Editoriale
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Editorial
Massimo Baldacci
Professore Ordinario
«L’angelo della storia […] Ha il viso rivolto al passato», anche se la «tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro». (W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Id. Angelus novus, Einaudi, Torino 1962). Questo celebre passaggio di Benjamin condensa in modo esemplare la problematicità dell’esperienza storica dell’uomo. Sono sempre le parole di Benjamin a ricordarci la necessità di non smarrire la memoria del passato: «In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla» perché «anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince».
Queste tesi, sulle cui complesse matrici non possiamo intrattenerci, ci sembrano particolarmente significative rispetto a una tradizione di pensiero ad alta risonanza sociale, come la pedagogia. Da un lato, sembra necessario ricordare la scomparsa di autori che hanno segnato il pensiero pedagogico, rammentando la loro lezione. Dall’altro, il rischio di queste operazioni è sempre quello celebrativo, che finisce per imbalsamare gli autori, legando strettamente il loro pensiero alla loro epoca.
Un rischio simile sembra pesare anche sugli anniversari della morte di Antonio Gramsci (1937) e Lorenzo Milani (1967). Sarebbe facile sostenere che sia l’uno sia l’altro pensassero in relazione a situazioni storico-sociali oggi scomparse. Gramsci elaborava le proprie riflessioni entro un quadro segnato dalla prima industrializzazione fordista del nostro Paese (che rimaneva, però, prevalentemente agricolo) e rispetto al proletariato urbano, senza dimenticare le masse rurali del Meridione. Don Milani, invece, operava in un’area rurale-montana interna della Toscana, il Mugello, e si rivolgeva ai figli dei contadini montanari, discriminati dalla scuola. Oggi, nella società post-industriale che vede la maggioranza degli addetti operare nel settore terziario, le realtà sociali a cui questi autori si riferivano sono scomparse e anche i soggetti a cui si rivolgevano hanno perso consistenza. Perciò si potrebbe concludere che le loro opere sono ormai oggetti da museo pedagogico, fonte tutt’al più di ispirazione ideale.
Certamente, non è l’ispirazione ideale che difetta a questi autori. Un’idealità che deriva da una coerenza cristallina tra il pensiero e la condotta. Una coerenza personale spinta fino alle estreme conseguenze: il carcere fascista che compromise la sua fragile salute, portandolo alla morte, per Gramsci (il quale rifiutò sempre di chiedere la grazia), ma non minò la sua volontà di continuare ad elaborare il proprio pensiero, affidato ai Quaderni del carcere, messi in salvo alla sua morte dalla cognata Tatiana Schucht; l’emarginazione da parte delle gerarchie ecclesiastiche e l’isolamento a Barbiana (una parrocchia di circa duecento anime) per Don Milani, che pur restando attaccato alla Chiesa non rinunciò mai a esprimere il proprio pensiero, anche quando fu messo sotto processo per apologia di reato a causa della famosa lettera ai Cappellani militari in difesa dell’obiezione di coscienza «L’obbedienza non è più una virtù». Tuttavia, la loro lezione non è puramente ideale, e non si esaurisce in un atto di testimonianza. È la forza delle loro idee, oggi certamente inattuali, che occorre strappare al conformismo ormai in procinto di sopraffarle (per dirla con Benjamin). Idee situate entro matrici culturali molto diverse: la tradizione marxista per Gramsci, sviluppata in forma altamente originale nella sua filosofia della praxis; la tradizione cattolica per Don Milani, entro cui egli operò una peculiare connessione tra i motivi religiosi del Vangelo e quelli civili della Costituzione. Idee, inoltre, sviluppate in rapporto a problematiche differenti: per Gramsci la questione della sconfitta della classe operaia e dell’avvento del fascismo, dunque la necessità di concepire una nuova strategia storica per il proletariato occidentale; per Don Milani il problema della frattura tra la Chiesa e i poveri, quindi quello di un’esperienza pastorale capace di stare a fianco degli ultimi (sviluppato nel suo volume Esperienze pastorali, pubblicato nel 1958, e ritirato dal commercio per disposizione del Sant’Uffizio). Idee, tuttavia, che trovano un punto di convergenza nell’esigenza di un’opera d’emancipazione dei gruppi sociali subalterni, che nei loro tempi corrispondevano al proletariato industriale e a quello agricolo. Così le loro sono pedagogie dell’emancipazione.
