Test Book

Bisogni educativi speciali / Special educational needs

Progetto di vita e progetto per vivere
Project of life and project for living

Andrea Canevaro

Professore emerito Università di Bologna - Scuola di Psicologia e Scienze della Formazione, Dipartimento di Scienze dell’Educazione, Dipartimento Scienze dell’Educazione

Vincenzo Biancalana

Ricercatore confermato presso Scuola di Scienze Motorie - Dipartimento di Scienze Biomolecolari - Scuola di Scienze Motorie, Università di Urbino Carlo Bo



Sommario

Le necessità identitarie, o più semplicemente di desiderio che ognuno nutre in sé, ci impongono un ripensamento e un aggiustamento di quello che è stato per molto tempo indicato come progetto di vita. In tale ridefinizione emerge così il progetto vitale. In questa nuova declinazione, non solo semantica, l’individuo cessa di essere oggetto del progetto per diventarne soggetto. Egli, scavalcando la logica “per obbiettivi”, diviene attivo protagonista di un percorso personale e originale, che considera ambienti e aspirazione proprie, disvelando prospettive immaginarie e collocandole al centro del progetto stesso. Se il dopo di noi fosse un’effettiva realtà di garanzie, da cosa riconosceremmo in quel tempo un disabile “felice” da uno “non felice”? Probabilmente dal progetto vitale che sta portando avanti.

Parole chiave

Disabilità, progetto di vita, progetto vitale.


Abstract

The aspirational identities of disabled subjects, or more simply their desire, require us an afterthought and an adjustment on what, for a long time, has been indicated as a life project. So, in this redefinition, the vital project emerges. In this new declination, not only semantics, the individual ceases to be the object of the project to become its subject. By overcoming the logic "for objectives”, he becomes active protagonist of a personal and original journey, which considers its environments and aspirations, revealing imaginary perspectives placed at the focus of the project itself. If the legal and social goals of the recent law, which provides for disabled subjects after the death of their parents, are eventually realized, from what we would recognize on that occasion, a "happy" disabled from a "not happy” one. Probably from the vital project he is carrying out.

Keywords

Disability, life project, vital project.


Introduzione

Chi educa, chi insegna, chi apprende, chi viene educato: tutti hanno in comune il progetto, chi perché lo sta realizzando sostanzialmente e chi perché lo sta costruendo. Tutti dovrebbero tenere conto della seconda legge di Orge: [1] l’evoluzione è più brava di noi. Se possono, tutti cerchino di diventare competenti secondo la logica R&S (Ricerca e Sviluppo, in inglese Research and Development, R&D o RND, indicata anche come Research and Technical Development/Research and Technological Development, RTD), usata per indicare quella parte di un’impresa, industriale ma non solo (persone, mezzi e risorse finanziarie), che viene dedicata allo studio di innovazione tecnologica da utilizzare per migliorare i propri prodotti, crearne di nuovi, o migliorare i processi di produzione. Nel nostro caso, anche se non è elegante, la produzione non è di manufatti ma di esseri umani che devono fare i conti con il loro progetto.

L’espressione progetto di vita sta entrando nel linguaggio del sociale e della prospettiva educativa. Essendo composta da parole utilizzate comunemente, dovrebbe avere un significato comprensibile e chiaro. Altre espressioni con analoghe caratteristiche non hanno avuto l’esito che avrebbero dovuto avere. Molti ritenevano di comprendere il significato, ma ognuno a modo suo. La chiarezza si trasformava in oscurità. Per evitare questo a volte vengono usate espressioni con parole del gergo scientifico, magari in inglese. In questo caso, l’espressione progetto di vita vorrebbe giustamente essere a disposizione, e quindi facilmente accessibile, dal più ampio gruppo di esseri umani.

L’intenzione è ottima. Non impedisce una riflessione di approfondimento dell’espressione stessa. Facciamo un piccolo cambiamento: l’espressione progetto di vita facciamola diventare progetto vitale.

Tra le due è possibile scorgere una prima differenza di significato, rapportandole al concetto di accesso interno/esterno (Ferrari 1997) al progetto e all’idea stessa di vita. In un’ottica bottom-up, le molteplici possibilità progettuali che accorrono, in logica sistemica, dall’“esterno” verso il soggetto in difficoltà potrebbero, infatti, coniugarsi a quelle, anche se ridotte o limitate, che provengono dal suo ’“interno”. Non è possibile, in altre parole, concepire un progetto vitale che non consideri anche desideri e prospettive “personali”.

Occorre intendere, cioè, l’individuo non più come oggetto (passivo) del/nel progetto, ma come soggetto (attivo) protagonista di un percorso che tenga conto anche delle sue necessità identitarie o più semplicemente di desiderio. Ricordiamo che già il PEI è fallace in quest’ottica: alla sua redazione partecipano “tutti” tranne il soggetto cui è rivolto (DPR 24/2/94, art. 5). È come un consulto di meccanici raccolti attorno a un'automobile rotta. Ma nessuno studente è un’automobile!

