari froebeliani.

La sede in cui è rilevabile l’atteggiamento di Dewey verso il pensiero di Fröebel può essere individuata in alcune pagine di School and Society,[1] ma anche di Democracy and Education [2] del 1916. School and Society fu pubblicata nel 1899 e riedita nel 1915. Questa opera, che forse nella mente di Dewey avrebbe dovuto servire semplicemente come saggio divulgativo “scritto in stile casalingo e disadorno, senza pretese di sorta”[3], in realtà racchiude l’essenza pedagogica del pensiero deweyano e va letta come un’anticipazione di quanto verrà discusso e approfondito in Democracy and Education (1916), in Reconstruction in Philosophy (1920), The Problems of Men (1946), A Common Faith (1934), e altri ancora.  Lavoro che nasce dalle lezioni che si sono aperte nel gennaio del 1896 presso la University of Chicago Elementary School a genitori, allievi e insegnanti.

Alla base di queste lezioni e, dunque, alla base dell’opera c’è la credenza che l’educazione, connessa inscindibilmente all’esperienza, si leghi anche al “sentimento” democratico. Con un linguaggio semplice, il pensatore fa discendere la carenza e “pericolosità” dei metodi scolastici tradizionali dalla “vecchia psicologia”. Il problema per Dewey risiede nell’unità tra lo spirito dell’individuo e lo spirito della comunità. Infatti, egli considera l’individuo dotato di uno spirito che vive solo nel sociale, che non può autorealizzarsi, perché necessita degli stimoli sociali. Lettura, questa, che giustifica la natura che Dewey dà al processo educativo, quello di essere un processo naturale di incessante interazione fra l’individuo e l’ambiente (assunto che ritroviamo in moltissime opere deweyane). Per questa ragione la scuola non deve limitarsi a una relazione statica e chiusa tra maestro e allievo o tra maestro e genitore ma deve aprirsi al progresso sociale. “Noi siamo proclivi a considerare la scuola da un punto di vista individuale, come alcunché che si limita ai rapporti fra maestro e alunno, fra insegnante e genitore. Quel che ci interessa al massimo è naturalmente il progresso fatto da quel determinato fanciullo di nostra conoscenza […] E abbiamo ragione. Tuttavia occorre allargare il nostro orizzonte. Quel che i genitori migliori e più saggi desiderano per il proprio figlio, la comunità lo deve desiderare per tutti i suoi ragazzi. Qui individualismo e socialismo sono un tutt’uno”.[4]

Questo piccolo capolavoro deweyano, dunque, può fornirci delle risposte su come insegnare, su come far vivere l’infanzia, sul rapporto tra genitori e insegnanti, tra insegnanti e allievi, e tra allievi e la società esterna come componenti attivi di essa. Potrebbe essere visto come una sorta di diario di bordo all’interno del quale vengono offerte delle indicazioni innovative volte a trasformare la scuola tradizionale in una scuola aperta alla società che vive in perfetta simbiosi con la civiltà tutta. Questo perché solo la scuola è in grado di educare allo spirito scientifico. Opera, dunque, che racchiude il contenuto della rivoluzione copernicana metodologico-didattica divenendo l’emblema della scuola laboratorio. Nel discutere di educazione, di società, di scuola, di relazione tra insegnante e bambino, dobbiamo necessariamente partire e ritornare proprio da questa opera le cui pagine ricostruiscono il rapporto prima tra allievo e insegnante e poi, come una sorta di proiezione, tra scuola e società.

All’interno di questo quadro, l’autore dedica un capitolo a “I principi educativi del Fröebel”, che qui intendo esaminare analiticamente. In particolare, il focus analitico va posto sulle primissime pagine del capitolo in questione. Per chiarire il proprio atteggiamento verso Fröebel, Dewey usa una strategia retorica: racconta di una donna, una visitatrice che, giunta alla scuola di Chicago, pone una domanda a Dewey circa la presenza o meno del giardino d’infanzia. Alla risposta negativa, la donna insiste chiedendo se all’interno della scuola si svolgono attività quali canto, disegno, manualità, gioco, ecc. Ottenuta questa volta  una risposta affermativa, la visitatrice, tra un fare “trionfante e indignato” (per usare proprio le parole di Dewey), asserisce che proprio questo insieme di attività per lei è esattamente il “giardino d’infanzia”.

