Test Book

Teorie e modelli didattici / Theories and teaching models

La “buona scuola” democratica. Una riflessione sull’attualità del modello pedagogico montessoriano
The good democratic school: a reflection on the relevance of the Montessori pedagogical model

Barbara De Serio

Ricercatrice in Storia della Pedagogia - Università di Foggia



Sommario

Dopo una breve riflessione su alcuni punti critici della recente riforma della scuola italiana, tra cui il rischio di competizione che la nuova veste organizzativa della scuola sembra provocare a livello di prassi scolastiche, il contributo focalizza l’attenzione sul carattere democratico che, al di là di ogni ideologia politica e scolastica, dovrebbe caratterizzare l’istituzione scuola in ogni periodo storico. A partire dall’analisi del modello della scuola progressiva, il contributo ripercorre più nello specifico i principi scientifici alla base dell’approccio pedagogico montessoriano. Quest’ultimo viene presentato, in un’ottica di trasversalità rispetto alle prassi didattiche comunemente utilizzate in ambito scolastico, come possibile dispositivo investigativo per formare nei bambini e nei ragazzi un pensiero critico e creativo, democratico e cooperativo.

Parole chiave

Scuola, democrazia, metodo Montessori


Abstract

Subsequently to a reflection on some critical aspects of recent reform of Italian school, the contribution analyzes the democratic character that beyond any political and educational ideology should characterize the institution school in every historical period. It describes progressive school models and analyzes the scientific principles of the Montessori pedagogical theory. In a transversal perspective to educational practices commonly used in schools, this method is considered a possible tool to form in children and teens a creative and critical thinking, democratic and cooperative. The paper describes, in particular, the secondary school reform plan designed, in the thirties of the twentieth century, by Maria Montessori and unfortunately remained unfinished. The Montessori reform intended to give to school the character of "educational community", in which the student could gain important activities, group work and professional experiences to learn principals social relationship with the outside world.

Keywords

School, democracy, Montessori method


Quale “buona” scuola?

Ricche di senso critico, dense di spunti di riflessione, cariche di tensione emotiva, espressione di un grande “credo pedagogico”, oltre che di un elevato civismo, le voci dei grandi pedagogisti italiani che hanno animato il recente dibattito sulla riforma della scuola (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, 2015a; 2015b), pubblicato sul sito della Società Italiana di Pedagogia (http://www.siped.it, 2). Un confronto acceso, dai toni vivaci, spesso fortemente avversi nei confronti di un governo che sta spietatamente attaccando – probabilmente distruggendo – quello che docenti e studenti, protagonisti dell’istituzione scolastica, considerano ancora, a dispetto di molti, l’unico grande strumento di pace: la “scuola di tutti”.

Numerose, preziose e degne di attenzione le considerazioni portate avanti nel dibattito in questione, che rivendica l’idea della “scuola come comunità” (Baldacci, 2015), capace di favorire il progresso di tutti coloro che la frequentano e di sollecitare i docenti a farsi strumento di crescita per gli studenti; un’istituzione scolastica “inclusiva, plurale e solidale” (Frabboni, 2015), che non corra il rischio di essere colpita da un eccesso di competitività distruttiva e “fuori luogo”, propria di una logica organizzativa aziendalistica che non appartiene all’ambiente scolastico; una scuola che pretende di conservare la propria “identità democratica” (Pinto Minerva, 2015) e che intende farsi portavoce della formazione di tutti e per tutta la vita; una “buona scuola”, che garantisce collaborazione tra docenti e cooperazione tra studenti e combatte insistentemente e incessantemente il “verticismo” (Bellatalla, 2015) che la nuova riforma scolastica sembra invece conservare, a partire dall’eccessiva autorità affidata al dirigente scolastico.

Secondo quanto evidenziato nel testo di legge il dirigente scolastico ha, tra le altre cose, il potere di “promuovere”, in base a criteri soggettivi e poco verificabili, il “migliore docente”, quello che lavora “di più”, ma non necessariamente meglio, quello che preferisce il lavoro individuale alla condivisione dei risultati, quello che ha imparato ad accettare la “disparità” in virtù di un “sistema premiale” che ha poco a che fare con la “meritocrazia” e che, in quanto tale, tende a sminuire talenti e risorse umane fondamentali tra i propri studenti solo perché non rispondono a una logica di mercato. La stessa logica che oggi sta contribuendo a infierire sulla scuola al pari di decenni di politica cattiva e assente.