Naturalmente pretendere suggerimenti circa il proprio progetto vitale da un preadolescente è cosa perlomeno pretenziosa. Quindi, per poter efficacemente pensare a lui e con lui al suo progetto vitale, dobbiamo spostare il nostro punto di vista e considerare la necessità di elicitare desideri, aspirazioni o semplicemente le prospettive immaginarie verso cui il soggetto è proiettato, sapendo che, seppur latenti o lontane, esse sono istanze essenziali e presenti in ognuno al fine di completare se stessi.

Non dare o spingere solamente verso un traguardo o un comportamento, ma ricevere da lui ciò che non crede o non sa di avere. Aprire per costruire, giacché aprire è apprendere e apprendere è “cambiare”. Occorre scovare ciò che “potrebbe” dare entusiasmo, forza e direzione alla propria condotta e su quello insistere, aggiungendo competenze a competenze di volta in volta apprese.

A differenza dal progetto di vita, un progetto vitale supera, scavalca la logica “per obiettivi” pronunciata nel PEI, ne dilata i confini. Se paradossalmente riuscissimo a realizzare un futuro dove tutte le istanze di autonomia, assistenza, occupazione, ecc., fossero tali da rendere il dopo di noi un’effettiva realtà di garanzie, da cosa riconosceremmo un disabile “felice” da uno “non felice”? Uno realizzato da uno non realizzato? Dal progetto vitale che starà, o meno, portando avanti. In fin dei conti è un principio che vale per ognuno di noi!

Potrebbe essere d’aiuto a questo punto, provare a fare alcune domande e per ciascuna formulare un’ipotesi di risposta. In ogni ipotesi di risposta esamineremo la possibilità che il tutto possa essere adatto e accogliente per chi ha una disabilità.

 

Perché un progetto può essere vitale?

Il vocabolario Treccani dice: vitale agg. [dal lat. vitalis, der. di vita «vita»]. – 1. a. Di vita, proprio della vita: fenomeni, elementi v.; forza v., spirito v., forma v. (e sostantivato al masch., il vitale, nella filosofia di B. Croce; v. anche vitalità); funzioni v., processi v., in fisiologia; che dà e mantiene la vita, necessario per la vita, per la sopravvivenza: apparati, organi v., in fisiologia (e nell’uso corrente: colpire, venir ferito in una parte v. del corpo); in espressioni dell’uso letterario: È l’aura mia vital da me partita (Petrarca, con gioco di parole tra l’aura e Laura); la Parca Che lei dalle v. aure del giorno Chiamava a’ cori dell’Eliso (Foscolo). In partic.: minimo v., in economia, lo stesso che minimo di esistenza (v. minimo, n. 2 a); spazio v., nel linguaggio polit. e per estens. nel linguaggio com. (v. spazio, n. 2 f); slancio v., nella filosofia bergsoniana, traduz. del fr. élan vital (v. slancio, n. 3); prese v., nel judo, le prese che mirano a comprimere progressivamente organi vitali (e precisamente quelli della respirazione), in modo da obbligare l’avversario alla resa. Con significato più specifico, in biologia, e medicina, colorazione v., tecnica microscopica per effettuare, in cellule coltivate in vitro o nel vivente (dagli organismi unicellulari all’uomo), la colorazione di particolari cellule (negli animali superiori, soprattutto adipociti e cellule reticoloendoteliali), mediante un opportuno impiego di coloranti poco tossici (detti anch’essi colori o coloranti vitali). b. fig. Di primaria importanza, essenziale: questione v.; ciò ha per me un interesse vitale. 2. a. Che può vivere, che ha la capacità di vivere: un organismo per essere v. deve avere un giusto apporto di calorie; si dice soprattutto del feto appena venuto alla luce: è nato vivo e vitale. b. Pieno di vita, di energia: una persona molto v.; nonostante l’età, è ancora molto vitale. c. fig. Efficiente, dinamico, produttivo: un paese v.; un’istituzione, un organismo vitale.

Abbiamo sottolineato alcune parole per evidenziarle nella logica di questa riflessione. Le sottolineature indicano un ventaglio di significati che forniscono un senso. Se al posto di vitale mettessimo vitalistico, andrebbe bene ugualmente? Non andrebbe bene. Il vitalismo[2] è un facsimile deformante. Nel nostro tempo può significare assumere le caratteristiche indotte dalla pubblicità: passare il tempo libero in un certo modo, vestirsi secondo un certo stile e avere oggetti di un certo tipo, parlare usando certe espressioni, eccetera. Mostrare una vitalità artefatta, di maniera. Riteniamo di realizzare un nostro progetto, vitale, ma essendo vitalistico non è nostro.

