Test Book

Teorie pedagogiche / Educational Theories

Dina Bertoni Jovine interprete di Gramsci
Dina Bertovi Jovine as Gramsci’s exegete

Edoardo Puglielli

Assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi Roma Tre



Sommario

Dopo la seconda guerra mondiale e la fine del regime fascista, Dina Bertoni Jovine ha fatto parte di quella generazione di intellettuali che lavorò nel Partito Comunista Italiano. Il successo principale della politica di Palmiro Togliatti fu la costruzione di un partito di massa con una buona rappresentanza in parlamento, con un forte seguito presso la classe operaia e i ceti popolari, e con la capacità di realizzare un ampio fronte culturale in grado di generare consenso sulla politica democratica e sulla proposta della via italiana al socialismo. Dina Bertoni Jovine collaborò con le organizzazioni culturali e con gli organi di stampa legati al PCI. Si impegnò principalmente nell’ambito degli studi storici e pedagogici. Contribuì al recupero di una lettura pedagogica delle opere di Karl Marx e allo studio del pensiero pedagogico elaborato dai marxisti italiani, soprattutto da Antonio Labriola e Antonio Gramsci. In questo articolo vengono evidenziati gli aspetti principali che ricollegano la pedagogia di Dina Bertoni Jovine a quella di Antonio Gramsci.

Parole chiave

Dina Bertoni Jovine, Antonio Gramsci, Pedagogia democratica.


Abstract

After the Second World War and the end of the fascist regime, Dina Bertoni Jovine was one of the intellectuals who worked in the Italian Communist Party. The main success of Togliatti’s policy was the construction of a mass party with large representation in parliament and a strong following among the working class people. This policy created the basis of a cultural change, able to develop democratic politics by proposing a new Italian way to socialism. Dina Bertoni Jovine collaborated with the cultural organizations and with the official press bodies of the PCI. She mainly engaged in historical and pedagogical studies. She contributed to the recovery of a pedagogical interpretation of the Karl Marx’s works and to the study of pedagogical thought fostered by the Italian Marxists, Antonio Labriola and Antonio Gramsci. This article highlights the main aspects which link the Dina Bertoni Jovine’s and Antonio Gramsci’s pedagogy.

Keywords

Dina Bertoni Jovine, Antonio Gramsci, Democratic pedagogy.


Introduzione

Dina Bertoni Jovine (1898-1970) affronta i problemi dell’educazione e dell’istruzione in connessione con il più ampio problema del riscatto dei subalterni dall’egemonia culturale della classe dominante e dirigente (Bertoni Jovine, 2019; Puglielli, 2018; Semeraro, 1976; Semeraro, 1977). Tutta la sua ricerca, è stato ricordato, è motivata da «un’attenzione preminente ai problemi delle “egemonie”» (Semeraro, 1975, p. 28), ovvero alla capacità della classe al potere di produrre concezioni del mondo, sistemi di valori, orientamenti ideologici e criteri di giudizio tali da tutelare i rapporti capitalistici di produzione e dunque il suo dominio sull’intera società. I meccanismi della riproduzione capitalistica, infatti, implicano violenza e un’ineguale distribuzione di costi e benefici che ne mettono costantemente a repentaglio la funzionalità; la capacità di generare consenso e di radicare nelle masse subalterne codici culturali e morali funzionali ai propri interessi fondamentali è quindi di vitale importanza per la classe al potere. È questa capacità egemonica che garantisce la conservazione degli equilibri esistenti, che permette alla classe dirigente di governare le contraddizioni sociali e la dinamica storica a suo vantaggio. Per conseguenza, per poter edificare una società sottratta alla violenza, al dominio e allo sfruttamento di classe, occorre costruire preventivamente una controegemonia. Con le parole di Nicola Badaloni e Dina Bertoni Jovine:

Nella grande contesa tra cultura borghese e cultura proletaria Gramsci stabilisce come metro di misura la superiorità intellettuale dell’una o dell’altra classe, e fa dipendere quest’ultima dalla capacità di presentare un maggior numero di possibilità e quindi di libertà e di scelte rispetto alle determinazioni ambientali. Ciò che Marx indicava come la contraddizione tra forze produttive e rapporti sociali di produzione, non è solo una contraddizione imposta dalle cose, ma anche il maturarsi di una superiorità intellettuale e morale della forza produttiva fondamentale della società contemporanea cioè della classe operaia. Nella lotta di classe essa riuscirà vincitrice al momento in cui prospetterà per sé e per gli altri ceti sfruttati un seguito di volontà (cioè di aspirazioni storicamente fondate) non soddisfacibili nel quadro della vecchia società. «Cultura» significa perciò essenzialmente individuazione delle possibilità, «educazione» la loro concreta maturazione come fatto collettivo e di massa. (Badaloni e Bertoni Jovine, 1966, pp. 372-373)

