Introduzione

Il curricolo costituisce ancora oggi un dispositivo fondamentale per la progettazione del lavoro scolastico e per il raggiungimento dei risultati di apprendimento attesi. Oggi, tuttavia, la nozione di curricolo non sembra godere più di buona fortuna, almeno nel nostro Paese. Al punto che, mentre è facile rilevare la presenza del termine nei documenti programmatici per la scuola (si pensi alle «Indicazioni per il curricolo»), è assai più raro imbattersi in studi e ricerche sul concetto di curricolo.[1] Si potrebbe ritenere che ciò dipenda dal bisogno di superare, al tempo presente, un costrutto percepito come inattuale, non più in grado di rispondere alle istanze del mondo della scuola e della società. Crediamo che tale marginalità sia in gran parte legata a un’interpretazione riduttiva della nozione di curricolo nella quale si intravede la minaccia di un ritorno a impostazioni tradizionali, soprattutto per ciò che riguarda i saperi da insegnare. Al contrario, una riflessione pedagogica profonda e aggiornata su questo tema, diretta all’estensione del significato di curricolo in chiave integrata, potrebbe indicarlo ancora oggi come un dispositivo teorico e metodologico in grado di rispondere in maniera efficace ai problemi educativi posti alla scuola dalla nostra società.

Articoleremo la discussione in due parti. Nella prima parte, analizzeremo in chiave critica il costrutto di curricolo all’interno del dibattito pedagogico contemporaneo e della realtà scolastica. Evidenzieremo, in particolare, alcune interpretazioni riduttive di questo concetto discutendole sia dal punto di vista epistemologico sia dal punto di vista didattico. Nella seconda parte, avanzeremo un’ipotesi di Curricolo Integrato basato su una concezione sistemica dei saperi di insegnamento e su un modello rappresentazionale coerente con l’ipotesi delineata.

 

Il rischio di riduzionismi

La nozione formale di curricolo non ha un significato univoco. Anzi, la divergenza sul suo significato all’interno del campo di studi ad esso dedicato ha fatto emergere teorie e modelli interpretativi diversi (Frey, 1977; Pontecorvo, 1978) che coinvolgono le modalità della sua stessa utilizzazione sia all’interno dei documenti programmatici ufficiali emessi centralmente sia nelle prassi didattiche sviluppate localmente.

Pur vantando una lunga tradizione anglosassone di studi teorici e operativi che possiamo far risalire per lo meno alla fine degli anni Cinquanta, nel nostro Paese la problematica del curricolo è stata introdotta negli anni Settanta, in concomitanza con una stagione di innovazione che ha investito il modo di fare scuola, i contenuti di insegnamento, i rapporti scuola-territorio.[2] Alla definitiva affermazione della problematica ha poi contribuito l’emanazione del «Regolamento per l’autonomia» (DPR n. 275/1999) che all’art. 8 specifica le modalità di «definizione dei curricoli» da parte delle scuole, all’interno dei vincoli stabiliti centralmente.

Anche il significato della nozione di curricolo emergente dal dibattito pedagogico, sviluppatosi tra gli anni Settanta e gli anni Novanta, è ampio e include gli aspetti essenziali del lavoro didattico (che cosa insegnare, come farlo, secondo quale ordine, con quali finalità e obiettivi, in vista di quali risultati) declinati secondo criteri di flessibilità in relazione ai diversi contesti sociali e culturali, alle risorse disponibili, nonché alle caratteristiche individuali degli allievi. Dunque, un significato estremamente più comprensivo di quello assegnato alla nozione di «Programma», al quale si sostituisce per conferire al lavoro scolastico maggiore flessibilità, organicità e coerenza (Scurati, 1977; 1978; Frabboni, 1995; 2000).