Un progetto vitale è personale e originale. Nel progetto dobbiamo includere la possibilità di rischi. Non c’è progetto che possa essere tale senza rischiare qualcosa. C’è una differenza fra il correre rischi avendo preso le giuste precauzioni e correre rischi senza nessuna cautela. Gli esempi sono sotto i nostri occhi. Andare in auto con le gomme lisce. Guidare l’auto avendo alzato il gomito. Basta scorrere le cronache di un quotidiano. Le giuste precauzioni sembrano inutili quando il progetto non è vitale ma vitalistico: ci adeguiamo ritenendo che in questo modo non si corrano rischi, o, se si corrono, sono di tanti e qualcuno provvederà. Potremmo anche dire che un progetto vitalistico è conforme a uno standard. Lo standard sembra rassicurare e in questo modo far credere che il progetto sia privo di rischi.

L’originalità del progetto ci permette di anticipare e proporre qualcosa che riguarda la terza domanda. Kean - Genio e sregolatezza, è un film del 1956 diretto da Vittorio Gassman. È soprattutto un’opera teatrale, Kean, ou Désorde et Génie,[3] di Alexandre Dumas (padre) del 1836 e il suo adattamento omonimo del 1953 di Jean-Paul Sartre. Gassman la propose a teatro nel 1954. Genio e sregolatezza possono creare una miscela esplosiva. Negli sport di squadra, nel calcio in particolare, genio e sregolatezza esigono che l’allenatore riesca a “gestire” chi, fuoriclasse, rende impossibile la vita del gruppo. Può essere meno evidente, ma in molte situazioni, lavorative, sociali, culturali, vi sono situazioni analoghe. L’allenatore che riesce a gestire il fuoriclasse genio e sregolatezza potrebbe non saper niente di dinamiche di gruppo e di Lewin.[4] Non sa e agisce. Dall’azione nasce una conoscenza e una competenza. Tutto il gruppo ne ha giovamento. Ha provato la possibilità di comporre i singoli elementi del gruppo in modo armonico. Il o la fuoriclasse non stona più. Vale anche in ambito scolastico e formativo per il gruppo che passa il tempo dell’apprendimento per lo più in un’aula, e che viene chiamato classe. Con un gioco di parole accade che il soggetto con disabilità sia fuori classe. In questo modo il gruppo-classe appare armonico. Facile che prevalga il metodo di insegnamento detto “simultaneo”, in cui l’insegnante espone davanti agli alunni che devono imparare tutti nello stesso tempo e possibilmente nello stesso modo. Per il ragionamento fatto, le persone che compongono il gruppo-classe, in questa situazione, sono ritenute avere ciascuna un progetto conforme a uno standard.

Vediamo cosa può succedere, relativamente al progetto, al soggetto fuori classe. Tutti hanno un progetto conforme a uno standard tranne lui. Il suo progetto è extra. L’ipotesi e la speranza è che il progetto extra, proprio perché tale, permetta il raggiungimento del titolo o della promozione. Del traguardo.

Non escludiamo che a volte possa funzionare. Dobbiamo rilevare che in tutto questo c’è un possibile equivoco. Il soggetto fuori classe potrebbe raggiungere il traguardo ma non avere un proprio progetto. La maggior parte dei componenti del gruppo-classe potrebbero trovarsi nella stessa condizione. Tutti sono il risultato di un processo top-down.

Dennett (2018; 2017), con ampie e documentate argomentazioni, sostiene che ogni evoluzione è frutto di un processo bottom-up. Nel processo top-down, il soggetto che apprende deve soprattutto eseguire. Eventuali sue iniziative devono essere sulla linea che collega top a down. Non sono gradite uscite dalla linearità. Un processo bottom-up può avere una rappresentazione ecosistemica. Banalmente: per apprendere la matematica possiamo allontanarci dalla lavagna e andare in cucina. In questo caso ci comporteremmo come l’automobilista che, sapendo che la strada diretta fra due località è interrotta, utilizza la rete delle strade forse secondarie. L’ecosistema apre, dunque, ad alcune possibilità:

  • la serendipità, che indica una scoperta imprevista, apparentemente fortuita, certamente fuori dallo schema del controllo razionale dei protocolli di ricerca scientifica;
  • richiama il senso importante del non isolare una funzione rispetto almeno a un’altra;
  • fa scoprire che a volte l’isolamento di una funzione può creare un disfunzionamento sterile;
  • l’intreccio di funzioni fra loro del tutto dissimili, può portare a un funzionamento creativo, fecondo.

«La conoscenza, quindi, appare come un processo in continuo dispiegamento e consiste proprio nella progressiva strutturazione di schemi rappresentativi del mondo. Questi diventano a mano a mano più complessi e sempre più in grado di rendere decodificabile e prevedibile il fluire multiforme delle esperienze, essendo la decodificabilità e la prevedibilità gli strumenti gli strumenti indispensabili per un’efficace sopravvivenza» (Guidano, 1988, p. 23).