Dewey prende spunto da questo episodio per caratterizzare il pensiero di Fröebel, identificato emblematicamente col giardino d’infanzia, nei termini di un “atteggiamento pedagogico” generalizzabile all’intera educazione, anziché nei termini di specifici contenuti e attività (cioè, si vedono i fanciulli cantare, disegnare, giocare, ecc., ma dietro tali manifestazioni lo sguardo pedagogico coglie i princìpi a cui queste attività fanno riferimento).

A tale proposito, secondo Dewey, l’osservazione dell’ipotetica visitatrice suggerisce che la scuola laboratorio cerca di attuare alcuni princìpi pedagogici la cui prima intuizione è, probabilmente, dovuta a Fröebel. Dewey caratterizza nel seguente modo questi princìpi:

  • nel primo principio si dichiara che è necessario addestrare i ragazzi alla cooperazione, al reciproco aiuto, all’importanza dell’interdipendenza;[5]
  • nel secondo principio, si sostiene che la radice di ogni pratica educativa si ritrova non all’interno del materiale esterno, che prende vita da idee altrui, ma nelle attitudini e nelle attività impulsive del fanciullo;[6]
  • nel terzo principio, si sottolinea l’importanza di organizzare e dirigere l’educazione verso attività che si aprono alla società, le tendenze e le attitudini del fanciullo.[7]

Dopo avere enunciato questi princìpi, Dewey esprime un elemento chiave, cioè asserisce che, se questi princìpi rappresentano la filosofia dell’educazione di Fröebel, allora la scuola laboratorio può essere definita come una sua esemplificazione.[8] In altre parole, Dewey vede il giardino d’infanzia come un atteggiamento pedagogico, inteso a esprimere lo spirito secondo cui viene assunto il corpus teorico froebeliano, ovvero non come un metodo e un contenuto irrigidito bensì come un'impostazione generale dell’educazione scolastica alla luce di certi princìpi pedagogici suscettibili di traduzioni concrete diversificate. In altre parole, egli coglie lo spirito del pensiero froebeliano, piuttosto che fermarsi alla lettera.

Questo “atteggiamento”, secondo Fröebel, si manifesta in tutta la sua essenza proprio nel gioco, considerato un diritto dell'infanzia. Il gioco, che è la traduzione pratica di un impulso naturale degli esseri viventi al “fare”, al “creare”, va pienamente assecondato in quanto proprio attraverso esso il fanciullo sviluppa il linguaggio, l’attività logica, la creatività, ma soprattutto fornisce quelle regole relazionali che, se acquisite nel periodo dell’infanzia, portano il fanciullo a divenire un essere sociale aperto alla cura degli altri, oltre che alla cura del proprio sé. Un’intuizione questa che Fröebel traduce in metodo didattico ponendolo al centro dei giardini d’infanzia. Rappresenta l’atteggiamento spirituale. Un atteggiamento che si traduce nell’unità con la natura, con l’ambiente esterno al sé del fanciullo. Ogni azione legata al gioco, che deve avvenire nel segno della libertà, è l’insieme delle facoltà del fanciullo, dei suoi pensieri, e così via.  Il gioco, dunque, dà forma agli interessi del fanciullo, rappresentando quello che Dewey definisce aspetto positivo del gioco, per distinguerlo da quello negativo che vede la pratica del gioco come una fuga dalla realtà.

“Il gioco non deve essere identificato con nulla di quel che il fanciullo fa esternamente. Esso esprime piuttosto un atteggiamento spirituale nella sua interezza e unità. Esso è il libero gioco, in vario modo, combinato, di tutte le facoltà del fanciullo, dei suoi pensieri e dei suoi moti fisici, diretto a dar corpo in una forma soddisfacente alle sue immagini e ai suoi interessi. Negativamente esso è la libertà dalla pressione economica, dalle necessità di guadagnarsi la vita e di mantenere altri, e dalle rigide responsabilità che vanno unite alle attività speciali dell’adulto. Positivamente esso indica che la finalità suprema del fanciullo è la pienezza del suo sviluppo, la piena realizzazione dei suoi germoglianti poteri, realizzazione che lo porta di continuo da un piano a un altro”.[9]