Parallelamente, da un punto di vista concettuale, sul significato di curricolo nel nostro Paese ha influito la cosiddetta «rivoluzione del curricolo» o Curriculum Movement (Ajello e Pontecorvo, 2001, p. 19), avvenuta oltreoceano a partire dagli anni Cinquanta, poi seguita dalla nascita e dall’affermazione dei Curriculum Studies negli anni Settanta (Pacheco, 2012). A quella stagione si deve una marcatura di significato non immune da un certo accento ideologico, presente ancora oggi. La condanna di inadeguatezza dei metodi di insegnamento e dei programmi della scuola americana, che fu inaugurata dalla Conferenza di Woods Hole del 1959, aprì una stagione di riforme impegnate ad apportare una maggiore razionalizzazione al lavoro scolastico e a introdurre processi più stringenti di valutazione delle istituzioni scolastiche e dei risultati di apprendimento.[3] L’interesse fu sollevato, da un lato, dagli esperti delle discipline scientifiche, preoccupati dal divario tra la scienza moderna e l’insegnamento scientifico nella scuola; dall’altro lato, dagli psicologi impegnati nello studio dello sviluppo dell’apprendimento. L’intervento, com’è noto, fu diretto in chiave strutturalista (Bruner, 1960; 1967) verso il recupero degli «oggetti culturali» ai quali, in polemica con l’eredità della scuola attivistica, occorreva garantire fedeltà epistemologica e rigore metodologico. Anche la revisione delle pratiche didattiche fu diretta verso la semplificazione, la linearizzazione e la gerarchizzazione dei contenuti di insegnamento. L’affermarsi di questi interventi, in estensione geografica (dagli Stati Uniti all’Europa) e temporale (dalla fine degli anni Cinquanta alla metà degli anni Settanta) ha senza dubbio segnato il consolidarsi di una concezione realista e trasmissiva dell’insegnamento. Realista, in quanto l’assimilazione della organizzazione del curricolo all’organizzazione della conoscenza ha indotto a sottovalutare la trasposizione in chiave didattica dei contenuti di sapere, considerati come «oggetti in sé»; trasmissiva, in quanto l’assimilazione degli oggetti di sapere da insegnare ai corrispondenti saperi scientifici ha portato a concepire l’insegnamento e l’apprendimento come un problema che riguarda principalmente la scelta degli strumenti di comunicazione e di mediazione, ivi inclusi quelli finalizzati alla semplificazione, linearizzazione e gerarchizzazione dei contenuti di insegnamento (Martini, 2019).

Da questi elementi emergono due diversi modi di guardare al curricolo. Il primo guarda al curricolo come un percorso da svolgere, del quale definisce la struttura e le caratteristiche, secondo la logica propria delle istituzioni educative e culturali di riferimento (scuole di diverso ordine e grado, ma anche università); il secondo guarda al curricolo come selezione, analisi, trasposizione e pianificazione dei contenuti e delle discipline di insegnamento.

Entrambe le prospettive, tuttavia, sembrano cedere a riduzionismi. La prima, il curricolo come percorso, tende a farlo coincidere con la predefinizione di un programma di insegnamento. Eppure, da un punto di vista formale, nulla vieterebbe di concepirlo come un cammino «aperto», a «topologia variabile», che coerentemente a un quadro di principi teorici e metodologici e in maniera flessibile rispetto al contesto di applicazione, si costruisce per interpolazione di nodi ai quali si attribuisce la funzione di trasmissione, costruzione ed elaborazione culturale. Il tutto in stretta connessione con gli obiettivi generali e specifici attesi nei diversi ordini e gradi di scuola, con i metodi, gli strumenti e i materiali di insegnamento ritenuti più adeguati e secondo opportune modalità di interazione fra insegnante e allievi e allievi fra loro. La seconda, il curricolo come dispositivo per selezionare, trasporre e pianificare i contenuti di insegnamento, tende a farlo coincidere con la enucleazione di traguardi progressivi di apprendimento e a ritenere che le discipline siano padroneggiabili per somma di padronanze dei loro contenuti. Né vale includere, in questa prospettiva, il riferimento alle competenze la cui occorrenza, complice una diffusa impazienza valutativa, finisce per essere poco più che formale. Non senza conseguenze, ovviamente, sulla qualità formativa. Se la preoccupazione è sull’accertamento continuo e costante delle padronanze delle competenze, allora è poco probabile che le discipline a cui esse sono riferite riescano a svolgere il loro ruolo di arricchimento culturale e affinamento spirituale.

Uno degli atteggiamenti prevalenti contro tali riduzionismi (da parte di coloro che, evidentemente, non li avvertono come tali) è la celata riluttanza verso le discipline di insegnamento, che spesso si accompagna alla polemica contro il nozionismo, il verbalismo, il fiscalismo, la frammentarietà dei saperi disciplinari e la loro scarsa rilevanza rispetto a ciò che serve davvero, per il lavoro, o per la vita. Sappiamo bene (c’è bisogno di ribadirlo?) che le nozioni non bastano, che l’accanimento nelle procedure di valutazione intralcia la padronanza profonda delle discipline, che la frammentarietà delle conoscenze ostacola la costruzione di senso. E tuttavia, possiamo farne un’ideologia a scapito di ciò che conta? Tale riluttanza induce infatti a spostare l’attenzione altrove rispetto alle discipline: verso le pratiche didattiche in sé e verso ambiti educativi alternativi alle discipline tradizionali. Entrambi questi decentramenti, tuttavia, tradiscono una certa debolezza, sia epistemologica sia didattica.

