Test Book

Teorie e modelli didattici / Theories and teaching models

L’alternanza scuola-lavoro: da obbligo legislativo e istituzionale ad opportunità formativa
The alternation between school and work: from legislative and institutional obligation to training opportunities

Giovanna Marani

PhD, Dirigente scolastico, Docente a contratto di Logica, Coordinatrice struttura di Tirocinio, Corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria, Università di Urbino Carlo Bo



Sommario

L’articolo intende indicare alcune piste di orientamento per l’alternanza scuola-lavoro a partire dall’esperienza di tirocinio compiuta in questi anni nei Corsi di laurea in Scienze della Formazione Primaria, che ha mostrato come sia possibile coniugare conoscenze, attività laboratoriali e pratica sul campo, in un percorso unitario e coeso, significativo per una reale interazione di teoria e pratica. Le difficoltà e le problematiche che emergono dall’introduzione obbligatoria, nell’ultimo triennio delle scuole secondaria di secondo grado, dell’alternanza scuola-lavoro, attengono soprattutto a una modalità realizzata più su di una successione temporale che su una costruzione logica e pedagogicamente formante.

Parole chiave

Apprendimento della pratica, abito mentale critico-riflessivo, interazione teoria-pratica.


Abstract

The article intends to indicate some orientation paths for the alternation between school and work, starting from the experience of internship accomplished in these years in the degree courses in Primary Education Sciences that showed how it is possible to combine knowledges, laboratory activities and practice on field, in a unitary and cohesive path, meaningful for a real interaction between theory and practice. The difficulties and problems that emerge from the compulsory introduction, in the last three years of secondary school level II, of the school-work alternation, above all concern a mode realized more on a temporal succession rather than on a logical and pedagogically forming construction.

Keywords

The learning of the practice, the critical-reflective mental habit, the interaction between theory and practice.


Introduzione

Il contributo intende formulare alcune considerazioni sul tema dell’alternanza scuola-lavoro da un punto di vista pedagogico per considerarne il valore formativo e segnalare alcune criticità, in sede di attuazione, che rischiano di confonderne il significato nonché la stessa efficacia operativa. Occorre cioè scongiurare il pericolo che tale esperienza, resa obbligatoria dall’attuale legislazione,[1] possa non solo smarrire la sua valenza d’apprendimento formativo ma anche rimanere un’esperienza che non genera sapere e cambiamento, restando giustapposta, se non del tutto incongruente, rispetto al percorso di studio e che non trova nemmeno rispondenza pratica.

Per chiarire questa posizione si cercherà di darne una lettura in chiave di giustificazione, non formale, che offra piena centralità alla formazione esperienziale poiché rispondente alle funzioni e ai profili di competenza attesi da percorsi scolastici che hanno come finalità il pieno sviluppo della persona umana intesa come individuo, produttore e consumatore, e soprattutto cittadino (Baldacci, 2014). La domanda a cui si vuole rispondere allora non è se l’alternanza scuola-lavoro sia una modalità efficace ma se abbia una valenza formativa. O meglio se sia una pratica efficace per e in quanto formativa poiché l’istituzione scuola, pur dovendo rinnovarsi rispetto ai cambiamenti che la realtà continuamente pone, non può tuttavia assecondarne supinamente le richieste che vanno vagliate criticamente alla luce della sua priorità educativa.

 

Il perché dell’alternanza

L’idea dell’alternanza scuola-lavoro trova una prima generale giustificazione socio-storica nell’attuale società che, essendo sempre più complessa e in continua e rapida trasformazione sotto il profilo sia culturale che economico, richiede una formazione che permetta agli individui di rimettersi progressivamente in gioco. Significa dotarli della capacità di apprendere — data la velocità di obsolescenza dei diversi saperi —, di acquisire plurali e interagenti competenze non pre-determinabili ma che richiedono nello stesso tempo conoscenze generali e specialistiche, abilità globali e contestuali,[2] un pensiero analitico e “operatore di rielanza”[3] di collegamento, capacità di autonomia e relazionali, flessibilità e soprattutto attitudine al cambiamento e al “saper divenire”. L’apprendimento continuo, lungo tutto l’arco della vita, è divenuto una necessità che attenua il confine tra il tempo dello studio della preparazione scolastica e quello del lavoro, superando la separazione tra sapere teorico e sapere pratico, tra il regno dell’astrazione e quello della concretezza operativa.