Al riguardo Dewey, però, guarda oltre e valuta corretta questa asserzione froebeliana, ma fino a un certo punto. Nel discorso sul gioco, Fröebel fa una valutazione di natura molto vaga, generale, sebbene racchiuda una base che può veramente mutare il modo di vedere l’infanzia (qui Dewey fa riferimento all’importanza che riveste la nuova psicologia). Manca un riscontro pratico, che invece può essere individuato dal lavoro dell’insegnante che ha il compito di capire criticamente quale gioco sia realmente utile all’emancipazione del fanciullo. L’insegnante che per Dewey riveste il ruolo di guida, in Fröebel è marginale. Mentre per Dewey l’insegnante è libero di interrogarsi costantemente, osservando gli studenti, e trovare risposte da qualsiasi fonte, in Fröebel questo aspetto importante del lavoro dell’insegnante non traspare. Dice, infatti, Dewey: “Queste affermazioni sono molto generali e prese nella loro generalità tanto vaghe da sottrarsi a ogni portata pratica. Tuttavia il loro significato in particolare e sul terreno dell’applicazione esprime la possibilità e […] la necessità di un cambiamento radicale nel metodo del giardino dell’infanzia. Per dirlo audacemente, il fatto che il “gioco” designa l’atteggiamento psicologico del fanciullo e non le sue attività esteriori comporta la completa emancipazione dalla necessità di seguire qualsiasi dato o prescritto […]. La maestra avveduta guarderà certo […] alle attività a cui Fröebel fa menzione […] ma essa ricorderà anche che il principio del gioco richiede che essa studi e critichi con cura queste cose e decida se sono realmente attività adatte ai suoi bambini”.[10]

Per lo studioso statunitense i princìpi froebeliani sono corretti ma è necessario allargare l’orizzonte alla dimensione della pratica. In un certo senso, identificare l’azione del fanciullo ma anche quella dell’adulto, come espressione diretta del divino, quasi toglie da ogni responsabilità morale ed etica l’individuo. In questo il gioco che tipo di conoscenza fornisce? Seguendo i punti cardine del discorso froebeliano, la conoscenza avviene solo in virtù di questa unità che lega il fanciullo alle cose ed è solo nel gioco che il bambino sperimenta proprio questa unità spirituale. Il gioco, dunque, inteso come manifestazione del proprio essere, è un fenomeno psicologico complesso perché all’agire spontaneo si intersecano quelle azioni non spontanee. Per Dewey era così. Per Fröebel, però, si parlava solo di manifestazioni naturali della personalità. Una differenza non da poco. Una differenza che apre a osservazioni deweyane sul concetto di simbolismo e immaginazione in Fröebel. Il pedagogista americano, da pragmatista, non può affidare l’educazione al simbolismo o all'immaginazione o a teorie mistiche che non abbiano un riscontro pratico e su cui si può costruire un metodo educativo e formativo. Una critica, questa deweyana, che egli stesso giustifica attribuendo tale atteggiamento alle conoscenze ancora relative che si avevano al tempo di Fröebel (esempio affidarsi alla vecchia psicologia) e alle conseguenze legate alle politiche sociali della Germania di quel tempo. 

Concludendo con una valutazione complessiva dell’atteggiamento di Dewey verso Fröebel alla luce dei passaggi citati, mi sembra si possa ipotizzare che lo studioso americano coglie elementi di fecondità nel pensiero froebeliano; elementi che possono, cioè, essere riattualizzati rispetto alla scuola del suo tempo. Ad una condizione, però: che non si pretenda di applicare il metodo froebeliano alla lettera, ma si cerchi di estrarre i princìpi pedagogici generali ad esso immanenti e si traducano, tali princìpi, in forme adeguate alla concreta realtà della scuola a ridosso del Novecento.