 

Dai saperi alle pratiche

Il primo decentramento, dai saperi alle pratiche, palesa una debolezza epistemologica in quanto indica la separazione tra conoscere e fare o, se si vuole, tra sapere formale e sapere della pratica. Tale separazione è contraria a una concezione del sapere inteso come risultato socialmente e storicamente determinato di un’attività in un certo ambito culturale (Gardner, 1993; Bourdieu, 2003). In questa chiave, un sapere si dà, in ultima analisi, come campo di risoluzione di problemi, di attività e di esperienze che sono specifiche a un certo dominio culturale. Ciò significa caratterizzare un ambito di conoscenze non solo per ciò di cui tratta, ma anche per come funziona. In altri termini, ogni sapere disciplinare, in questa prospettiva, rinvia a un campo che ha una propria specificità epistemica, la quale non è solo specificità di contenuti ma anche di metodi, di linguaggi e di regole d’uso che vigono al suo interno e che assicurano la generazione di prodotti propri di quel dominio. Per ragioni che abbiamo chiarito altrove (Martini, 2017; 2018b) questo non è irrilevante sul piano didattico. Al contrario, l’incidenza formativa e performativa dei saperi che è legata alla loro specificità di dominio sostiene e promuove lo sviluppo di quelle abilità che sono più rappresentative del dominio, ossia quelle a cui può essere ricondotta la genesi intellettuale degli oggetti culturali afferenti ad esso. La legge generale in base alla quale ogni prodotto simbolico esercita, attraverso la sua stessa organizzazione epistemica e il suo stesso funzionamento (l’uso che se ne fa), un potenziale formativo che facilita l’acquisizione delle disposizioni necessarie alla sua comprensione, utilizzazione e produzione, costituisce il principio in base al quale assimilare, almeno da un punto di vista metodologico, la formazione ai saperi al costrutto di habitus. Nel senso che la capacità di fronteggiare situazioni o risolvere problemi che si danno in un certo dominio corrisponde all’insieme di «disposizioni interne durevoli e trasferibili» che orientano il soggetto, «e che funzionano come una matrice di percezioni, valutazioni e azioni» all’interno del dominio (Bourdieu, 2003, p. 211). In sintesi, nel concepire l’insegnamento disciplinare non si può prescindere dalla duplice natura di ogni disciplina, la quale è formale e pragmatica al tempo stesso, nel senso che la padronanza del sapere formale passa nelle pratiche sotto forma di un saper vedere, saper pensare e sapere agire. E ciò vale per l’esperto così come per l’allievo, sebbene secondo una differenza di grado che permette al primo di vedere, pensare, agire di più e meglio rispetto al secondo, in rapporto ai rispettivi livelli di padronanza del dominio.

La separazione tradisce anche una debolezza didattica. Come abbiamo approfondito altrove, la dialettica tra conoscere e fare può considerarsi costitutiva del discorso didattico, come testimonia la tradizione pedagogica dal Novecento fino ai nostri giorni (Martini, 2018b). In essa si sono susseguiti momenti nei quali si è assegnato il primato, grossomodo alternativamente, ora a una concezione di sapere formale dotato di organicità, attendibilità e rigore, ora a una concezione di sapere come un insieme di attività che fanno appello a pratiche più o meno codificate. Se guardiamo al problema dalla prospettiva dell’insegnante che insegna e dell’allievo che apprende, allora, ci si rende conto che sapere formale e sapere della pratica sono entrambi oggetto di decontestualizzazione e ricontestualizzazione sociale e individuale: essi vengono costruiti, o ricostruiti, all’incrocio tra la pratica, che procede in maniera induttiva e per tentativi, e un’immagine formale desunta dall’ambiente sociale e culturale nel quale insegnante e allievo sono immersi.