Il risultato? Lo smantellamento della forza democratica che a fatica e spesso controcorrente reggeva una delle più importanti conquiste della scuola italiana degli ultimi anni: l’autogestione e l’opportunità di investire in formazione per combattere la dispersione scolastica, degli studenti come dei docenti. Perché – chi crede nella “buona” scuola lo sa – la qualità di un sistema scolastico non si basa sul lavoro di pochi docenti “costretti” a diventare “meritevoli” in base a motivazioni estrinseche, ma sulla collaborazione di tutti i protagonisti dell’istituzione scolastica – docenti, studenti, genitori – che chiedono di partecipare attivamente alla vita della scuola perché la formazione è un diritto di tutti e perché nella comunicazione risiede l’unico vero strumento di crescita sociale, oltre che umana.

Lo diceva John Dewey nel lontano 1916 (1970), quando nel capitolo introduttivo di uno dei suoi grandi capolavori sull’educazione come “necessità della vita”, dedicato al rapporto tra educazione e comunicazione, scriveva chiaramente che “gli uomini vivono in comunità in virtù delle cose che possiedono in comune” (Dewey, 1970, p. 5). E più avanti, ribadendo la “funzione sociale” dell’educazione e sottolineando il carattere educativo dell’ambiente scolastico, precisava che tra i compiti della scuola vi è la capacità di “equilibrare i diversi elementi nell’ambiente sociale e provvedere a che ogni individuo abbia la possibilità di sfuggire alle limitazioni del gruppo sociale nel quale è nato e di venire in contatto vivo con un ambiente più largo” (Dewey, 1970, p. 27).

Questo il modello di scuola che si intende recuperare: un ambiente educativo che promuove molteplici occasioni di comunicazione e innumerevoli momenti di scambio e di confronto tra pari e con adulti, una comunità democratica in cui si “costruiscono” conoscenze e metaconoscenze attraverso un comportamento collaborativo e un “saper fare” che va di pari passo con l’apprendimento per scoperta, un ambiente culturale che mira a sviluppare un pensiero critico, problematico e investigativo e che è quindi in grado di maturare nei soggetti in formazione il “potere di crescere” (Dewey, 1970) con gli altri e all’interno di un gruppo che assicura l’interdipendenza  tra i suoi membri. È noto, infatti, quanto negli esseri umani la dipendenza possa e debba essere considerata un punto di forza, poiché denota la capacità sociale degli individui: gli esseri umani crescono in virtù della plasticità della loro mente, che sin dall’infanzia sviluppa un elevato potere di adattamento all’ambiente. Ciò significa che il pensiero umano può svilupparsi in modo autonomo solo se supportato da un ambiente che favorisce tale processo creativo, che libera il pensiero critico e la capacità di giudizio senza limitarli, soggiogarli o reprimerli. Compito della “buona” scuola è dunque quello di favorire nei soggetti in formazione il potere di essere se stessi, che si traduce nel prepotente esercizio della forza del pensiero e della libertà della parola.

È ormai condivisa, anche in ambiti altri rispetto a quello pedagogico, l’idea secondo cui il processo educativo deve configurarsi come pratica di cambiamento e strumento di emancipazione da condizionamenti culturali che, per quanto necessari a maturare un pensiero autonomo, spesso impediscono di essere se stessi. Questo il senso etimologico del termine exducere, che Jean François Malherbe (2014) ha di recente definito nei termini di un autentico lavoro di “creazione etica”, di emancipazione di un’energia creatrice necessaria per liberare il pensiero dal rischio di un potenziale assoggettamento nei riguardi di una qualsiasi autorità.

Fatte queste premesse non sembra necessario insistere oltremodo sul rapporto tra educazione e autonomia: “educare” significa combattere ogni forma di passivizzazione del pensiero e di neutralizzazione del dialogo, a partire da quello interiore.