Gli studiosi delle Scienze Cognitive distinguono:

      - eventi cognitivi;

      - processi cognitivi;

      - strutture cognitive.

Un processo bottom-up con rappresentazione ecosistemica apre alle tre possibilità. Il processo top-down facilmente ne privilegia una.

 

Di cosa si alimenta un progetto di vita vitale?

Per prima cosa, di consapevolezza o, se si preferisce, del principio di realtà. Può sembrare un paradosso ma se così non fosse, un progetto vitale sarebbe null’altro che pura illusione. Coscienza, quindi, dei propri limiti ma anche delle proprie capacità che, opportunamente stimolate, potrebbero diventare abilità, cioè capacità di svolgere una particolare forma di attività. Tornando all’ambiguità delle parole dobbiamo precisare che spesso “capacità” e “abilità” sono tra esse fraintese.

Etimologicamente i dizionari riportano il termine latino habilitas per significare attitudine, idoneità e anche capacità, non rilevando, però, che quest’ultimo termine ha un significato ben diverso da quello comunemente attribuito al “sinonimo” abilità. Quante volte, infatti, ci è capitato di sentir dire di qualcuno che possiede grandi capacità nella musica, nel disegno o nel pattinaggio, allorché il riferimento è al prodotto, musicale, artistico o motorio che quel soggetto sta fornendo in quel momento? Sicuramente tante. In realtà, però, chi si esprime riferendosi a quei “prodotti” sta parlando di abilità o, meglio, di atti, azioni, comportamenti o altro, che sono stati nel tempo e nello spazio descritti e ri-descritti tante volte fino a che quell’azione, quella musica o quel disegno sono diventati quasi atti automatici e fuori “controllo” e la cui esecuzione comporta un minimo dispendio energetico. La proceduralizzazione iniziale, il controllo dell’esecuzione e la ripetizione sono alla base d’ogni assunzione d’abilità.

Per meglio comprendere ci rifacciamo a Schmidt e Wrisberg (2000), che giustificano questa diversità di contenuti utilizzando per analogia i termini hardware, per rappresentare le capacità e software, per le abilità. In altre parole è come se avessimo, secondo questi autori, delle macchine informatiche, dei computer che, all’origine, sono più o meno potenti, con più o meno memoria o altro, ma che il loro funzionamento sarà, a livello di prestazione, molto differente dipendentemente dall’operatore che avrà a sua disposizione programmi e abilità diverse e più o meno sviluppate.

Essi affermano, testualmente: «Altre analogie per le capacità potrebbero essere l’hardware di un computer o le carte che sono capitate ad una persona mentre gioca a bridge. Più l’hardware del computer è sofisticato, o migliore è la mano di carte, maggiore sarà la probabilità di successo nella prestazione. In ogni modo, anche il computer più artefatto del mondo è privo d’utilità senza programmi di software in grado di massimizzare le sue prestazioni» (Schmidt e Wrisberg, 2000, p. 30). In altre parole tutto sta nelle informazioni che riceviamo e nella loro implementazione, e l’informazione coinvolge sempre l’area cognitiva.

Cerchiamo di coniugare il concetto di Prodotto finito dei diversi processi di interpretazione col tipo di esperienza condotta e descritta nell’articolo:

  1. Il “prodotto finito”, come si “deposita”? Sotto forma di modulo computazionale? (Fodor, 1999).
  2. Dura solo il tempo della percezione? L’esperienza (Edelman, 1992), non incide sul suo consolidarsi e rimanere disponibile?
  3. Partendo dall’assunto che l’evidenza dei dati che mi si presentano non costituisce una garanzia circa la loro veridicità, io che osservo un terzo che sta assumendo dei dati, ciò che assumo è veritiero o sono anche io vittima di una falsa percezione?
  4. In prospettiva (lontana) come giustificare l’apprendimento o più in generale l’evoluzione?

 

Un progetto è vitale se non incontra ostacoli?

Nelson Mandela diceva che non perdeva mai: sia se vinceva che se era sconfitto, perché imparava. Julio Velasco, allenatore di pallavolo, sostiene che per imparare a vincere è bene imparare a perdere. Un vincente è tale se ha sopportato l’idea, e non solo, di essere perdente.

Michel Serres (1991) sostiene che non siamo uno ma due. È un ostacolo certo. Mancino e destrorso, il corpo di ciascuno si compone di due fratelli nemici, gemelli perfetti, nello stesso tempo simmetrici e asimmetrici, concorrenti e contrastanti.  L’apprendimento come meticciato è rappresentato da Serres dalla coppia bambino-schiavo, e dal viaggio, dal percorso che permette uno scambio problematico: il bambino, padrone, si affida allo schiavo, che conosce il fuori, l’esterno, l’esclusione, l’emigrare.  Arriveranno insieme alla porta della scuola e quel bambino avrà compiuto un cambiamento. Non c’è apprendimento senza esposizione, anche pericolosa, all'altro. È un viaggio verso l'esterno, con uno schiavo pedagogo, che sembra avere un compito molto modesto, come è proprio di uno schiavo.  Accompagnare è niente, come partire da casa. Tutto comincia da questo niente.