Un costrutto didattico che fa sintesi in maniera efficace di questi aspetti è quello di «pratiche sociali di riferimento», termine con il quale si designano le attività riconducibili a un determinato gruppo sociale e che possono servire, in termini di comparazione, per analizzare o proporre attività scolastiche (Martinand, 1981; 1986). Sebbene non vi sia identità tra pratiche sociali di riferimento e attività didattiche, tra le due sussiste una relazione comparativa che riguarda la ricostruzione del sapere in chiave didattica. Ciò implica che per ricostruire il sapere da insegnare occorre una modificazione epistemologica che include la messa in relazione delle pratiche didattiche con le pratiche sociali di riferimento di quel sapere.

La focalizzazione unilaterale sulle pratiche ha poi come ulteriore effetto quello di una proliferazione di queste ultime. Questo fenomeno, a differenza di ciò che si potrebbe un po’ ingenuamente pensare, non è esente da rischi. Il più rilevante è che queste pratiche non siano controllate da un punto di vista epistemologico in vista della ricostruzione del sapere, e che dunque vengano agite e percepite come un contenuto didattico da sovrapporre alle diverse discipline del curricolo. La scuola diventa così una scuola che intende andare oltre le discipline e lo fa sostituendo la riflessione profonda sulla loro trasposizione e ricostruzione con la continua creazione di pratiche e metodologie, ostentate a manifesto di una scuola innovativa. Beninteso, non si tratta di marginalizzare il ruolo delle metodologie didattiche, ma di ribadire la necessità di guardare ad esse in maniera non svincolata da quelle pratiques savants attraverso le quali i saperi sono storicamente e socialmente costruiti, e di declinarle sulle cifre epistemiche delle diverse discipline di insegnamento.

 

Dai saperi tradizionali di insegnamento alle Educazioni

Il secondo decentramento verso ambiti educativi alternativi ai saperi tradizionali palesa una debolezza epistemologica in quanto provoca la disciplinarizzazione di ambiti di riflessione non assimilabili a discipline. La nozione di «disciplina» rinvia, da una parte, al significato scientifico moderno dei saperi come insiemi di pratiche codificate e validate da una comunità che opera secondo modalità condivise ed entro confini definiti; dall’altra parte, al rapporto pedagogico con il discipulus (Martini, 2018a). Il primo aspetto evidenzia che non si può parlare di disciplina se non si verificano alcune condizioni che strutturano l’attività della comunità di ricerca secondo certi vincoli accademici e professionali (Hofstetter e Schneuwly, 2014, pp. 28-29); il secondo aspetto rivela che una delle condizioni del processo di disciplinamento è la socializzazione della conoscenza, ossia l’assunzione di un impegno formativo della comunità, assolto attraverso il legame tra insegnamento e ricerca e la determinazione dei criteri di legittimità della sua riproduzione.

Ora, la tendenza attuale verso la disciplinarizzazione tende a parcellizzare il curricolo attraverso la continua introduzione di ambiti educativi specifici (educazione civica o alla cittadinanza, educazione alla salute, alle emozioni, all’ambiente, alla sostenibilità, al pensiero computazionale e così via) e dunque a marginalizzare il ruolo della cultura di base nel curricolo. Sebbene si debba riconoscere a ciascuno di tali ambiti una rilevanza pedagogica e una valenza formativa specifica, occorre valutare le conseguenze del loro inserimento in rapporto alla coerenza e alla organicità del curricolo. Anziché fungere da contenitore di ogni genere di conoscenza connessa alle urgenze dell’ora, il curricolo deve garantire alle discipline e alle attività formative che vengono via via introdotte, una piena integrazione sia strutturale sia contenutistica, pena la loro subalternità rispetto agli assi culturali tradizionali e la vanificazione del significato innovativo del loro inserimento. Ciò è accaduto più volte. E accade ancora oggi. È accaduto, per esempio, nel 1963, dopo l’istituzione della Scuola media unificata, con l’introduzione delle Applicazioni tecniche, eredità della precedente Scuola di avviamento professionale.[4] Accade, ancora oggi, con la (re)introduzione dell’Educazione civica nel primo e nel secondo ciclo di istruzione, per un monte ore annuale di 33 ore.[5] In questione, vale la pena insistere, non è la rilevanza di questi ambiti di sapere nel contribuire al processo di piena crescita umana dell’allievo. La questione è se ciò debba essere fatto necessariamente istituendone l’insegnamento. Le Applicazioni tecniche del passato o l’attuale Educazione civica (ma lo stesso può dirsi per l’Educazione alle emozioni, all’ambiente, al pensiero computazionale, ecc.) individuano, più che un corpus disciplinato di conoscenze, temi e problemi che hanno una natura trasversale e che interessano (devono interessare) in prospettiva inter- o trans-disciplinare le discipline di insegnamento tradizionali. Inoltre, la disciplinarizzazione scolastica di un ambito di temi e problemi porta con sé, oltre che l’individuazione di contenuti specifici, anche la dichiarazione delle competenze attese, le quali, con maggiore probabilità di quanto non avvenga per le discipline, tendono ad assumere formulazioni vaghe e astratte e dunque poco efficaci a orientare il lavoro degli insegnanti. Di più. La moltiplicazione dei repertori di competenze tende a connotare il curricolo come un curricolo centrato su queste ultime, dunque come curricolo che anche se sa affrancarsi dalla mera trasmissione delle conoscenze disciplinari, dal nozionismo e dal verbalismo, non è scontato che sappia affrancarsi dalla deriva produttivistica legata all’idea di competenza come performance (Baldacci, 2010a; 2019).