Dunque, nella modernità, ovvero nell’epoca storica in cui si è passati dalla «guerra di movimento» alla «guerra di posizione», o, che è lo stesso, nella fase in cui si è schiusa la «crisi organica», sistemica e continua dell’ordine capitalistico-borghese (Burgio, 2003, pp. 133-167), il conflitto tra le classi implica anche una lotta tra egemonie; in questo conflitto giocano pertanto un ruolo determinante la cultura (ovvero, per la classe che lotta per fuoriuscire dalla condizione di subalternità, la capacità di individuare «un maggior numero di possibilità e quindi di libertà e di scelte rispetto alle determinazioni ambientali», la «superiorità intellettuale e morale» intesa come capacità di indicare possibilità emancipative universali «storicamente fondate» e «non soddisfacibili nella vecchia società») e l’educazione (la «maturazione» di tali possibilità «come fatto collettivo e di massa»).

Alla luce di tale dinamica, Dina Bertoni Jovine formula in questi termini il rapporto tra civiltà, cultura ed educazione: se «civiltà» è «la situazione storica» che l’individuo assimila, e «cultura» è «l’atteggiamento critico-creativo che modifica e crea la stessa civiltà», allora l’educazione deve tener conto sia «del carattere, del livello, della realtà concreta» della civiltà in cui l’individuo si trova a vivere (ovvero della conoscenza della realtà storica presente), sia dell’apporto personale al suo rinnovamento che l’individuo può dare «quando sia indirizzato a cogliere i fermenti di progresso e di sviluppo e a sceverarli dalle forme vuote che permangono come scorie del passato» (Bertoni Jovine, 1977c, p. 237). L’individuo, in altre parole, tramite l’educazione deve conquistare gli strumenti necessari per passare dalla comprensione della situazione storica presente (civiltà) all’atteggiamento critico necessario per trasformarla (cultura).

Da questa prospettiva anche l’educazione viene a configurarsi come una lotta. L’individuo, infatti, «nasce in una società determinata» e, grazie alla capacità egemonica di direzione morale e intellettuale della classe al potere, «assorbe consuetudini, tradizioni, miti e pregiudizi» (Bertoni Jovine, 1977e, p. 417) funzionali alla riproduzione di quella determinata società. E a differenza di tutte la altre filosofie, «la filosofia della praxis non tende a mantenere i “semplici” nella loro filosofia primitiva del senso comune, ma invece a condurli a una concezione superiore della vita» (Gramsci, 1975, Q. 11, p. 1384). Compito della filosofia della praxis è allora quello di realizzare attraverso l’azione educativa una «lotta contro il senso comune per trasformare la “mentalità” popolare» (Gramsci, 1975, Q. 10, p. 1330) e diffondere la nuova concezione culturale emancipativa. L’educazione viene così a configurarsi come una «lotta contro» e una «lotta per»:

  • è una «lotta contro il senso comune», una «lotta contro le concezioni date dai diversi ambienti sociali tradizionali» (Gramsci, 1975, Q. 12, p. 1535), una lotta contro «la concezione “magica” del mondo e della natura che il bambino assorbe dall’ambiente “impregnato” dal folklore» (Gramsci, 1975, Q. 4, p. 498);
  • è una lotta per trasformare la mentalità popolare secondo una nuova concezione del mondo, una lotta per diffondere tra le masse una «concezione superiore della vita».

In estrema sintesi, nell’ambito del conflitto tra classi sociali tipicamente moderno l’educazione viene a definirsi come una lotta tra due concezioni del mondo: «la concezione del mondo data dall’ambiente tradizionale» (Gramsci, 1975, Q. 4, p. 485), conformista, ideologica e adattiva, e la concezione culturale impartita alla luce della filosofia della praxis (trasformativa, autonoma ed emancipativa poiché capace di individuare «un maggior numero di possibilità e quindi di libertà e di scelte rispetto alle determinazioni ambientali»).