Spesso è la stessa organizzazione scolastica a trasmettere messaggi educativi violenti. Occorre invece puntare sul significato stesso del processo educativo, che come scrive Alain Goussot (2014) è “apprendimento reciproco”, cooperazione, nel senso che ognuno contribuisce alla costruzione delle conoscenze assumendosi la responsabilità di questo processo co-costruttivo. Scrive Goussot, recuperando un noto concetto di Lucien Laberthonnière (1947), che il dovere del docente è quello di pretendere che lo studente “si appartenga” nel modo più completo possibile, di accompagnare lo studente verso un processo di liberazione, di guidarlo verso l’acquisizione del potere di sviluppo, inteso come coscienza di sé e delle proprie responsabilità, come diritto e dovere a essere se stesso e a costruire autonomamente il proprio pensiero. Il docente non può semplicemente “trasferire” conoscenze; il suo è un compito più nobile, perché gli viene chiesto di aiutare lo studente a costruire le fondamenta cognitive. Perché la scuola – ha scritto recentemente Philippe Meirieu in un saggio denuncia del ruolo riservato all’educazione nella società attuale – “non è solo un’istituzione della democrazia, è anche la condizione della sua possibilità. Nessuna democrazia senza una Scuola capace d’istruire e di emancipare. Nessuna democrazia senza la trasmissione a tutti e a tutte dei saperi che permettono di comprendere il mondo. Nessuna democrazia è possibile senza la condivisione di una cultura che risuoni con quello che ognuno ha di più intimo e gli permetta, nel medesimo tempo, di legarsi agli altri in quello che abbiamo insieme di più universale. Nessuna democrazia senza la formazione di cittadini con la schiena dritta che osino pensare con la loro testa. Nessuna democrazia senza il lungo e paziente apprendimento della costruzione di un bene comune che trascende gli interessi individuali. Nessuna democrazia senza pedagogia” (2013, pp. 119-120).

 

Ripartire da Maria Montessori. Un antidoto contro la “cattiva” scuola

È questo il principio fondamentale alla base della pedagogia progressiva, che intende porsi come strumento di accompagnamento di un processo di crescita interiore, che prende avvio quando lo studente viene messo nelle condizioni di liberare le proprie energie costruttive. Un principio che ha trovato larga eco nel modello pedagogico di Maria Montessori, che ha più volte insistito sulla “spiritualità” dello sviluppo infantile: “da un punto di vista biologico il concetto di libertà nell’educazione della prima infanzia deve intendersi come condizione adatta al più favorevole sviluppo così dal lato fisiologico come dal lato psichico. Quasi l’educatore fosse spinto da un profondo culto alla vita dovrebbe rispettare, osservando con interessamento umano, lo svolgersi della vita infantile. Ora la vita infantile non è un’astrazione: è la vita dei singoli bambini. Esiste una sola reale manifestazione biologica, l’individuo vivente, e verso individui singoli, a uno a uno osservati, deve rivolgersi l’educazione, cioè l’aiuto attivo alla normale espansione della vita. Il bambino è un corpo che cresce e un’anima che si svolge; la duplice forma fisiologica e psichica ha una fonte eterna: la vita; le sue potenzialità misteriose noi non dobbiamo sviscerarle né soffocarle, ma attenderne la successiva manifestazione” (2009d, pp. 66-67).

Dal modello pedagogico montessoriano si intende in questa sede ripartire per promuovere un’immagine di scuola democratica, collaborativa e inclusiva. Ciò non significa presentare il metodo Montessori come il “rimedio” contro i “difetti” di un cattivo funzionamento scolastico. Non sarebbe questa la sede opportuna per farlo. Lo scopo della riflessione che segue è semplicemente quello di ricostruire i principi alla base di un modello pedagogico che, insieme ad altri, può contribuire a qualificare il sistema scolastico conferendo a prassi didattiche ormai consolidate un impianto metodologico forte e storicamente fondato.