Si giunge così al paradosso della scolarizzazione. La riluttanza verso i saperi disciplinari ha come effetto la disciplinarizzazione di saperi ad essi alternativi, per acquisire i quali si incorre in quel rischio di nozionismo, di verbalismo e di fiscalismo del quale ci si voleva liberare. Il problema, in realtà, non è quanti e quali saperi inseriamo nel curricolo, ma come li concepiamo e come li trasponiamo in chiave didattica, affinché possano agire come mezzi e contesti per la crescita umana dell’allievo. Occorre, dal nostro punto di vista, collocarsi in una prospettiva più ampia e complessa, scevra da riduzionismi, ricalibrando, in forma aggiornata, la concezione di curricolo come dispositivo per affrontare le questioni cruciali dell’istruzione e dell’educazione. La nostra ipotesi di lavoro è di orientarci verso un’idea di Curricolo Integrato, a dominanza epistemica, ma in grado, allo stesso tempo, di rispondere alle istanze del presente.

 

Ipotesi di un modello di Curricolo Integrato

Discuteremo la nostra ipotesi di Curricolo Integrato in tre passi. Dapprima chiariremo brevemente il significato del termine «integrato»; successivamente presenteremo la concezione dei saperi su cui incardinare l’idea di curricolo; infine, presenteremo un modello rappresentazionale di Curricolo Integrato, coerente con l’opzione epistemologica da noi compiuta.

L’idea di Curricolo Integrato non è nuova. Il carattere integrato del curricolo viene definito nel corso del tempo, dal movimento di educazione progressiva in avanti, in relazione alla tendenza a sovvertire la rigida organizzazione in discipline e quindi a ridurre il grado di separazione disciplinare che caratterizza i tradizionali programmi di studio (Vars, 1987; 1991). In questa prospettiva, il livello di integrazione del curricolo dipende dal livello di integrazione delle discipline che lo compongono. Da un esame della letteratura (Drake e Burns, 2004; Fogarty, 1991; Jacobs, 1989) emerge che le idee fondamentali sulle quali si incardina l’integrazione del curricolo sono due: quella di connessione (fra discipline, fra conoscenze e vita reale, fra competenze) e quella di accesso indiretto alle conoscenze, attraverso il ricorso a progetti, piani di lavoro, temi e problemi di natura interdisciplinare.

Queste idee, sebbene senza una organicità pari a quella di taluni modelli del passato (si pensi agli home-projects di Kilpatrick) sono state implementate nel repertorio delle prassi di progettazione curricolare adottato nelle nostre scuole senza riuscire, per lo più, a incidere in maniera strutturale su di essa. Le attività didattiche realizzate intorno a progetti rischiano spesso di vedersi assegnare un ruolo subordinato o comunque secondario rispetto alle attività curricolari tradizionali (l’insegnamento diretto delle discipline). Le cause possono risiedere nella difficoltà di implementare percorsi non lineari, certamente più difficili da progettare e da controllare da parte degli insegnanti, rispetto a percorsi lineari, ma anche nella percezione di incertezza su ciò che accadrà in aula e sugli esiti di apprendimento degli studenti esposti a questo tipo di lavoro (Drake e Burns, 2004, p. 24). Ciò si riflette, evidentemente, sulla reale qualità dell’integrazione del curricolo.