La filosofia della praxis, spiega Massimo Baldacci, vede il rapporto uomo-ambiente in termini dialettici: «è l’uomo che modificando l’ambiente determina le circostanze che a loro vola lo influenzano, quindi in ultima analisi è l’uomo che trasforma se stesso mediante la modificazione della realtà, ossia attraverso la “prassi rivoluzionaria”» (Baldacci, 2017, pp. 179-180). L’educazione, pertanto, non deve essere una resa all’ambiente. Suo compito «non è quello di porsi in continuità con il contesto sociale, riproducendo il senso comune che lo pervade, bensì quello di assumere un atteggiamento dialettico rispetto ad esso, guidando i discenti verso una cultura superiore» (Baldacci, 2017, p. 180). L’educazione, «in quanto lotta contro il senso comune, rappresenta un processo dialettico in grado di rivoluzionare la mente. Ossia, in Gramsci, “l’educazione deve farsi dialettica rivoluzionaria della mente”: essa lotta contro lo “status quo” (il folklore e/o il senso comune assimilato acriticamente dall’ambiente) per creare un “nuovo ordine mentale” (un pensiero di tipo superiore). Detto diversamente, si tratta di realizzare una “riforma intelletuale e morale”» (Baldacci, 2017, p. 180). Ogni trasformazione della realtà, del resto, non può che essere preceduta e preparata da un cambiamento della cultura e della mentalità.

Anche a giudizio di Dina Bertoni Jovine, «quanto c’è ancora di magico, di superstizioso, di arretrato e irrazionale nella concezione del mondo» che «il fanciullo può assorbire dall’ambiente» in cui vive «deve essere corretto dalla scuola per mezzo di una più moderna cultura scientifica e storica» (Bertoni Jovine, 1977d, p. 410). La scuola, in altre parole, ha il compito di correggere quanto di irrazionale vi è in una «concezione del mondo “imposta” meccanicamente [ai subalterni] dall’ambiente esterno» e a cui essi partecipano «senza averne consapevolezza critica» (Gramsci, 1975, Q. 11, p. 1375). Si tratta di correggere un vero e proprio «squilibrio che si crea a danno della razionalità» causato da un’«educazione abbandonata all’immediatezza» (Bertoni Jovine, 1977d, p. 411) e alla spontanietà:

La scuola di Gramsci mira dunque a dare al ragazzo gli strumenti culturali con cui egli possa condurre il suo giudizio e la sua critica e orientare la sua azione consapevolmente: la scienza prima di tutto, che è accertamento del vero, trasformazione cioè di un vero accettato passivamente, in un certo documentato, sperimentato e trasferibile nella concretezza della attività umana; e la storia considerata come progressiva trasformazione della condizione umana in cui il fanciullo dovrà inserire la sua azione personale. (Bertoni Jovine, 1977d, p. 410)

Non si tratta, come sostiene certo attivismo pedagogico, di riportare il centro della vita scolastica dall’alunno all’educatore, ma di essere consapevoli del fatto che l’atto educativo non si riduce al solo rapporto docente/discente. «Quando la pedagogia dell’attivismo parla di rivoluzione copernicana», spiega Dina Bertoni Jovine, «non tiene conto di tutti gli aspetti dell’atto educativo e, con una astrazione arbitraria, lo riduce al rapporto maestro-scolaro» dimenticando che «i termini essenziali dell’educazione sono almeno tre e non due: alunno, maestro, ambiente» (Bertoni Jovine, 1977d, pp. 411-412). L’alunno, infatti, è sempre al centro dell’influenza convergente del maestro e dell’ambiente: sottratto alla guida del maestro sarebbe di fatto riconsegnato alle suggestioni dell’ambiente e all’immediatezza della spontaneità, fattori «assolutamente insufficienti alla formazione delle nuove generazioni» (Bertoni Jovine, 1977d, p. 413). Anche da qui scaturisce la critica marxista dell’attivismo pedagogico, che pone l’interesse spontaneo a fondamento e matrice del processo conoscitivo:

L’attivismo, nelle sue forme oggi prevalenti, tende a mettere l’accento sull’influenza dell’ambiente nella formazione del fanciullo o per lo meno nella nascita spontanea dei suoi interessi. Nel pensiero gramsciano l’accento è posto invece sull’influenza dell’attività umana e della cultura sull’ambiente naturale e sociale. La cultura deve essere prima di tutto una attività liberatrice; liberatrice da tutte le forme arretrate con cui si presenta l’ambiente intorno al fanciullo. (Bertoni Jovine, 1977d, p. 409)