L’istituzione dell’alternanza all’interno del percorso scolastico secondario risponde a un’esigenza reale e aderisce a un’istanza sociale che però non ne rappresenta l’unica ragione: essa non può essere considerata un mero strumento di adeguamento alle richieste sociali o a quelle economiche del mercato del lavoro allo scopo di promuovere più occupazione e maggiore competitività. L’alternanza scuola-lavoro può acquistare il suo valore più significativo nel suo essere “metodologia didattica”,[4] in quanto in grado di attivare conoscenze e abilità pratiche trasformandole in competenze, e di “modalità formativa” generativa di apprendimento in grado di coniugare esperienza e conoscenza, riflessione e azione, autonomia e relazione. Esperienza in quanto l’alternanza postula dinamiche ricorsive tra contesti scolastici e contesti lavorativi, e conoscenza poiché occasione per mettere alla prova i saperi e acquisirne di nuovi; riflessione, giacché l’esperienza va indagata, organizzata, contestualizzata e metabolizzata, e azione, perché il pensiero si stempera e trova forma nel lavoro; autonomia, poiché si è chiamati a svolgere in prima persona un compito operativo, e relazione, poiché i luoghi dell’alternanza sono abitati da un’articolata, plurale e diversificata umanità con la quale si è chiamati a collaborare per riconfigurarsi e risintonizzarsi.

Alcuni studi, avvallati dalla letteratura, hanno mostrato, da qualche tempo, che l’apprendimento si realizza in una varietà di situazioni e contesti e avviene attraverso processi interattivi di ricorsività riflessiva e operativa, o meglio di un’operatività guidata dal pensiero e di un pensiero che si concretizza e soprattutto si valuta nell’azione. L’apprendimento viene cioè concepito e declinato come processo di costruzione di conoscenza attiva del soggetto che ha carattere situato, si àncora in un contesto concreto che supera l’arcaica vecchia dicotomia tra uno studio considerato culturale, spesso mnemonico e nozionistico, contrapposto a uno professionalizzante utilitaristico, spesso di mero addestramento al lavoro pratico. In particolare, il costruzionismo considera l'apprendimento proprio come una costruzione e non come una mera trasmissione di conoscenze, tanto più efficace e padroneggiato quanto più supportato da un’attività reale, legato a una creazione, che non sia solo mentale. Papert chiama questa forma di costruzione mentale pensiero concreto, che nella visione epistemologica di Piaget era solo uno stadio intermedio, mentre nell'impostazione proposta da Papert diventa il protagonista dell'apprendimento, di un apprendimento definito sintonico (Varisco, 2002; Papert 1984). L’agire del soggetto non viene visto solo come atto terminale di processi cognitivi sottostanti e ad essi subordinato, bensì come strutturante il pensiero che si alimenta in un continuo processo di retroazione. In quest’ottica il soggetto, impegnato in compiti reali e in situazione, attiva processi riflessivi e metacognitivi che sviluppano processi conoscitivi più consapevoli. Si genera un apprendimento di tipo “generativo” e trasformativo, e non solo applicativo, che necessita certamente di saperi e di abilità senza le quali non si produce alcuna competenza, formandosi in un contesto di pratica riflessiva. Dewey (1974) ci mostra come la conoscenza si realizza attraverso la funzionalità reciproca e l’indispensabile cooperazione tra pensiero e azione, in un processo di riflessione agita che evolve operativamente, mostrando il carattere attivo e produttivo del pensiero.