La conoscenza e l’apprendimento sembrano nascere da un niente che contiene l’incontro con la differenza. Tra bambino e schiavo c’è una differenza che immaginiamo anche fastidiosa. Lo schiavo ha un doppio ruolo: di sottomissione e di pedagogo, di educatore. Il primo contiene l’altro, anzi: lo schiavo può essere considerato buon educatore solo se accetta la sottomissione. Uno schiavo ribelle potrebbe essere educatore per un tempo molto breve, per poi subirne le conseguenze. Può giocare d'astuzia e mettere la sua ribellione in un’opera dell’intelletto e dell’ingegno, come fecero Esopo e Fedro. Deve trovare un modo per vivere la propria ribellione senza rimanerne vittima e magari essere ammirato.

A sua volta il bambino patrizio deve sottomettersi allo schiavo per imparare e, imparando, mantenere e perfezionare uno statuto di superiorità. Se l’apprendimento ha bisogno di passare attraverso un transfert e un’identificazione non deve, però, fermarsi a queste fasi: identificarsi non vuol dire assumere l’identità dell'altro o modellarsi sull’altro. E l’identificazione deve essere reciproca, anche se difficilmente è sintonica o consonante: il passo dello schiavo deve misurarsi su quello del bambino, e viceversa; ma quello dello schiavo deve far capire quale è il passo di un adulto, mentre quello del bambino ha la promessa, e la fatica, del futuro passo da adulto. La reciprocità è un punto di passaggio: lo schiavo rimarrà schiavo e il padrone bambino crescerà padrone.

Questo impianto “drammatico” della conoscenza e dell’apprendimento ha una possibile traduzione formulata con queste parole: un ostacolo può essere un punto d’appoggio.

Don Milani è un esempio preciso di quel nodo pedagogico illustrato da uno studioso come Philippe Meirieu (1995): il centro del discorso pedagogico è la resistenza dell’altro – bambino, bambina, adolescente, adulto, anziano – alla volontà dell’educatore o dell’educatrice.

Il lavoro di chi educa è su questa resistenza. Il momento pedagogico per eccellenza ha bisogno di questa resistenza. Don Milani, nel tempo di Barbiana, lavora su questa resistenza. Incontra dei giovani che non desiderano studiare nel senso che lui intende e le buone ragioni che loro possono addurre dovrebbero essere comprensibili all'educatore.  Lorenzo Milani si rifiuta di comprenderle e fa questo non perché non le capisca. Oltre a capirle ne percepisce la debolezza e quindi sviluppa un suo progetto educativo incontrando la resistenza, su questa lavorando.

Philippe Meirieu utilizza due termini: incontrare e spezzare. Su questi due termini si gioca l’etica pedagogica. Vi è uno scarto minimo da cui derivano due prospettive che si allontanano progressivamente l’una dall'altra. L’altro, o l’altra, che resiste, può rinviare al potere che un educatore o un’educatrice ritiene di avere, oppure desidera avere. In questa prospettiva l’esercizio dell’educazione è fondato sul potere: il potere sull’altro o sull'altra.

Lo scarto è minimo rispetto all’altra prospettiva che implica un esercizio del potere su se stessi. Spezzare la resistenza dell’altro o dell’altra insieme alla resistenza dell’educatore o dell’educatrice.  La differenza può sembrare piccola ed è essenziale. Don Milani permette di conoscere, attraverso le lettere, il grande lavoro esercitato su se stesso non per rinunciare al potere, ma per considerarlo in confronto al proprio modo, alle proprie abitudini, al proprio essere.

Vi è quindi la possibilità di individuare una terza posizione: quella di chi educa ritenendo di dovere allontanarsi dal potere.  Non si tratta, in questo caso, del potere economico, politico, ma di quello che è nella relazione educativa.

Avendo chiesto per quattro anni consecutivi a 250 studenti quanti di loro avrebbero scelto di seguire tra 2 seminari, di cui uno riguardante la disabilità e l’altro un argomento non specificato, il primo, si è avuta un’adesione che mediamente e ogni anno, non ha superato il numero di 5/6 unità! In altre parole, qualsiasi ignoto argomento sarebbe stato più interessante rispetto a quello sulla disabilità. Ora, se si considera che la platea alla quali ci si è rivolti era formata da giovani provenienti da quasi tutte le regioni del nostro Bel Paese, non è azzardato affermare che ai giovani italiani la “questione” disabilità non interessa. Tutto è preferibile ad essa.