Per mitigare queste difficoltà, unicamente in riferimento all’integrazione tra discipline, può essere utile assumere una concezione dei saperi come sistemi di conoscenze dinamici e interconessi. Una tale concezione ci sembra infatti maggiormente conforme all’idea di Curricolo Integrato. Per una descrizione approfondita di questa concezione rinviamo a un altro nostro lavoro (Martini, 2011), limitandoci qui a evidenziare due aspetti che riteniamo utili a delineare la nostra ipotesi: la natura sistemica dei saperi e la possibilità di rappresentarli attraverso le reti.

Concepire i saperi come sistemi significa pensarli come aggregati di elementi in relazione dinamica tra loro, strutturati al loro interno secondo diversi livelli di organizzazione, in modo tale che ciascuno di questi livelli corrisponda a un sovra- o a un sotto-sistema organizzato allo stesso modo. Assumiamo inoltre che essi siano concepiti come sistemi aperti (in grado di scambiare informazioni con l’esterno e dunque di trasformarsi), ma chiusi da un punto di vista organizzazionale (in grado di riprodurre la propria organizzazione e dunque di conservarsi) (Martini, 2011).

Questo aspetto ci permette di interpretare la disciplinarità e l’interdisciplinarità come caratteristiche costitutive dei processi di costruzione della conoscenza prima che come qualità del curricolo. Nell’ambito di una visione sistemica, infatti, la disciplinarità rappresenta l’esito di un processo di negoziazione e ri-negoziazione delle conoscenze (ossia di scambio che avviene a un certo livello del sistema) secondo forme omogenee, le discipline, che si costruiscono come aree di confluenza di contenuti, di apparati concettuali e di metodologie. L’interdisciplinarità corrisponde invece al movimento contrario (ossia di scambio diretto verso l’esterno del sistema), di apertura verso problemi del mondo esterno, nuovi oggetti, nuove metodologie di indagine e provocato dall’insufficienza di ciascuna disciplina a essere fondante rispetto a settori ampi della realtà. Dunque, se da una parte assistiamo a una parcellizzazione e a una frammentazione delle conoscenze in ambiti sempre più specifici e circoscritti, dall’altra tali conoscenze travalicano i confini dei loro campi originali di afferenza, mettendoli in comunicazione con altri e integrandoli contribuendo a un loro sempre maggiore sviluppo in senso interdisciplinare. Dunque, ogni disciplina, intesa come sistema, si modifica e si ristruttura in conseguenza sia dei movimenti di specializzazione interna a un certo livello della sua organizzazione, sia dei movimenti di contaminazione e relazione tra gli elementi del sistema e quelli del suo sovra-sistema. Osserviamo anche che il concetto di sistema è indicato da Morin (2014) come il primo dei quattro operatori di «relianza», neologismo dell’autore derivato da relier (collegare) e alliance (alleanza), che supportano la conoscenza della conoscenza, e quindi la comprensione della complessità del reale, in quanto servono a collegare le conoscenze tra loro: «Si può dire che la nozione di sistema, o anche quella di organizzazione […] permette di connettere e collegare le parti a un tutto e di liberarci dalla prigione di conoscenze frammentarie» (Morin, 2014, p. 74).

Il secondo aspetto ci fornisce un modello rappresentazionale che può svolgere una funzione euristica nella costruzione del curricolo. Se i saperi sono concepiti come sistemi complessi e se sistemi complessi possono essere rappresentati attraverso le reti (Bertalanffy, 2004; Capra, 2008; Luhmann e De Giorgi, 2007), allora assumere la rete come modello rappresentazionale ci permette di poter descrivere il funzionamento dei saperi in base al funzionamento delle reti.

Com’è noto, dal punto di vista matematico una rete è un grafo, ossia una struttura topologica astratta costituita da un insieme di vertici (o nodi) connessi tra loro da spigoli (o link). Gli alberi e le reti sono particolari tipi di grafo. Gli alberi sono grafi orientati, le reti sono invece grafi non orientati. All’interno di una rete non si distinguono nodo di partenza e nodo di arrivo, ma essa può contenere dei circuiti, ossia dei cammini interni in cui nodo di partenza e nodo di arrivo coincidono. Per la rete, così come per i grafi in generale, il grado locale (o ordine) di un nodo esprime il numero di spigoli che convergono in esso, ossia il numero di connessioni di quell’elemento con gli altri elementi del sistema (Ore, 1965).