L’alternanza scuola-lavoro va considerata, in tale logica, una metodologia didattica capace di sviluppare competenze che il solo studio non è in grado di suscitare e il lavoro va concepito come uno spazio d’apprendimento con elevata potenzialità formativa poiché in grado di far divenire il pensiero e chi lo esercita. La scuola non viene ritenuta come il mondo dei saperi e il lavoro non viene concepito come il posto nel quale poi si applicano; la scuola non è pensata come detentrice di conoscenza e il lavoro come il susseguirsi temporale della sua organizzazione materiale. È invece riconosciuto il lavoro come luogo e occasione d’apprendimento superando l’idea che “prima si apprende e poi si opera”, valicando il vuoto operativo-formativo concernente lo sviluppo di competenze che non si acquistano esclusivamente e necessariamente a scuola, ma che sono alimentate e stimolate e messe alla prova dall’attività lavorativa, facendo evolvere i comportamenti e le potenzialità che afferiscono a una creazione attiva in situazione. Viene cioè compreso il valore di una conoscenza che avviene per l’azione, nell’azione e con l’azione: il sapere teorico umanistico e scientifico ma decontestualizzato si avvalora nell’esperienza pratica dell’agito. Agito attraverso la continua mediazione del pensiero riflessivo che “conversa con le situazioni” (Schön 1993; 2006) secondo un’impostazione che considera conoscenze (saperi) e abilità (saper fare) come mezzi per risolvere problemi concreti e inversamente, ma contemporaneamente, l’esperienza pratica professionale manipolativa, come la risoluzione di problemi, quali oggetti di riflessione per il pensiero.

Schön, richiamandosi all’indagine deweyana, indica la riflessione che si svolge nel corso dell’azione a fondamento di un’epistemologia della pratica professionale che attiva competenza per affrontare le problematiche che non si possono risolvere applicando semplicemente costrutti noti. La riflessione nel corso dell’azione, relativa a un determinato fare, diviene ristrutturazione del pensiero in azione che — a partire dal suo repertorio di saperi, esperienze pregresse, schemi concettuali — compone/scompone (variazioni di relazioni riguardanti sistemi di comprensione e di comportamento) e sperimenta in itinere e sul campo l’adeguatezza di tali costrutti confermandoli, modificandoli, diversificandoli.

La riflessione nel corso dell’azione può così dare senso a quell’imparare dall’esperienza che non è semplice compiere o accumulare esperienze, ma è esperienza setacciata dal pensiero. L’imparare facendo non implica allora il semplice fare, la cui azione consiste nella ripetizione e nell’imitazione di atti già compiuti da altri. Apprendere dall’esperienza diviene possibilità di dominarla distaccandosi momentaneamente dall’azione immediata per riflettere, per sottoporla al vaglio del pensiero. Intesa in questo senso l’alternanza scuola-lavoro non consisterebbe nel mero fare esperienza ma nell’apprendere dall’esperienza attraverso un processo di riflessione agita. Ed è proprio questo tipo di esperienza che potrebbe alimentare, per così dire, un secondo livello formativo: la costruzione a lungo andare di un vero e proprio “abito mentale” riflessivo. La modalità didattica dell’alternanza diverrebbe una prassi formativa in grado di far evolvere una mentalità, “una testa ben fatta”, secondo la nota espressione di Montaigne, che dà senso all’imparare a imparare ovvero ad agire pensando e a pensare agendo. L’alternanza, concepita con questa prospettiva, viene svolta perché in grado di stimolare la formazione di un pensiero che non sia solo riproduttivo e applicativo, ma possa essere generativo e in continua evoluzione, ovvero flessibile, capace di indagare la realtà e individuare soluzioni. Significa poter costruire quella forma mentis in grado di continuare ad apprendere attraverso un fare riflessivo e una riflessione agita, un habitus mentale volto alla riconversione e pronta al cambiamento. Potremmo dire una mentalità da ricercatore, che appartiene a chi utilizza non solo capacità mnemoniche e meccaniche ma anche quelle probabili e ipotetiche di un pensiero riflessivo-elaborativo in espansione. In questa prospettiva il pensiero pratico non è un residuo, un surrogato del pensiero “vero” collocato su un altro piano, così come la competenza pratica non è secondaria a quella teorica, ma ogni attività cognitiva, proprio perché nei contesti di vita reale lavorativa è mediata culturalmente e finalizzata al perseguimento di peculiari obiettivi, può essere definita come pensiero in azione che necessita di conoscenza pratica (Zucchermaglio, 2004).