Agli stessi studenti si è poi chiesto, quanti avrebbero partecipato, in luogo del seminario sulla disabilità, ad uno sulla rieducazione funzionale post trauma; risposta: ben oltre la metà. Al seminario sulla disabilità in cinque, a quello sulla rieducazione funzionale in più di centosessanta. Allora si è chiesto ancora: e tra uno che tratta di interventi su disabilità transitorie e uno al buio? Si sono alzate meno di trenta mani. (Dato che un ginocchio infortunato che necessita di rieducazione funzionale è assimilabile ad una disabilità transitoria, ci aspettavamo gli stessi centosessanta!).

Questi dati sconcertanti non sono da sottovalutare e impongono delle riflessioni e delle domande dovute. Prima fra tutte: perché? Perché la disabilità è vista come una cosa lontana dalla quale i giovani, che domani saranno adulti, rifuggono?

Come sopra detto, le parole sono importanti, soprattutto quando anziché aprire chiudono le porte alle informazioni e allo sviluppo. E da quest’ultimo esempio si è indotti a pensare che il termine “disabilità” sia preconcettualmente quello che fa la differenza. Lo stesso seminario, laddove appellato come Interventi di rieducazione funzionale è ritenuto “interessante” dal 64% degli intervistati, quando, invece, opta per Interventi su disabilità transitorie, lo è solo per il 12%! Non commentiamo neanche il dato riferito all’interesse dimostrato verso il seminario sulla Disabilità: il 2%. Probabilmente se tra gli studenti passasse la notizia che le galline hanno la sindrome di Down, il mercato dei petti di pollo alla mensa universitaria crollerebbe!

 

Chi ha un progetto vitale ha un progetto solo per sé?

Distinguiamo fra progetto vitale di ampio respiro e vasto orizzonte e progetto vitale di piccolo cabotaggio, a raggio ridotto, solo per sé. Inventiamoci un esempio. Immaginiamoci due persone che studiano per diventare avvocati. Una persona vive questo progetto solo per sé, in maniera autoreferenziale. Seleziona gli impegni badando che siano esplicitamente collegati al suo progetto. L’altra persona alterna lo studio sui testi di diritto a un lavoro a un banco di un supermercato. Il suo progetto potrebbe avere un respiro più ampio. Non è un dato certo, ma è possibile. Vediamo perché.

La prima persona segue un processo top-down. Ha il traguardo in mente e da lì fa derivare, discendere, il suo progetto, senza alcuna concessione. Non ci sono avanzi. La seconda persona segue un processo bottom-up. Per ragioni varie, il traguardo che ha in mente deve comporre, patteggiare, con elementi imprevisti, imparando a utilizzarne alcuni per implementare il progetto e lasciarne fuori altri, almeno provvisoriamente. Avanza qualcosa, da mettere da parte perché non si sa mai.

È possibile che la seconda persona non sappia cosa significhi esattamente teoria della mente.[5] Potrebbe conoscerla grazie al banco vendita e arricchire il proprio progetto di una grande capacità di interazione con chi incontra. Ha nutrito la sua mente e il suo progetto di una ricca quantità di memi. Supponiamo che le due persone che abbiamo inventato abbiano un patrimonio genetico simile. La differenza fra loro sarà il patrimonio memico. Chi legge può legittimamente domandarsi cosa voglia dire meme e il suo derivato memico. È una domanda paradossale, che potrebbe avere come risposta, irritante, le seguenti parole: è proprio questo, una parola inconsueta. Perché questa risposta può sembrare irritante? È troppo top-down. Stabilisce un netto rapporto gerarchico fra chi sa e chi ignora. Anche a un banco vendita di un supermercato il rapporto è fra chi sa e chi non sa, ma è di scambio. Si potrebbe dire che è fra chi sa e chi non sa a turno, un po’chi vende e un po’ chi acquista. E il meme? È quello che scambiano le due persone. Il meme (dal greco μίμημα, mímēma, “imitazione”, sul modello di gene) è una minima unità culturale, una moda, uno stereotipo, un’immagine, che si propaga tra le persone attraverso copia o imitazione che permettono disseminazione e condivisione.

Lo scambio può attivare un processo bottom-up reciproco. Con scambio di ruoli, reale e non finto. È importante. Conosciamo finti scambi di ruoli realizzati allo scopo di consolidare il rapporto gerarchico fra chi sa e chi è ritenuto ignorante.

In termini più specifici, un meme sarebbe “un’unità autopropagantesi” di evoluzione culturale, analoga a ciò che il gene è per la genetica, quindi un elemento di una cultura o civiltà trasmesso da mezzi non genetici, soprattutto per imitazione. La memetica è la scienza che si occupa dello studio dei memi.

 

Come si costruisce un progetto vitale?