In quanto struttura astratta e topologica, il grafo si presta ad essere utilizzato per la rappresentazione di un qualunque insieme di cui ci interessa visualizzare le relazioni tra gli elementi e i rapporti quantitativi che li legano. Per questo motivo, i grafi (alberi o reti) sono stati utilizzati sovente per la rappresentazione dei sistemi di conoscenze (Lima, 2011; 2014). In generale, alberi e reti rispondono a una diversa logica: rispettivamente, quella di un sapere pensato come costituito da «mattoni elementari», appoggiato su solide fondamenta e organizzato gerarchicamente secondo un ordine che va dal semplice al complesso o dal generale al particolare, e quella di un sapere pensato come costituito da elementi interconnessi in cui non esistono gerarchie ma relazioni di diverso ordine.

In questa prospettiva, il sistema delle conoscenze è rappresentabile attraverso una rete costituita da nodi che indicano ciascuno una disciplina. Quest’ultima, a sua volta, può essere pensata come una rete fatta di nodi corrispondenti ai suoi oggetti, ciascuno dei quali può essere pensato come una rete di concetti, e così via. A ogni livello di questa organizzazione emergono proprietà proprie di quel livello (dette «proprietà emergenti»): per esempio, la caratteristica di interdisciplinarità è riferibile, in particolare, al livello macroscopico della rete, ossia del sistema che ha per nodi le diverse discipline, mentre la specializzazione di un certo oggetto interesserà un livello più microscopico, corrispondente al sotto-sistema che identifica la specifica disciplina che ha tra i propri nodi quell’oggetto.

Per descrivere le dinamiche dei saperi secondo il modello della rete ci avvaliamo delle acquisizioni della scienza delle reti (Buchanan, 2003; Barabási, 2004), che a partire dallo studio di reti reali — per esempio le reti sociali, la rete delle collaborazioni scientifiche, il World Wide Web, ecc. — cerca di comprenderne la struttura e i principi generali di funzionamento. Tali principi possono essere espressi sinteticamente nel modo seguente:

  1. le reti reali crescono: sono cioè caratterizzate dall’aggiunta, in un certo intervallo di tempo, di nuovi nodi e nuovi link. Se il numero di nodi e link è abbastanza grande allora esse funzionano come piccoli mondi, ossia ogni nodo può essere raggiunto da qualsiasi altro con pochi link (basso grado di separazione tra nodi);
  2. la distribuzione dei link, non è casuale, ma tende a seguire una certa legge (detta «Legge di potenza»). Essa determina, istante per istante, la topologia della rete. Inoltre, i nodi non sono tutti uguali;
  3. alcuni nodi (detti «hub») hanno una maggiore capacità (detta «fitness») di guadagnare link. Sono perciò altamente connessi rispetto alla maggioranza degli altri nodi e assicurano la connettività all’intera rete;
  4. la rete presenta dei Cluster, cioè gruppi di nodi molto connessi tra loro; i legami tra singoli nodi di Cluster sconnessi tra loro (i cosiddetti «legami deboli») assicurano un’elevata connettività della rete (l’essere un piccolo mondo).

 

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Fig. 1 In una rete si distinguono nodi, link, alberi gerarchici, hub e cluster.[1]

[1] Immagine non soggetta a copyright tratta da http://www.umbertosantucci.it/atlante/rete/#wsqeY8LxKvgG3F6A.99

 

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Fig. 2 In una rete il percorso small world permette al nodo A di raggiungere il nodo B con 4 passaggi, grazie a 3 hub.[1]

[1] Immagine non soggetta a copyright tratta da http://www.umbertosantucci.it/atlante/teoria-dei-piccoli-mondi/#aflWMSe5y3X0BWOP.99

 

Ora che disponiamo di un modello di rappresentazione della conoscenza, possiamo, per analogia, applicarlo al curricolo come sistema organizzato di saperi da insegnare.

Sulla base di questa analogia, nodi e aggregati di nodi individuano le conoscenze curricolari trasposte in chiave didattica. Tali conoscenze sono legate tra loro da relazioni gerarchiche, ove si ravvisino relazioni di propedeuticità o di inclusione logica, o relazioni non lineari, tra branche di conoscenze disciplinari o, scalando il sistema, tra discipline diverse tra loro, ma collegabili a partire dalla costruzione di legami deboli che collegano aggregati di conoscenze collocate a diversi livelli del sistema.