 

Alcune indicazioni metodologiche

Da questa seppur breve esamina si possono focalizzare alcune problematiche emerse sulle modalità di attuazione dell’alternanza scuola-lavoro e indicare una possibile traccia ricavando utili riferimenti e orientamenti dall’esperienza del tirocinio, istituito già da alcuni anni (DPR n. 471/1996), nei Corsi di laurea in Scienze della Formazione Primaria.

Innanzitutto va sgomberata la diffusa pregiudiziale che vede l’alternanza come un addestramento. Non si può ridurre questa metodologia alla sola pratica preparatoria per il lavoro o a un’esperienza che arricchisca l’offerta formativa scolastica delle scuole secondarie di secondo grado, ormai da alcuni anni in clima di competizione. L’alternanza scuola-lavoro non è, infatti, di per sé un’esperienza formativa, non stimola in sé attitudini capacità e competenze, abilità che la scuola non valorizza. Può, al contrario, essere fonte di frustrazione per lo studente nel vedersi svalorizzato in mansioni e compiti ripetitivi quando non sgradevoli, senza alcuna autonomia e possibilità d’iniziativa; compiti, com’è capitato, del tutto avulsi rispetto all’indirizzo di studio.

L’alternanza non avviene in modo automatico dichiarandola e rendendola obbligatoria; detto in altri termini, la separatezza tra studio e lavoro, che da tempo e molto spesso contraddistingue l’agire didattico dei docenti, non scompare naturalmente dalla classe terza delle scuole secondarie. Ecco perché riveste importanza la gradualità della sua applicazione poiché prevede una competenza, da conquistare, da parte dei docenti a non insegnare pensando separate le due esperienze, a scuola e sul campo, quasi fossero giustapposte; va riorganizzato l’insegnamento considerando il rapporto tra scuola e lavoro come occasione formativa nei termini sopra esposti. L’alternanza da creare, per la problematicità che comporta e la consapevolezza che richiede, non può essere frutto d’improvvisazione, non avviene per applicazione normativa né per spontaneità didattica, ma ha bisogno di tempi di studio, di formazione iniziale e in servizio.

Con la legge 107 si è passati dall’opzionalità e autonomia — secondo il principio ispiratore di sussidiarietà del decreto legislativo n. 77 del 2005 — all’obbligatorietà e al centralismo: da possibilità, come prospettiva di scuole radicate e dialoganti con il territorio, ha assunto la veste dell’obbligatorietà, dell’esecutività e della disposizione verticistica, dimensioni che estromettono la ricerca e la sperimentazione. Si corre così il pericolo di depotenziarne l’intenzionalità formativa e incrementarne l’omogeneizzazione, di fare cadere i tracciati d’alternanza in stanchi e consuetudinari percorsi formativi lineari, separati (prima a scuola e poi al lavoro) e uniformati se non dipendenti dal mercato, senza il governo di una progettazione in grado di connettere e fare interagire il mondo della scuola e quello del lavoro. In questo modo soprattutto si rischia di vanificare il principio pedagogico di alternanza come modalità didattica e formativa.