Abbiamo distinto fra progetto vitale di ampio respiro e vasto orizzonte, e progetto vitale di piccolo cabotaggio, a raggio ridotto. Ambroise Paré[6] e Louis Braille[7] possono aiutarci a cercare di capire entrambe. Ambroise Paré era un barbiere e, come abituale in quel tempo, esercitava la chirurgia. È possibile che qualche chirurgo del XXI secolo non ne sia contento, ma fra i suoi antenati, professionalmente parlando, ci sono i barbieri. Paré era a Parigi nel 1533 quando c’era la peste.

Cercando vitto e alloggio, con abbondanza di lavoro pratico e il diploma di chirurgo-barbiere, divenne compagno chirurgo all'Hôtel-Dieu e per tre anni visse in questo ospedale facendo molte esperienze positive e praticando dissezioni ed esami post-mortem che, per motivi religiosi ed etici, era permessa in pochi altri luoghi. Intrecciando questi elementi - barbiere, ricerca di vitto e alloggio e Hôtel-Dieu per tre anni quando c’era la peste - divenne il padre della chirurgia moderna. Non un processo top-down, ma bottom-up. Il suo progetto personale (piccolo cabotaggio) è parte integrante di un progetto di ampio respiro e vasto orizzonte. Un giovane potrebbe avere un progetto di piccolo cabotaggio, molto limitato a sé in quel momento, tipo vitto e alloggio. Realizzando questo piccolo progetto, senza averlo voluto e programmato, si espone a memi che costruiscono un progetto ad ampio respiro. Facciamo un piccolo esercizio di immaginazione domandandoci quante informazioni utili avrà potuto assumere Ambroise Paré facendo il barbiere, trattando le barbe, le facce, di persone ciascuna col suo carattere, le sue pretese, le sue impazienze… Meglio di un corso di specializzazione.

Louis Braille è noto oggi per l’alfabeto che porta il suo nome. Suo padre era un sellaio con una clientela di alto rango e aveva a che fare con cavalli purosangue. Le selle e i finimenti non dovevano presentare la minima impurità alla vista ma soprattutto al tatto. Louis, a tre anni, si infortunò all'occhio sinistro nell’officina paterna dove passava il suo tempo. Con l’estendersi dell’infezione, divenne cieco. A 10 anni vinse una borsa di studio all’Institution des Jeunes Aveugles (Istituto per giovani ciechi) a Parigi. Si trattava di uno dei primi centri specializzati per persone non vedenti. L’intreccio di Braille: gioca nella bottega di suo padre, sellaio di qualità; vive la cecità e borsa di studio in istituto. Anche per lui un processo bottom-up.

In queste vicende, quello che abbiamo chiamato intreccio è un accumulo di eventi non programmati né previsti. Un accumulo di informazioni informali che permettono la nascita e la crescita di competenze formali alte.

Soffermiamoci su un elemento già incontrato: le informazioni. I memi. Sottolineiamo ancora una volta che Paré, per limitarci ad uno dei due personaggi ricordati, cerca vitto e alloggio, li trova e trova anche tre anni di esperienze di cura. Se si fosse rigidamente concentrato su vitto e alloggio, avrebbe avuto unicamente informazioni su vitto e alloggio. Il seguito lo lasciamo immaginare a chi legge. In un processo bottom-up, le informazioni non sono selezionate da criteri prefissati. Non c’è un progetto già delineato, tale da indurre l’assunzione di alcune informazioni e lo scarto di altre. Tutte le informazioni possono entrare nella crescita di competenze. L’ostacolo può essere il pregiudizio, o, più facilmente, i pregiudizi. Se Paré avesse avuto un forte pregiudizio nei confronti dell’Hôtel-Dieu e della peste, avrebbe perso informazioni utili per lo sviluppo delle sue competenze.

Le informazioni non sono solo parole, ma le parole sono importanti. Nel bene, permettendo una rappresentazione e una trasmissione nel tempo di informazioni non verbali. Nel male, perché, come abbiamo visto, a volte basta una parola per fare scattare un pregiudizio, e chiudere la porta alle informazioni, danneggiando la crescita di un progetto.

 

Stato dell’arte sul progetto di vita

Il progetto è davanti, o meglio: è attorno a noi. È nel paesaggio che ci circonda, in ciascuno di noi e nel passato che abbiamo alle spalle e che forse abita ancora la nostra testa. Il paesaggio contiene il progetto in frammenti collocati qua e là. La composizione del mosaico. Vuol dire superare la frammentarietà. E la precarietà. Trovare le connessioni che danno senso.

Domandiamoci ancora una volta in cosa consiste il valore: nell’essere attivamente quello che siamo casualmente, nello stabilire con gli altri e con noi stessi quella comunicazione che ci viene resa possibile dalla nostra struttura temporale e di cui la nostra libertà costituisce soltanto l’abbozzo (Merleau-Ponty, 1962).