Inoltre, e questo Dewey lo affronta in alcune pagine di Democracy and Education,[11] critica il metodo froebeliano sia sulla mancanza del materiale grezzo nei laboratori, nelle officine, sia sul “simbolismo” che permea il metodo didattico (limitandolo, dunque). Per lo studioso statunitense, infatti, per allenare al corretto uso dei sensi, occorre fornire al bambino la possibilità di sviluppare la conoscenza iniziale sulle proprietà degli oggetti in uso. Ovvero, il bambino impara le caratteristiche esterne degli oggetti mediante manipolazione, ma non ha la contezza delle caratteristiche che strutturano quell’oggetto. “I giochi e le attività del giardino d’infanzia mirano a dare al bambino informazioni sui cubi, le sfere e altro ancora […] presumendo di sostituire con il simbolismo dei materiali usati un qualsiasi scopo profondo e vitale che motiva l’apprendimento”.[12]

 

L’approccio montessoriano all’infanzia 

Dewey fa menzione della Montessori poche volte nel corso delle sue opere. In questa sede ci soffermeremo sui riferimenti presenti in Democracy and Education. Prima di illustrare in sintesi la sua critica per poi ripercorrerla in modo analitico, ritengo opportuno spendere qualche parola sull’opera in questione. Tale lavoro, come sostiene Sidney Hook nella sua importante Introduzione a questa opera, è stato – e continua tuttora a esserlo – un classico della filosofia dell’educazione e della filosofia morale. Si tratta delle due dimensioni che spiegano la concezione di Dewey circa il carattere relazionale dell’educazione e della società. La caratteristica sorprendente di questa opera è proprio la sua natura sempre “fresca” e sempre “attuale” per la risoluzione dei problemi legati all’educazione. Infatti, a oltre cent'anni dalla sua pubblicazione, ha ancora oggi un impatto significativo in relazione sia alle problematiche pedagogiche che a quelle politiche. Un classico che, come sostiene Hook, chiunque si occupi intelligentemente e con responsabilità di educazione non può permettersi di non leggere. Infatti i contenuti dell’opera sono schiettamente pedagogici con un approccio psicologico molto significativo. Questo legame con la psicologia, infatti, qui si giustifica proprio nel rapporto dell’esperienza con l’educazione, ovvero in che rapporti è o quali rapporti dovrebbe avere la scuola con l’esperienza del singolo bambino?

Ed è proprio in relazione a questo che diviene interessante capire cosa pensa Dewey del metodo montessoriano già pienamente conosciuto nel periodo in cui egli matura questo scritto. Il pedagogista americano non si sofferma lungamente sulla Montessori ma si limita a pochi riferimenti che, però, a un’attenta analisi dicono molto. Si pensi ad esempio alle poche parole che egli spende nel capitolo su “Il pensare nell’educazione” (cap. XII), in particolar modo nel primo paragrafo dedicato al “metodo”. Il pensatore americano muove dall’importanza che le scuole montessoriane attribuiscono ai materiali didattici formalizzati, anziché ai materiali grezzi dell’esperienza ordinaria, per giungere a distinzioni intellettuali. Com'è noto, infatti, il metodo montessoriano prevede l’uso di materiali strutturati, pensati appositamente per favorire la discriminazione sensoriale di specifiche qualità visive, auditive e tattili, traducibili in elementari distinzioni concettuali.

Secondo lo studioso statunitense, invece, il primo contatto deve essere per “prove ed errori” se si vuole risvegliare il pensiero, invece di “insegnare parole”. Occorre una reale situazione di esperienza, ossia una situazione esistenziale in cui si verifica l’interazione significativa tra l’individuo e l’ambiente, tale da poter assumere anche un profilo problematico. E non una situazione preconfezionata, che non richiede un’esplorazione per prove ed errori, poiché il materiale è predisposto per un esercizio particolare e determinato che conduce necessariamente a una certa distinzione concettuale.

Questa critica viene ripresa e specificata nel capitolo dedicato al “Gioco e lavoro nel curriculum” (cap. XV) e in particolare nel paragrafo “Occupazioni utili”. Qui la critica deweyana alla Montessori, che si lega a quella precedente sui materiali didattici, muove dalla funzione educativa delle “occupazioni” in particolar modo all’esperienza. Rispetto a ciò, l’uso dei materiali formalizzati nell’attività didattica, al posto dei materiali grezzi, non apre alla reale esperienza. Scrive Dewey: “Il timore della materia grezza traspare nel laboratorio, in officina, nel giardino d’infanzia froebeliano e nella casa dei bambini della Montessori. Si vogliono e si usano materiali didattici che siano già stati sottoposti a un’opera mentale di revisione e di perfezionamento”.[13]