A tal proposito il professore francese Bertrand Schwartz (1995), nel valorizzare l’alternanza come risposta formativa, ha segnalato il pericolo di cadere nelle due trappole dell’assolutizzazione della formazione teorica e di quella pratica del lavoro in cui si può scivolare, se l’alternanza formativa non viene bene articolata e pensata. Per assurdo, infatti, la formazione strutturata nelle tradizionali discipline e un lavoro operato senza responsabilizzazione e senza legami con la formazione non farebbero che rafforzare e congelare la distanza tra scuola e lavoro, producendo l’effetto opposto a quello intenzionale, poiché l’esperienza non guidata non è foriera di sviluppi apprenditivi ulteriori; potremmo dire che non è esperienza. Se è vero che operare in ambienti di lavoro potrebbe mobilitare processi cognitivi più attivi di quelli che avvengono in aula, va anche detto che non è il luogo in sé, ma la modalità attraverso cui ad esso ci si rapporta che attiva o meno tali processi: non è cioè sufficiente stare in contesti lavorativi per stimolare competenze. L’esperienza deve essere significativa, ovvero “provocare” la riflessione ulteriore.

Dewey indica i principii del continuum e dell’interazione come costitutivi di un’esperienza efficace: il primo rimanda alla necessità di una progettazione condivisa tra scuola e mondo del lavoro che garantisca continuità e senso all’alternanza, il secondo richiama l’attenzione sull’interazione tra le condizioni interne al soggetto e l’offerta formativa esterna segnalando la necessità del coinvolgimento dello studente nella scelta. La difficoltà risiede nella co-progettualità fra scuola/istituti scolastici e aziende/enti/mondo del lavoro: è sufficiente che una delle due parti non sia proattiva per cadere in una giustapposizione di esperienze diverse, come se fossero due momenti successivi (quello lavorativo lasciato per lo più al periodo estivo, dopo la conclusione delle lezioni scolastiche) e tra loro estranei a livello logico, senza alcun collegamento di ordine razionale o al massimo paralleli, senza essere nel contempo mezzo, condizione e fine l’uno dell’altro, come fossero momenti separati in un rapporto tra loro lineare e non connesso e circolare.

La realizzazione, per indicare un possibile e opportuno affinamento in prospettiva formativa di tale pratica, si gioca allora sui due termini dell’autonomia e della responsabilità per far sì che il dichiarato normativo, che intende l’apprendimento come una co-costruzione da parte del soggetto in diversi contesti e compiti, trovi rispondenza in progetti condivisi tra mondo della scuola e mondo del lavoro entrambi attenti, pur nella differenziata specificità, all’unitarietà dell’apprendere del soggetto. Lo scopo comune è consentire a ogni studente di affrontare la complessità e la mutevolezza del mondo del lavoro e non meno, di riconoscere e sviluppare il proprio cammino di vita personale.

L’esperienza del tirocinio, all’interno del Corso di laurea per la formazione culturale professionale e personale degli insegnanti della scuola dell’infanzia e della scuola primaria, può rappresentare un esempio indicativo di “buona pratica” formativa d’apprendimento in situazione mediante l’inserimento nel mondo del lavoro. Anche se, infatti, il contesto scolastico ha sicuramente una propria specificità e complessità, essendo il tirocinio una pratica che ha dato prova di validità nel tempo, può opportunamente essere assunto da riferimento anche rispetto ad altri ambiti lavorativi, se si estraggono da questa pluriennale esperienza (di ben diciotto anni) alcuni principi attivi e trasferibili come s’intende proporre.

L’esperienza diretta dello studente nelle istituzioni scolastiche, dentro le classi a diretto contatto con gli alunni e gli insegnanti, avviene durante il ciclo degli studi; viene creata una forte interazione tra la formazione teorica, quella laboratoriale e l’esperienza sul campo. Le tre modalità apprenditive — studio, laboratorio, tirocinio — avvengono in maniera sincronica e non sono tappe successive ma l’una è concepita in relazione alle altre. Il percorso di tirocinio è stato istituito e realizzato come un percorso finalizzato all’apprendere in situazione e in riflessione, coinvolgendo attivamente i futuri insegnanti in situazioni lavorative reali, al fine di far acquisire competenze operative, di organizzazione didattica, disposizioni e atteggiamenti produttivi ed efficaci nell’opera formativa, nelle dinamiche interpersonali, nell’apprendistato delle didattiche.