Cerchiamo le risposte e nello stesso tempo facciamo il punto sul progetto di vita. Seguiamo due prospettive e cerchiamo di farle incontrare. La prima segue una logica che parte da una passione e cerca di farla crescere in una competenza (Robinson e Aronica, 2012; 2009). Incontra gli studi dei neuroscienziati. In particolare la ricerca di Antonio Cerasa (2018). Il cervello plastico si modella con la passione. E ha bisogno di un contesto appropriato per incoraggiare l’allenamento, ovvero la ripetizione dell’esercizio della passione perché diventi competenza in un progetto: il proprio progetto della vita. Un contesto stimolante fa sì che una persona possa incontrare chi già è competente. «[…] imparare osservando! Quindi possiamo affermare che la neuroriabilitazione basata sui mirror neurons funziona sia in ambito di impaired brain che di expert brain (p. 100). Se il contesto, l’ambiente esterno, non stimola la mia passione, le mie prestazioni sono meno buone (cfr. p. 149). Ma […] l’allenamento e la pratica ha creato una “traccia mnestica” dentro la corteccia […]».  Si è sviluppata la competenza. È nato il progetto di vita.

Deve incontrare l’altra prospettiva: dell’economia e del lavoro. È probabile che debba fare i conti con la produzione nella rivoluzione industriale 4.0 (Bianchi, 2018), il mondo del lavoro ha cambiato volto. È interconnessione, raccolta dati, filiera. Il progetto non è in una mansione, ma in un processo. Le possibilità offerte dall’alternanza scuola-lavoro (pur nella sua ridefinizione ridotta) sono importanti per avvicinare e capire il lavoro e il suo contesto. In questa prospettiva è prezioso il contributo di alcune studiose e alcuni studiosi che vivono oltre alla ricerca l’impegno sul terreno (Comunello, 2018; Marchisio e Curto, 2018).

Sintesi finale

Riepilogando, possiamo dire che:

  • un progetto di vita, essendo vitale, non è un progetto conforme a uno standard;
  • può trovare ostacoli negli stereotipi – anche in relazione alle disabilità – che condizionano chi diventa adulta o adulto;
  • ha bisogno di svilupparsi in un vasto orizzonte appoggiandosi a elementi che possono sembrare occasionali e anche marginali.

 

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  1. Leslie Eleazer Orgel (Londra, 12 gennaio 1927-San Diego, 27 ottobre 2007) è stato un chimico britannico.

[2] Teoria sorta nell'Ottocento in opposizione al meccanicismo assoluto: i fenomeni vitali non possono essere ridotti a interpretazioni chimico-fisiche, in quanto governati da entità immateriali, trascendenti o immanenti; sussiste ancora oggi in forma attenuata come semplice opposizione al riduzionismo. Noi in questo contesto utilizziamo questo termine in modo disinvolto e legato alla quotidianità.

[3] Edmund Kean, il protagonista, è un popolarissimo e istrionico attore inglese dell'Ottocento dedito ai vizi e carico di debiti. Contende al principe del Galles, suo compagno di sregolatezze, la moglie dell'ambasciatore danese, ma alla fine si innamora di Anna, una giovane ma promettente attrice debuttante.

[4] Kurt Zadek Lewin (1890-1947), psicologo sociale tedesco, tra i sostenitori della psicologia della Gestalt: la nostra esperienza è costituita da percezioni strutturate di oggetti e/o reti di relazioni, che solo in questa strutturazione trovano il loro significato. A lui si deve anche l'ideazione di una metodologia formativa diventata fondamentale nella psicosociologia: il T-group.

[5] La teoria della mente è la fondamentale capacità umana di comprendere e riflettere sul proprio e l'altrui stato mentale e sulle proprie e altrui percezioni, riuscendo così a prevedere il proprio comportamento e quello degli altri. È questo il significato che viene sviluppato nell'ambito degli studi metacognitivi. Cfr. L. Camaioni (a cura di), La Teoria della Mente, Origini, sviluppo e patologia, Roma-Bari, Laterza, 2003; G. Rizzolatti e L. Vozza, Nella mente degli altri. Neuroni specchio e comportamento sociale, Bologna, Zanichelli, 2004.

[6] Ambroise Paré (1510 circa-20 dicembre 1590), chirurgo barbiere francese che serviva in quel ruolo per i re Enrico II, Francesco II, Carlo IX ed Enrico III. È uno dei padri della chirurgia e della riabilitazione protesica. Cfr. J.-M. De La Comptée, Ambroise Paré. La main savante, Paris, Gallimard, 2007.

[7] Louis Braille [1] (Coupvray, 4 gennaio 1809-Parigi, 6 gennaio 1852) ideò l'alfabeto che da lui prese il nome, utilizzato per la scrittura e la lettura dalle persone non vedenti.




Autore per la corrispondenza

Vincenzo Biancalana
Indirizzo e-mail: vincenzo.biancalana@uniurb.it
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