Per lo studioso americano, infatti, il bambino comprende veramente la distinzione sensoriale solo quando questa è utile alla realizzazione di un’attività, alla risoluzione di un problema. Non se l’acquisisce senza uno scopo, come avviene, invece, nel metodo montessoriano. Per costruire un aquilone, ad esempio, bisogna che il fanciullo distingua il materiale da utilizzare rispetto al peso (esempio, distinguendo un tipo di legno dall’altro in base alla caratteristica di leggerezza o pesantezza). Solo così possono capire le distinzioni concettuali legate alle caratteristiche del materiale, e perché viene utilizzato per certi scopi e non per altri. Scrive Dewey: “[…] i sistemi nelle scuole d’infanzia e nelle scuole Montessori sono così impazienti di giungere alle distinzioni intellettuali senza ‘perdita di tempo’ che tendono a ignorare – o a ridurre – l’immediato, grezzo utilizzo dei materiali più familiari dell’esperienza, e ad avviare gli allievi immediatamente all’uso di materiali che esprimono distinzioni intellettuali che gli adulti possiedono”.[14]

Per lo studioso americano, innanzitutto, essendo l’esperienza la base dell’educazione, è necessario anzi indispensabile imparare a capire cosa sia un’esperienza e come essa si realizzi. Ed ecco che la scuola per agevolare questo nella sua prima fase deve essere meno scolastica possibile poiché prima di insegnare parole deve educare al pensiero. E ciò può verificarsi solo se si crea un collegamento stretto tra la scuola e la realtà esterna. In che modo? Richiamando differenti tipi di situazioni che si verificano fuori dalla scuola, cioè nella vita ordinaria. L’apprendimento, dunque, per Dewey avviene solo in modo naturale e non dal fare abitudinario e capriccioso.[15]

Al riguardo, però, ritengo necessario riflettere sulle critiche deweyane alla Montessori ragionando sull’essenza scientifica del metodo montessoriano. Tutto il metodo montessoriano, incluso il materiale didattico, è di natura scientifica.[16] Ciò significa che esso mira a studiare, guidare e tutelare la natura bio-psichica del bambino. La studiosa di Chiaravalle, laureata in medicina, si preoccupa così di porre al centro lo studio fisico dello scolaro in relazione all’intelletto. E ciò può avvenire solo in ambito scolastico, laddove si educa il bambino, al quale va somministrato un materiale idoneo a interpretarne scientificamente la mente. Infatti, da un tipo di lavoro scientifico del genere si possono ricavare conoscenze relative all’infanzia che permetteranno di ridurre la grande quantità di errori che tanto l’agire pedagogico quanto quello sociale hanno commesso. Ciò apre a una lettura che ci porterebbe a giustificare solo parzialmente la lettura critica che Dewey fa della Montessori, in quanto il metodo di quest’ultima si basa su dottrine medico-scientifiche.

Per comprendere la critica di Dewey alla Montessori bisogna tenere conto dell’assunto deweyano secondo cui alla base della teoria educativa c’è la teoria dell’esperienza, e quindi alla base dell’educazione sta l’esperienza. Per Dewey nella Montessori manca la creazione di situazioni connotate da un autentico processo di esperienza. Manca lo scopo. Manca il problema. Manca l’esplorazione per prova ed errori. Manca, insomma, tutto ciò che caratterizza il decorso di una esperienza autentica. Perciò, il metodo montessoriano appare a Dewey riduttivo e artificioso, inadeguato alla preparazione per l’ingresso alla realtà sociale.

 

Contributo indiretto di Dewey alla pedagogia dell’infanzia

Dewey non ha dedicato un’opera specifica alla pedagogia della scuola dell’infanzia. Tuttavia alcune sue posizioni circa tale questione si possono desumere indirettamente dalle sue valutazioni circa il metodo froebeliano e quello montessoriano. Dalle sue critiche emerge comunque un riferimento costante, esplicito e implicito, all’esperienza come base dell’educazione. Pertanto non si è lontani dal vero asserendo che una pedagogia deweyana per la scuola dell’infanzia può essere derivata dalla teoria dell’esperienza. Esperienza che per lo studioso americano è l’equivalente della sperimentazione.[17] Così come questa è stata definita in particolare rispetto all’educazione, in Democracy and Education e in Experience and Education. Da queste due opere emergono principi quali il principio di interazione e il principio di continuità.