L’idea di fondo è la definizione del tirocinio come attività che si esplica attraverso: un agire che nasce da un’analisi della situazione e da una programmazione di atti coordinati ricavati dalle conoscenze teoriche (sapere), da quelle metodologiche pratiche (saper fare), unite a una presa di coscienza del proprio ruolo (saper essere), in contesto sociale/relazionale (saper essere con gli altri) e alla luce della pratica riflessiva per l’apprendimento continuo (saper divenire). Lo studente è chiamato a inserirsi gradualmente in un ambiente professionale e nelle sue articolazioni partecipando attivamente e in maniera graduale alle attività che si svolgono nelle classi/sezioni ed è direttamente coinvolto in un processo di vera e propria sinergia formativa, accompagnato da due tutor, uno scolastico e l’altro universitario, che lo conducono e guidano nel percorso formativo. I due tutor mettono a disposizione dello studente la propria esperienza, ovvero il sapere che nel tempo hanno sedimentato, per rispondere alle singole situazioni educative, diventando in questo senso esempio incarnato di come il piano teorico e della pratica debbano rimanere intrecciati lungo tutto il percorso professionale. Il tirocinante entra in una comunità professionale e nelle sue articolazioni formali e informali: partecipa così a un processo progressivo d’inculturazione costituito da un nutrito repertorio di elementi espliciti (norme, organi di gestione e governo, simboli, linguaggio specifico) e impliciti (i rituali, le consuetudini, le narrazioni, le pratiche routinarie).

Nel Corso di laurea di Scienze della Formazione Primaria dell’Università di Urbino questa visione di base è stata tradotta in una serie di scelte organizzative, con la creazione di strumenti di accompagnamento dello studente dentro le scuole. Da una prima esperienza di tipo più esplorativo e di conoscenza dei contesti, il tirocinante è chiamato a svolgere un percorso che da partecipante più periferico con compiti prevalentemente osservativi lo conduce a sperimentare se stesso come “professionista riflessivo” che elabora percorsi progettuali consoni, li attua e quindi ne valuta la portata. Avviene cioè un apprendimento professionale che non è inteso come semplice trasferimento di conoscenze decontestualizzate, ma che viene percepito come partecipazione sempre più operosa.

Le parole chiave che orientano l’intero progetto di tirocinio sono la riflessività, l’innovazione e la documentazione. Il pensiero riflessivo si esercita per l’azione come intenzionalità e progettazione (tirocinio indiretto), nell’azione e con l’azione come regolazione del processo (tirocinio diretto), dopo l’azione come rielaborazione e documentazione di quanto esperito (tirocinio indiretto-elaborazione di materiali-stesura della relazione di laurea). È stato ritenuto prioritario lo sviluppo di un atteggiamento riflessivo per favorire un'identità professionale che permetta agli studenti di rompere la comoda routine di pratiche didattiche consolidate e rassicuranti, spingendoli a un'elaborazione creativa delle proprie conoscenze, ma anche all'autocritica, all'abitudine a esaminare le proprie esperienze desumendo da esse indicazioni utili per confermare le condotte valide e modificare quelle inadeguate.

L’innovazione, altro elemento chiave dell’esperienza sul campo, è costantemente stimolata attraverso un atteggiamento di ricerca e sperimentazione. È stata adottata, a tal fine, la “ricerca-azione” come modalità idonea di ricerca pedagogica, tesa a far generare l’azione attraverso la ricerca e la ricerca attraverso l’azione mediante il confronto e la messa in discussione dell’una per mezzo dell’altra. Il percorso di tirocinio proposto agli studenti evolve con un andamento a spirale, dove “pratica” e riflessione procedono parallelamente, generando conoscenze e abilità nuove che a loro volta portano a nuovi atti coordinati e dotati di un nuovo senso.