Infatti, tanto in Gramsci quanto in Don Milani, il problema della diseguaglianza (centrale per entrambi) non è solo di tipo economico, anche se la questione della povertà ne costituisce un aspetto ineludibile. La diseguaglianza fondamentale è quella tra dominanti e dominati, che a sua volta dipende da una forte disparità culturale e intellettuale. I gruppi sociali che detengono il primato economico lo mantengono anche grazie al proprio potere politico e alla propria superiorità culturale (a questo proposito, Gramsci parlerà di egemonia politico-culturale). La priorità dell’educazione è allora per entrambi quella della crescita culturale e dell’emancipazione intellettuale e politica dei gruppi subalterni. La loro preoccupazione fondamentale, in altri termini, non è tanto quella di promuovere la mobilità sociale, quanto quelle della pari dignità culturale e politica di tutti gli uomini.
A questo proposito, Gramsci, nelle sue Osservazioni per la scuola: per la ricerca del principio educativo (Quaderni del carcere; Q12, 2), scriveva: «la tendenza democratica, intrinsecamente, non può solo significare che un operaio manovale diventa qualificato, ma che ogni “cittadino” può diventare “governante” e che la società lo pone, sia pure “astrattamente” nelle condizioni di poterlo diventare». Per Gramsci, cioè, il principio educativo democratico era che tutti dovevano essere educati come potenziali dirigenti, superando la divisione gentiliana tra una scuola destinata ai gruppi subalterni e una riservata ai ceti dirigenti.
Dopo più di trent’anni, Don Milani, insieme ai suoi ragazzi di Barbiana, scriverà nella Lettera a una professoressa: «Gli onorevoli costituenti credevano che si patisse tutti la voglia di cucir budella o di scrivere ingegnere sulla carta intestata […] Tentiamo invece di educare i ragazzi a più ambizione. Diventare sovrani! Altro che medico o ingegnere». Per Don Milani, quindi, la preoccupazione fondamentale della scuola doveva essere quella della formazione dei cittadini («sovrani»), piuttosto che quella di preparare sotto il profilo professionale, sia pure alle cosiddette professioni liberali (come la medicina e l’ingegneria).
Per Gramsci come per Don Milani, insomma, la scuola ha il compito di emancipare i gruppi sfavoriti dalla loro subalternità culturale, mettendo tutti in grado di partecipare in modo paritario alla vita civile e politica. In quest’opera di emancipazione, Don Milani enfatizzava il ruolo del linguaggio («è solo la lingua che fa eguali»), mentre Gramsci individuava un più articolato complesso formativo che includeva l’asse tecnico scientifico e quello storico-linguistico, ma sottolineava il ruolo cruciale di quest’ultimo (senza il quale non si può diventare dirigenti, ma si rimane semplici specialisti).
Crediamo che sia questa tradizione emancipativa, testimoniata da Gramsci e Don Milani, che dobbiamo salvare dal conformismo. Un conformismo che oggi si esprime nella subalternità all’idea della scuola come fabbrica del capitale umano. Di una scuola cioè concepita al servizio delle aziende e organizzata essa stessa come un’impresa. Una scuola il cui compito si riduce alla formazione del produttore equipaggiato di competenze direttamente spendibili nei processi produttivi. Contro questo riduzionismo economicista, occorre riattivare la lezione di Gramsci e Don Milani: la prima preoccupazione della scuola deve essere quella dell’emancipazione intellettuale dei giovani, senza la quale non formano persone autonome e cittadini sovrani.
© 2017 Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A.
ISSN 2421-2946. Pedagogia PIU' didattica.
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