A questi due principi Dewey ne aggiunge altri due: il principio di adattamento dell’individuo e quello relativo al rapporto tra l’esperienza del bambino e l’esperienza codificata nella cultura. Quest’ultimo principio viene discusso da Dewey in diversi luoghi ma in questi termini lo fa per la prima volta in The Child and the Curriculum del 1902. In questo lavoro, l’autore dice espressamente che la scuola sana è quella che crea e fissa i contenuti del curriculum facendo riferimento all’esperienza del bambino. Il bambino è il punto di partenza, il centro, la fine. L’ideale della scuola deve essere la crescita del bambino. Ma la conoscenza e l’informazione devono essere il punto di partenza. L’oggetto del programma si doveva legare agli interessi del bambino e le attività del bambino al contenuto del programma. Questa considerazione deweyana è importante anche in relazione al rapporto con la filosofia dell’educazione froebeliana, poiché gli costò l’accusa di essere anche egli un romantico. Accusa che però Dewey rigettò subito difendendo la sua posizione come differente da quella dei romantici che ritenevano pedagogicamente corretto coltivare gli “interessi dei bambini e gli scopi così come sono”. Per il filosofo americano non si parla del bambino ma della razza umana e quindi dell’esperienza che lo ha reso così come è fino a quel momento. Bisognava, diceva Dewey, che gli insegnanti “riaffermassero nell’esperienza” il contenuto del programma.[18] E ciò può essere fatto solo tenendo conto di alcuni princìpi.

Il principio di continuità dell’esperienza e quello di interazione spiegano come la situazione presente, che si sta svolgendo, interagisca con l’esperienza precedente. Entrambi i princìpi sono per Dewey necessari per la filosofia dell’esperienza educativa. Il principio di continuità, proprio per la sua caratteristica di unione, consente di discriminare le esperienze, cioè di distinguere le esperienze educative da quelle non educative. In breve, questo principio “giudica” il valore di un’esperienza e, dunque, è di grande aiuto nel dirigere l’apprendimento. “Per tale ragione è importante riconoscere le esperienze che portano alla crescita. Esperienze che abbiano valore si generano solo quando le condizioni oggettive vengono dopo quelle interiori all’individuo. Aspetto questo che invece l’educazione tradizionale capovolgeva privilegiando le condizioni esterne rispetto all’interiorità dell’individuo”.[19] L’esperienza, infatti, è transazione tra l’individuo e l’ambiente. Per quanto tali indicazioni siano di tenore molto generale, possono contribuire a dare un orientamento fondamentale alla scuola dell’infanzia.

“La scuola e la comunità sociale debbono rappresentare la teoria e la pratica, perché esse sono le rappresentanti della conoscenza e della condotta morale. L’apprendimento scolastico va collegato all’apprendimento esperienziale e la scuola può anche ri-orientare la comunità”.[20]

In sintesi, per Dewey l’attenzione all’infanzia non può non tenere conto dell’esperienza e, in base a tale lettura, anche la filosofia dell’educazione – per essere definita tale – prima di tutto deve essere filosofia dell’esperienza. Sull’esperienza si struttura, dunque, il processo educativo deweyano al centro della sua scuola. In questo modo, il discorso legato all’infanzia in Dewey trae alimento dalla relazione dinamica intrinseca ed estrinseca all’esperienza. La scuola come istituzione sociale, la scuola come organo educativo-formativo deve mettere al centro esperienza, esperimento e apprendimento (il tutto inserendolo sempre all’interno della realtà sociale, con i suoi cambiamenti continui).

Ed è proprio nel calibrare e rispettare l’andamento di questi princìpi che l’insegnante entra in campo. L’insegnante in Dewey ha una grande responsabilità, perché consente ai bambini di lavorare liberamente avvalendosi di una guida costante. L’insegnante, infatti, deve calibrare la libertà impetuosa dei bambini, perché possiede gli strumenti idonei per individuare e comprendere le problematiche della situazione in atto prevedendo così una soluzione “aperta” all’esperienza futura senza dimenticare quella passata. Questo è il fondamento del laboratorio in cui regna la ricerca come soluzione dei problemi posti dall’esperienza, favorendo il confronto tra le abilità e la loro possibile applicazione in diversi contesti.