La «deviazione» dell’attivismo comincia proprio quando sostiene che «tutto il processo conoscitivo deve aver origine da un interesse spontaneo e svolgersi secondo fasi stabilite da leggi psicologiche». Per gli attivisti, continua Dina Bertoni Jovine, vale a riguardo l’ottimismo rousseauiano: «lasciando fare al ragazzo, mettendolo in ambiente adatto, gli interessi spontanei sorgeranno non solo numerosi e vivaci ma condurranno senza ostacolo alle più difficili conquiste. L’ostacolo può essere rappresentato solo dall’azione programmatica del maestro che inserisce nel normale sviluppo del fanciullo elementi estranei». Per conseguenza, le scuole «della spontaneità o attive bandiscono ogni comunicazione di nozioni, definiscono come dogmatico ogni insegnamento che si risolva appunto in comunicazione e spiegazione di nozioni» (Bertoni Jovine, 1977a, pp. 70-71).[1] In tal modo, però, non si aiuta affatto la giovane generazione a «realizzare lo sviluppo di una nuova mentalità con prospettive diverse da quelle che ha assimilato»; non si aiuta cioè la giovane generazione ad arrivare «ad una vera autonomia, che è una conquista molto diversa e molto più importante della libertà naturalisticamente intesa» (Bertoni Jovine, 1977d, p. 414). Quest’ultima, infatti, si manifesta con interessi frammentari e disorganici; l’autonomia, invece, è «espressione di attività convergenti verso un piano organico, con prospettive che allargano il mondo morale e che esigono spesso sforzo e sacrificio» (Bertoni Jovine, 1977d, p. 414). La questione della spontaneità, inoltre, deve essere storicizzata e meglio analizzata:

La spontaneità di un fanciullo contadino è diversa dalla spontaneità del fanciullo cittadino: e il comportamento «spontaneo» nell’uno e nell’altro sono il risultato di condizioni ambientali diverse. Vi è dunque una base storica negli interessi che riteniamo spontanei, dovuta alle abitudini, alla imitazione, all’assorbimento di consuetudini, di abiti mentali. (Bertoni Jovine, 1977d, pp. 414-415)

Anche la spontaneità, dunque, è condizionata dai contesti sociali e di vita degli individui. L’autonomia, pertanto, non può scaturire dalla spontaneità, ma è il risultato di un lungo processo, è una graduale conquista che si realizza attraverso l’impegno e la disciplina. Occorre perciò, nell’istruzione scolastica, vincere la resistenza allo sforzo, non eliminare lo sforzo. Una scuola «in cui si abituino i fanciulli alla faciloneria, all’approssimazione, con l’esclusione dal loro lavoro di ogni esigenza di sistemazione organica e quindi di ogni disciplina mentale, non può costituire la base» di una scuola «formatrice di cultura valida» (Bertoni Jovine, 1976a, pp. 379-380). Eliminare lo sforzo dalla vita educativa significherebbe mortificare proprio le «attività umane più vere», significherebbe porre «il fanciullo in balia di interessi e di suggestioni occasionali, effimeri, superficiali», ritardando in lui la «capacità di partecipare alla lotta umana più significativa e di affermarsi nel superamento di sé. Gramsci considera lo sforzo come necessario in ogni opera educativa valida» (Bertoni Jovine, 1977d, p. 415).

Ad esempio:

Se nella società si perpetuano forme sorpassate di vita, strutture che non corrispondono più allo svolgimento della storia; se essa è ingiusta e corrotta e non si tratta di adeguarsi ad essa ma di mettersi contro quanto di guasto è in essa, l’educazione deve suscitare nel fanciullo non solo il senso critico ma anche la capacità dello sforzo e del sacrificio. La disciplina è necessaria per acquistare certe abitudini di diligenza, di esattezza, di concentrazione, senza le quali lo sforzo di agire diventa impossibile. Nessun pedagogista può affermare che in questo sforzo, che costa anche dolore, inizialmente il fanciullo possa fare a meno dell’intervento dell’adulto; esso gli è necessario almeno fino a che raggiunta una certa esperienza non sia capace di apprezzare il valore e il significato della lotta che compie e affrontarla autonomamente. (Bertoni Jovine, 1977e, pp. 418-419)

