Vol. 6, n. 1, aprile 2020 — pp. 1-3

EDITORIALE

L’insegnante è un intellettuale?

Nel nostro Paese si sta tornando a parlare del problema della formazione dei docenti di scuola secondaria. Dopo che il ministro Bussetti ha cancellato qualsiasi percorso formativo organico indirizzato a questo scopo, si è compreso che la sola acquisizione di 24 crediti di Scienze dell’educazione rappresenta una misura del tutto insufficiente per garantire un solido profilo professionale all’insegnante. Così, è ripreso il dibattito sulla soluzione da dare a questo problema, con relative prese di posizione e produzione di documenti, tra i quali ve ne sono alcuni capaci di dare indicazioni concrete e lungimiranti (si veda, per esempio, il documento della CUNSF, la Conferenza Universitaria Nazionale di Scienze della Formazione, reperibile sul suo sito). L’auspicio è che la politica presti ascolto a questi documenti, frutto di elaborazioni collettive da parte di organismi qualificati, invece di procedere in maniera autoreferenziale.

In ogni caso, rispetto alla formazione iniziale dei docenti, il modello di riferimento rimane quello delle SSIS — le Scuole di Specializzazione all’Insegnamento Secondario, inspiegabilmente soppresse dal ministro Gelmini —, ma anche quello dei Corsi di laurea in Scienze della formazione primaria. Entrambi questi modelli, infatti, sono caratterizzati da una impostazione organica, che tiene conto delle diverse dimensioni della professionalità del docente (articolata in competenze culturali, pedagogico-didattiche, relazionali e organizzative), e cerca di svilupparle attraverso un sistema che prevede corsi d’insegnamento, laboratori e tirocini, promuovendo l’integrazione di questi elementi secondo un rapporto unitario fra teoria e prassi.

Rispetto a questi modelli, rimane però una questione aperta, ossia a quale identità professionale generale di insegnante si debba fare riferimento. Infatti, nella pedagogia sono state successivamente proposte soluzioni diverse per caratterizzare l’immagine del docente. Per esempio, da un lato la metafora dell’insegnante come artista, dall’altro quella dell’insegnante come ingegnere. Nel primo caso, si evidenzia il ruolo dell’intuizione e della creatività nel lavoro in classe; nel secondo, l’esigenza di una pianificazione didattica tecnicamente adeguata. Si tratta di proposte indubbiamente capaci di cogliere certi aspetti del lavoro didattico, ma che ne trascurano altri parimenti rilevanti. Così, quelli citati sembrano più momenti della professionalità docente, che non modelli capaci di restituirne la complessità.

Rispetto a questa problematica, due modelli più felici e interessanti sembrano quello dell’insegnante come ricercatore (di matrice deweyana) e quello dell’insegnante come intellettuale (di estrazione gramsciana). Qui vogliamo spendere qualche parola su quest’ultimo.

Innanzitutto, la questione è in quale senso ed entro quali limiti l’insegnante possa essere visto come un intellettuale. Certamente, se si parte dal modello sartriano è difficile riconoscerlo come tale. Infatti, Sartre ha rappresentato l’esempio tipico di un intellettuale universale, capace di influenzare le dinamiche politico-sociali in forza del proprio prestigio culturale. Si tratta di un ruolo riservato a pochissimi grandi intellettuali (per il nostro Paese, si potrebbe fare il nome di Croce). Se però si assume come riferimento il modello gramsciano, esposto nelle note dei Quaderni del carcere,1 la questione cambia. In primo luogo, secondo Gramsci tutti gli uomini sono intellettuali, nel senso che tutti pensano, anche se solo alcuni lo sono di professione (così come tutti gli uomini cucinano, ma solo alcuni fanno il cuoco di mestiere). In secondo luogo, egli considera come professioni intellettuali tutte quelle in cui c’è un rapporto di persuasione e di direzione verso gli altri. Così, la categoria degli intellettuali si allarga in modo inedito: non solo i filosofi, i letterati e gli scrittori, ma anche i giornalisti, i politici, gli imprenditori, i sindacalisti, e — appunto — gli insegnanti.

Ma cosa si guadagna nel considerare l’insegnante come un intellettuale? Innanzitutto, l’insegnamento viene visto nei termini di una direzione dei processi formativi, un punto che trova sintonia nel Dewey di Democrazia e educazione.2 Inoltre, ci si concentra di più sui presupposti di questa direzione e, in particolare, sulla consapevolezza storico-culturale che è richiesta a chi deve svolgere questa funzione. Come chi governa un’imbarcazione può tracciare una rotta solo sulla base di una mappa e dell’individuazione della propria posizione, così il docente, per indirizzare il processo formativo nella giusta direzione, deve possedere una consapevolezza della problematica educativa così come si dà nella sua epoca e nel suo Paese. Una problematica che comprende elementi come l’attuale condizione adolescenziale, l’odierna dinamica sociale dei saperi e così via. Una consapevolezza al tempo stesso storica, sociale e culturale che permette di guardare lontano e da un’ampia prospettiva, e senza la quale la direzione didattica risulta miope e strabica.

In questo senso, il modello dell’insegnante come intellettuale risulta complementare a quello che lo vede come un ricercatore. Secondo quest’ultimo, infatti, si tratta di affrontare i problemi della pratica didattica — così come si danno in una situazione particolare e determinata — con un atteggiamento scientifico (riflessivo, critico ed empirico). Ma per comprendere pienamente il senso di tali problemi, occorre collocarli nel quadro di una più ampia problematica formativa, e occorre perciò che l’insegnante vesta gli abiti mentali dell’intellettuale.

Massimo Baldacci


1 A. Gramsci (1975), Quaderni del carcere, Torino, Einaudi.

2 J. Dewey (1949), Democrazia e educazione, Firenze, La Nuova Italia.

 

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