 

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[2] J. Dewey, Democracy and Education, «The Middle Works of John Dewey, 1899-1924», vol. 9, a cura di J.A. Boydston, Carbondale/Edwardsville, Southern Illinois Press, 1976-1983.
[1]
J. Dewey, School and Society, «The Middle Works of John Dewey, 1899-1924», vol. 1 (1899-1901), a cura di J.A. Boydston, Southern Illinois Press, Carbondale/Edwardsville, Southern Illinois Press, 1976-1983.

[3] J. Dewey, Scuola e società, Firenze, La Nuova Italia, 1949, pp. vii-viii.

[4] J. Dewey, Scuola e società, op. cit., p. 1.

[5] “The primary business of school is to train children in co-operative and mutually helpful living; to foster in them the consciousness of mutual interdependence; and to help them practically in making the adjustments that will carry this spiri tinto overt deeds”, in J. Dewey, The School and Society, revised edition, Chicago-Illinois, The University of Chicago Press, 1915, pp. 111-112.

[6] “That the primary root of all educative activity is in the istinctive, impulsive attitudes and activities of the child, and not in the presentation  and application of external material, whether through the ideas  of others or through the senses; and that, accordingly, numberless spontaneous activities of children, plays, games, mimic efforts, even the apparently meaningless motions of infants […] are capable of educational use; nay, are the foundation stones of educational method”, in J. Dewey, The School and Society, p. 112.

[7] “That these individual tendencies and activities are organized and directed through the uses made of them in keeping up the co-operative living already spoken of; taking advantage of them to reproduce on the child’s plane the typical doings and occupations of the larger, maturer society into which he is finally to go forth; and that it is through production and creative use that valuable knowledge is secured and clinched”, in J. Dewey, The School and Society, p. 112.

[8] “Nei limiti in cui questa esposizione rappresenta correttamente la filosofia dell’educazione di Froebel, la scuola di Chicago deve esserne considerata come l’esponente”, J. Dewey, Scuola e società, op. cit., p. 80.

[9] J. Dewey, Scuola e società, 1ͣ ed., op. cit., p. 81.

[10] J. Dewey, Scuola e società, 1ͣ ed., op. cit., p. 81.

[11] J. Dewey, Democracy and Education, «The Middle Works of John Dewey 1899-1924». In J.A. Boydston (a cura di), vol. 9, Southern Illinois Press, Carbondale/Edwardsville, Southern Illinois Press, 1980, ed. or. 1916. Trad. it., Democrazia ed educazione. Una introduzione alla filosofia dell’educazione, a cura di G. Spadafora, Roma, Anicia, 2018.

[12] J. Dewey, Democracy and Education, op. cit., pp. 309-310.

[13] J. Dewey, Democracy and Education, op. cit., pp. 308-309.

[14] J. Dewey, Democracy and Education, op. cit., p. 260.

[15] J. Dewey, Democracy and Education, op. cit., p. 261.

[16] Si legga al riguardo Il metodo scientifico dellapedagogia, scritto nel 1909, e Antropologia pedagogica del 1910.

[17] Al riguardo va citata un'affermazione deweyana molto significativa per la discussione in atto. Dice Dewey: “Un’oncia di esperienza è meglio di una tonnellata di semplice teoria perché è solamente nell’esperienza che ogni teoria ritrova il significato vitale. Un’esperienza è capace di generare e portarsi dietro una buona somma di teoria […] ma una teoria lontana dall’esperienza non può esser compresa realmente e profondamente”, J. Dewey, Democracy and Education, op. cit., p. 338.

[18] Si veda R.B. Westbrook, John Dewey and American Democracy, New York, Cornell University Press, 1991. Trad. it., John Dewey e la democrazia americana, a cura di T. Pezzano, Roma, Armando, 2011, pp. 153-154.

[19] T. Pezzano, Le radici dell’educazione. La teoria dell’esperienza in John Dewey, Milano, FrancoAngeli, 2017, p. 126.

[20] T. Pezzano, Le radici dell’educazione. La teoria dell’esperienza in John Dewey, op. cit., pp. 121-122.




Autore per la corrispondenza

Professore Associato di Pedagogia Generale, Università della Calabria
Indirizzo e-mail: t.pezzano@alice.it
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ISSN 2421-2946. Pedagogia PIU' didattica.
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