Si sta parlando, a guardar bene, del concetto di «conformismo dinamico» (Gramsci, 1975, Q. 12, p. 1537), presupposto necessario per la successiva scuola creativa (la fase creativa, per Gramsci, non è all’inizio del processo educativo ma al termine) e per la graduale conquista dell’autonomia:

Occorre che il momento dell’eteronomia vada scomparendo via via che il fanciullo si sviluppa in intelligenza e volontà acquistando cognizioni e facendo esperienze di vita; occorre che l’autorità sia esercitata in modo da favorire il formarsi dell’autonomia e del potere dell’autodeterminazione; occorre che la coercizione esercitata sul fanciullo sia fatta in nome di ideali accettati anche dagli educatori come finalità da raggiungere per il miglioramento della vita sociale. (Bertoni Jovine, 1977e, p. 420)

Non molto diversamente, scrive Dina Bertoni Jovine, anche Makarenko ritiene che un’educazione fondata sull’interesse spontaneo sia debole, individualistica e dispersiva, «una base quindi incerta, instabile per costruire forti personalità, capaci di contribuire alla creazione di un mondo migliore» (Bertoni Jovine, 1977b, p. 202). Il pedagogista sovietico, spiega Dina Bertoni Jovine:

Non dimostra mai di aver messo in dubbio la necessità di considerate la scienza come un aiuto da dover offrire ai ragazzi con tutti i caratteri di un patrimonio che le generazioni hanno accumulato in secoli di fatica per la ricchezza di tutti. Egli non pensa neppure che il ragazzo debba arrabattarsi a mettere insieme con la sua povera fatica brandelli di piccole scoperte disorganiche tratte dalla sua per­sonale esperienza. L’esperienza gli deve servire sì a perfezionare la sua tecnica, a trovare il rapporto tra scienza e lavoro, a proiettare nel campo scientifico i problemi stessi del lavoro e vedere quindi, con chiarezza, la necessità di risalire alle leggi, ma non a rifare, individualmente, tutto il cammino della scien­za o a stabilire legami artificiosi fra occupazioni pratiche e materie di studio. Le scienze coi loro particolari metodi ritrovati con l’apporto di centinaia di uomini, devono costituire una acquisizione liberata sì di tutto quello che di meccanico l’appesantiva nella scuola vecchia, ma organica e veramente viva e veramente vivificatrice dell’esistenza. Se l’attività personale dello scolaro deve trovare uno sbocco è giusto che essa si eserciti verso nuove conquiste e non nel riconquistare ciò che è già patrimo­nio umano ben consolidato. (Bertoni Jovine, 1977b, p. 215)

Per questa ragione, Makarenko da un lato difende per i lavoratori una preparazione completa e organica dal punto di vista culturale (non una cultura minore o limitata e frammentaria), dall’altro pone la disciplina quale strumento imprescindibile per promuovere la «graduale trasformazione dell’attività naturalisticamente spontanea in attività razionalmente spontanea» (Bertoni Jovine, 1977b, p. 202). Del resto, trasformare una soggettività subalterna in una soggettività dirigente, preparare cioè la classe lavoratrice alla sua funzione di guida, è un processo che non può essere affidato alla spontaneità:

Vi sono energie spontanee che occorre opportunamente incoraggiare ed energie che occorre frenare. I fautori della scuola attiva nel loro indiscriminato rispetto della spontaneità e della libertà del ragazzo hanno sottovalutato le componenti negative della spontaneità. Non tutte le azioni, non tutti gli impulsi sono da incoraggiare: molti sono da frenare. La funzione di freno nell’educazione attivistica è messa da parte. Si pensa con eccessiva fiducia che la scomparsa delle cattive tendenze si avrà automaticamente con il prevalere e lo svi­luppo delle buone. L’ipotesi contraria non è presa in esame: che cioè lo sviluppo delle cattive tendenze possa in maniera pericolosa impedire alle buone di svilupparsi. Makarenko affronta decisamente questa que­stione ripristinando la necessità di una guida energica da parte dell’educatore. (Bertoni Jovine, 1977b, p. 193)

Riepilogando. Posto che l’educazione è una lotta contro una forma di cultura inferiore per l’affermazione di una cultura avanzata, una lotta contro una mentalità subalterna per creare una mentalità superiore ed emancipata, l’istruzione scolastica, per Dina Bertoni Jovine, deve evitare di incorrere in due rischi:

  • il primo è quello di «accettare l’ambiente com’è senza sottoporlo a una critica»;
  • il secondo è quello di «isolare la scuola da ogni influsso ambientale, rinchiudendo la sua azione in un pedagogismo sterile e astratto» (Bertoni Jovine, 1976b, p. 475).