Documentare poi l’esperienza ha più scopi collegati tra loro: significa fare memoria e lasciare tracce del lavoro svolto, ma anche socializzare le pratiche e, dunque, permettere il confronto, creare un circolo positivo fra l’agire e il pensare, generando riflessione. Per non ridursi a semplice raccolta di materiali e prodotti, la documentazione deve sottendere domande e consapevolezze importanti: per quale scopo, per chi e come documentare; cosa focalizzare, quali modalità comunicative adottare. Per queste ragioni si è ritenuto che l’abitudine e la capacità di documentare diventassero parte significativa del percorso di professionalizzazione dei futuri insegnanti. Il modello documentale-progettuale segue le fasi dell’indagine deweyana: partendo dall’individuazione di un problema e dalla formulazione d’ipotesi si giunge, grazie ai dati dell’osservazione, alla progettazione e realizzazione d’interventi; attraverso l’osservazione di verifica, l’ipotesi evolve verso una ri-progettazione. Questo andamento ricorsivo, tradotto nel tirocinio che ha durata quadriennale, ha significato, all’interno di un percorso completo, individuare per ciascun anno una tappa conclusa in sé, ma che fosse, all’interno di un continuum, fondamento su cui costruire quella successiva; tappa che include la precedente e apre una prospettiva di analisi/di azione sulla realtà più ampia. In questo senso, parliamo di un percorso a spirale e non lineare dove ogni anno, mantenendo la struttura di riferimento, in primo piano viene posta una tematica/strumento della professione docente: osservazione, progettazione, documentazione, valutazione.

L’esperienza del tirocinio così concepita dà luogo a processi di partecipazione e contemporaneamente di costruzione generativa. La partecipazione evidenzia il superamento di un modello d’apprendimento professionalizzante considerato come semplice trasferimento di conoscenze decontestualizzate, per una modalità esperienziale situata che diviene sempre più collaborativa attraverso la costruzione progettuale non basata solo sulla memorizzazione di pratiche conosciute o repertori noti, di soluzioni preconfezionate, ma integrata e generativa di ulteriori possibili percorsi formativo-didattici.

Alla luce di quanto detto sul significato e valore che ha assunto l’esperienza di tirocinio, a partire da quest’ultima, e tenendo fermo il principio di superare l’approssimazione e la casualità, definendo spazi, tempi, agenti, compiti e ruoli, si evidenziano alcuni fattori considerati rilevanti per l’alternanza e come tali trasferibili in contesti lavorativi diversi:

- la continuità e la sinergia tra i saperi, le esperienze di laboratorio, quelle dirette sul campo e la loro inter-azione di sviluppo;

- l’inserimento dello studente in una specifica realtà professionale e nelle sue articolazioni e in una comunità di pratiche secondo un processo basato sulla partecipazione periferica legittimata che diviene gradualmente una posizione sempre più centralmente attiva;

- la progettazione dell’esperienza come strumento in grado di mettere in comunicazione, per cooperare, le diverse comunità coinvolte e conciliare le loro prospettive;

- l’analisi della pratica agita dagli studenti negli ambienti lavorativi attraverso una riflessione continua e guidata attraverso strumenti di mediazione e accompagnamento;

- uno strumento di documentazione in grado di accompagnare l’esperienza attraverso un processo di rielaborazione personale: materiale su cui poter “poggiare” la riflessione;

- il ruolo dei tutor (interni ed esterni) come figure d’intermediazione nelle comunità e membri attivi “del” e “nel” processo di esperienza;

- e infine, ma soprattutto, un processo dinamico e di movimento circolare e ricorsivo tra scuola e lavoro con una successione che, più che temporale, sia concepita e realizzata come consequenzialità logica.

La strada da percorrere è ancora lunga poiché esige l’abbandono della radicata concezione che prima si apprende e poi si opera, così come l’idea della superiorità della teoria sulla pratica; parallelamente, va costruito un percorso di alleanza educativa tra il modo della scuola e quello del lavoro intrecciando saperi, pratiche e, soprattutto, visioni comuni di possibili rinnovamenti che rendano effettivo l’apprendimento permanente, considerando la formazione come vera fonte di crescita e di sviluppo per il singolo e per la società.