Questa analogia ci consente di fare alcune considerazioni importanti sul piano della modellizzazione del curricolo. La prima consiste nel considerare i percorsi formativi come cammini non lineari, che vanno a interpolare nodi e aggregati di nodi della rete del curricolo. La seconda consiste nella possibilità di costruire un curricolo a «topologia variabile»: al variare della rete (si possono infatti aggiungere o togliere elementi) e al variare dei cammini interni ad essa (sono infatti infinite le combinazioni di nodi che possono essere interpolati), varia la topologia del curricolo come percorso formativo effettivamente svolto. La terza consiste nella possibilità progettuale e programmatoria di governare il grado di integrazione del curricolo. Ovverosia disciplinarità e interdisciplinarità ancora nei termini delle relazioni tra nodi e aggregati di nodi, già esistenti o possibili, nei diversi livelli di organizzazione del sistema, attraverso legami deboli tra nodi o tra cluster disciplinari diversi. Per esempio, un problema disciplinare potrà essere associato a un cammino che va a interpolare nodi e alberi gerarchici di nodi appartenenti a un cluster disciplinare; analogamente, un problema di natura interdisciplinare potrà essere associato a un cammino che va a interpolare nodi appartenenti a cluster disciplinari differenti. Ciò permette anche di incorporare nella combinatoria dei cammini che costituiscono il curricolo, anche quei progetti che fanno parte del Piano dell’Offerta formativa e che altrimenti rischiano una funzione curricolare accessoria. Beninteso, il modello si dà essenzialmente come modello rappresentazionale utile a supportare la progettazione di un Curricolo Integrato e non fornisce un modello di progettazione tout court. Molti aspetti, che pure fanno parte della progettazione curricolare e che coincidono con i problemi generali dell’istruzione (l’individuazione degli obiettivi, l’organizzazione dei tempi e degli spazi, l’adozione di metodologie di insegnamento, le pratiche valutative, il legame scuola-territorio e altro ancora), non trovano occorrenza specifica nel modello. Ciò nondimeno, esso può orientare in uno dei suoi aspetti cruciali: l’individuazione e l’organizzazione dei contenuti di insegnamento, in chiave disciplinare e interdisciplinare, attraverso una progettazione aperta e controllabile in qualità e completezza. Può inoltre favorire presso l’allievo una concezione più adeguata di conoscenza e dunque incoraggiarlo a conoscere la conoscenza, fatto questo non trascurabile per riconoscere a quest’ultima la possibilità di sostenere la sua crescita, di allievo e di uomo.

 

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[1] Tra i lavori degli anni Duemila si segnalano A.M. Ajello e C. Pontecorvo, Il curricolo. Teoria e pratica dell’innovazione, La Nuova Italia, 2001; e di M. Baldacci: Ripensare il curricolo, Roma, Carocci, 2006; La dimensione emozionale del curricolo, FrancoAngeli, 2008; La dimensione metodologica del curricolo, FrancoAngeli, 2010.

[2] Si pensi ai decreti delegati emessi sulla base della Legge Delega del 1974, alla elaborazione dei Programmi per la scuola media (1979), dei Nuovi programmi della scuola elementare (1985) e, successivamente, dei Programmi Brocca per il Biennio della scuola superiore (1988, anno di istituzione della Commissione Brocca – 1992, anno di conclusione dei lavori).

[3] Bruner, in qualità di direttore della Conferenza, precisa che: «l’incontro era stato suggerito proprio dalla constatazione del fatto che stava per cominciare un periodo di nuovi progressi e interessi nella creazione di programmi e metodi di insegnamento delle scienze, e dalla constatazione della esigenza di una valutazione generale di quanto era già stato attuato e di quali dovessero essere i migliori orientamenti per i futuri sviluppi». Dalla prefazione all’edizione del 1960, Il processo educativo dopo Dewey, Roma, Armando, 2000, p. 19.

[4] Il Decreto Ministeriale del 24 aprile 1963, «Orari e programmi di insegnamento della scuola media statale», prevedeva l’insegnamento di Applicazioni tecniche obbligatorio al primo anno e facoltativo al secondo e al terzo anno.

[5] Legge 20 agosto 2019, n. 92. L’insegnamento di Educazione civica era scomparso dalla scuola media nel 2003 con la Riforma Moratti, sostituito da indicazioni programmatiche sull’Educazione alla cittadinanza concepita come percorso trasversale senza valutazione specifica.

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