Nel primo caso, spiega la pedagogista, si avrà una scuola che accetta dall’ambiente «indirizzi di schietto conformismo che mortificano lo spirito invece che esaltarlo nelle sue qualità più costruttive». Dall’ambiente, infatti, «può venire la retorica nazionalista, l’accettazione di un ordine sociale sorpassato, l’abitudine a rivestire di formule idealistiche gli interessi di alcune classi sociali, la persuasione alla remissività, l’ipocrisia di tutti i formalismi» (Bertoni Jovine, 1976b, p. 475). Dall’ambiente, inoltre, possono venire anche «la violenza, la brutalità, il razzismo», ma anche «veleni meno appariscenti e più insidiosi» che «danno al fanciullo, della vita, un’immagine deformata, esaltano sentimenti falsi, spengono in lui il potere critico con facili emozioni e la capacità di lotta con altrettanto facili evasioni: gli fanno apparire ordine l’accettazione passiva e disciplina la pigrizia mentale» (Bertoni Jovine, 1976b, p. 476). Per questa ragione, un vero educatore non può abbandonare i suoi alunni allo studio dell’ambiente «senza il sostegno di un giudizio critico per cui siano indotti a cogliere quanto c’è di educativo e quanto di diseducativo nelle suggestioni ambientali» (Bertoni Jovine, 1976b, p. 476).

Nel secondo caso, invece, si tratterebbe di un’operazione astratta, per via del fatto che è impossibile isolare la scuola dalla società in cui essa si colloca:

È giusto dunque che l’opera della scuola abbia come sua base lo studio dell’ambiente, la sua esplorazione per trarne le fonti più genuine e vive della cultura e dell’educazione; anche allo scopo di favorire il processo di un inserimento del fanciullo nella società come elemento attivo e produttore. Ma questo rapporto tra scuola e ambiente che l’educatore deve arricchire e rafforzare con la concretezza delle ricerche geografiche, scientifiche, storiche e sociali presuppone da parte del maestro un esame critico, una vigilanza continua; e soprattutto un criterio discriminante: quello di considerare valida per l’educazione ogni espressione della società che rappresenti un passo in avanti nella conquista di rapporti più giusti, più fraterni, più leali, più morali: valide tutte le lotte contro l’ipocrisia, contro il conformismo, contro la passività, contro gli egoismi di classe. (Bertoni Jovine 1976b, pp. 477-478)

In sintesi, non si tratta di respingere l’ambiente o di isolarsi dall’ambiento o di arrendersi ad esso accettandolo così com’è. Il rapporto che deve sussistere tra istruzione scolastica e ambiente è, come sappiamo, un rapporto dialettico:

La società non può essere né accolta né respinta in blocco; in essa agiscono fermenti progressivi contro forme isterilite e oppressive. La scuola viva deve ispirarsi ai primi facendo proprie, nel proprio ambito, le esigenze di rinnovamento culturale e assecondando gli ideali democratici giunti alla loro più chiara espressione; deve rifiutarsi all’influenza delle seconde conducendo contro di esse un’azione critica approfondita e continua. (Bertoni Jovine, 1964, p. 527)

Il valore educativo dell’istruzione scolastica sta per Dina Bertoni Jovine proprio in questa scelta, favorendo lo sviluppo di una cultura critica, antiadattiva e autonoma, in grado di permettere agli individui di individuare le contraddizioni che agiscono nella società in cui essi vivono e di indicare le condizioni storiche per un loro superamento.

 

Bibliografia

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[1] L’«antidogmatismo» degli attivisti, spiega Dina Bertoni Jovine, rischia anche di capovolgersi in «una sorta di nuovo dogmatismo». La pedagogia «dell’antidogmatismo si è andata concretando (almeno in certe correnti), in un nuovo verbo; e della scuola si tendeva a rifiutare non la cultura dogmatica, ossia irrigidita in sintesi fuori del flusso vivo del processo del pensiero, ma la cultura tout court» (Bertoni Jovine, 1977f, pp. 423-424).




Autore per la corrispondenza

Edoardo Puglielli
Indirizzo e-mail: edoardo.puglielli@uniroma3.it
Edoardo Puglielli Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi Roma Tre, Via del Castro Pretorio 20, 00185 Roma


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