 

Bibliografia

Baldacci M. (2014), Per un’idea di scuola, Milano, FrancoAngeli.

Benadusi L. e Molina S. (a cura di) (2018), Le competenze. Una mappa per orientarsi, Bologna, il Mulino.

Dewey J. (1974), Logica, teoria dell’indagine, Torino, Einaudi.

Morin E. (2015), Insegnare a vivere. Manifesto per cambiare l’educazione, Milano, Raffaello Cortina.

Papert S. (1984), Bambini computer e creatività, Milano, Emme.

Pontecorvo C., Ajello A.M. e Zucchermaglio C. (2004), I contesti sociali dell’apprendimento, Milano, LED.

Schön D.A. (2006), Il professionista riflessivo, Bari, Dedalo.

Schwartz B. (1995), Modernizzare senza escludere. Un progetto contro l’emarginazione sociale e professionale, Roma, Anicia.

Varisco B.M. (2002), Costruttivismo socio culturale, Roma, Carocci.

Zucchermaglio C. (2004), Apprendimento, pratiche di lavoro e tecnologie nei contesti organizzativi. In C. Pontecorvo, A.M. Ajello e C. Zucchermaglio, I contesti sociali dell’apprendimento, Milano, LED, pp. 240-261.

 

[1] La legge 107/2015 ai commi 33 e 35 introduce l’obbligo di alternare a periodi apprendimento in aula periodi di formazione attraverso esperienze di lavoro che la scuola deve coordinare, organizzare e co-progettare con le strutture ospitanti. Tale obbligatorietà è estesa a tutti gli studenti dell’ultimo triennio della scuola secondaria di secondo grado: almeno 200 ore nei licei e almeno 400 ore negli istituti tecnici e professionali.

[2] “Conoscere è un anello ininterrotto, separare per analizzare e collegare per sintetizzare o complessificare”. Si veda E. Morin, Insegnare a vivere. Manifesto per cambiare l’educazione, Milano, Raffaello Cortina, 2015, p. 72.

[3] Neologismo utilizzato da Morin derivato da relier (collegare) e alliance (alleanza). Si veda E. Morin, Insegnare a vivere. Manifesto per cambiare l’educazione, op. cit., p.7.

[4] “All’interno del sistema educativo del nostro Paese l’alternanza scuola-lavoro è stata proposta come metodologia didattica per: a) attuare modalità di apprendimento flessibili e equivalenti sotto il profilo culturale e educativo, rispetto agli esiti dei percorsi del secondo ciclo, che colleghino sistematicamente la formazione in aula con l'esperienza pratica; b) arricchire la formazione acquisita nei percorsi scolastici e formativi con l'acquisizione di competenze spendibili anche nel mercato del lavoro; c) favorire l'orientamento dei giovani per valorizzarne le vocazioni personali, gli interessi e gli stili di apprendimento individuali; d) realizzare un organico collegamento delle istituzioni scolastiche e formative con il mondo del lavoro e la società civile, che consenta la partecipazione attiva dei soggetti di cui all'articolo 1, comma 2, nei processi formativi; e) correlare l'offerta formativa allo sviluppo culturale, sociale ed economico del territorio”. Finalità indicate dal decreto legislativo n.77/2005, art. 2. e riportate anche nella Guida operativa per la scuola sull’attività di alternanza scuola-lavoro.




Autore per la corrispondenza

Giovanna Marani
Indirizzo e-mail: giovanna.marani@uniurb.it
Dipartimento di Studi Umanistici, via Bramante, 17 - 61029 Urbino (PU)


© 2017 Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A.
ISSN 2421-2946. Pedagogia PIU' didattica.
Tutti i diritti riservati. Vietata la riproduzione con qualsiasi mezzo effettuata, se non previa autorizzazione dell'Editore.

Back