Pur non volendo soffermarsi su questo aspetto, è evidente il carattere di eccellenza del metodo Montessori, ultimamente ribadito da una serie di studi che manifestano una grande attenzione e un altrettanto elevato tentativo di recupero di questa prassi didattico-metodologica. Alcuni di questi studi mettono in evidenza, ad esempio, i successi conseguiti dagli studenti che frequentano le scuole Montessori nel mondo (Margiotta, 2015, pp. 57-72): l’apprendimento di una cultura sensoriale, la maturazione spontanea delle capacità di lettura e soprattutto di scrittura, che si fondano, naturalmente, su un solido possesso di competenze senso-motorie, il potenziamento delle capacità logico-matematiche e, non ultimo, l’acquisizione di una “cultura antropologica”, che secondo Umberto Margiotta è alla base di una vera riforma della scuola, della quale la Montessori si è fatta portavoce prima e meglio di qualunque altro riformatore moderno. Non una “lotta per il rinnovamento dei metodi” (2015, p. 58); non era questo che la Montessori chiedeva alla scuola, bensì “l’avvio di un processo di rigenerazione dell’umano” (Margiotta, 2015, p. 58), che non può che partire da una trasformazione dei docenti e della loro preparazione e formazione.

“Come si fa a preparare una mente umana alla vita – scrive provocatoriamente Margiotta – se non si sa quale sia lo scopo della vita umana? Abbiamo bisogno di una filosofia dell’educazione basata su un’adeguata antropologia o immagine dell’uomo, se dobbiamo rimettere l’educazione sul giusto binario. Con il suo aiuto possiamo costruire una cornice in cui trova posto ogni tipo di ricerca umana, senza perdere di vista né il modo in cui, in ultima istanza, tutte le materie si connettono insieme, né la natura e i bisogni formativi della persona […]. Il segreto – conclude Margiotta – sta nel principio di unità antropologico, perché la rottura del curricolo riflette la frammentazione della persona e della sua formazione” (Margiotta, 2015, p. 62).

Il riferimento – chiaro e indiscusso – è ancora una volta alla necessità di moltiplicare gli spazi relazionali e le occasioni di incontro all’interno della scuola, che consentono di avviare nuove progettualità dell’intervento educativo, tanto più efficaci quanto più capaci di rispondere ai bisogni degli studenti e dei docenti, chiamati insieme a costruire il nuovo assetto democratico dell’istituzione scolastica e a elaborare nuove proposte didattiche per la co-costruzione di saperi e apprendimenti condivisi.

Largo spazio, dunque, al tentativo di recupero di un modello pedagogico e metodologico, tutto italiano, che possa promuovere un ritorno dell’educazione progressiva e dell’istruzione come “aiuto alla vita”. Questa e altre occasioni di discussione e di confronto sono utili per diffondere in ambito scolastico buone prassi e saperi scientificamente fondati. L’approccio montessoriano, nel caso specifico, potrebbe essere utilizzato per costruire un nuovo modello di scuola, capace di adattarsi “democraticamente” agli interessi individuali e ai bisogni di sviluppo degli studenti. Non solo. Un’operazione di ricostruzione dei principi alla base del metodo Montessori in ambito scolastico, come quella che si sta tentando brevemente di effettuare in questa sede, da un lato consentirebbe un’integrazione dell’approccio montessoriano con le prassi pedagogiche e didattiche oggi più comunemente utilizzate, ovvero una riorganizzazione dell’istituzione scolastica stessa; dall’altro lato, quest’operazione favorirebbe un recupero della pedagogia montessoriana in Italia, conferendo al metodo la credibilità della quale lo stesso gode da più di un secolo nel resto del mondo. Questo “recupero” non può che avvenire in ambito accademico, dove gli studiosi del metodo avvertono in modo forte il bisogno di collegare due settori della formazione del docente Montessori ancora ingiustamente disgiunte: quella universitaria e quella specialistica, da sempre affidata al movimento montessoriano.

Non si può certo negare, tra le principali cause della “lenta” diffusione dell’approccio montessoriano in Italia, la rigidità del modello di formazione nel quale è attualmente ingabbiato il metodo Montessori. Una rigidità che sembra non consentire il confronto con i molteplici approcci didattici e metodologici di impronta attivistica e che impropriamente induce a considerare il metodo incapace di adeguarsi a contesti socio-culturali, politici ed economici differenti rispetto a quello in cui lo stesso è stato sperimentato e utilizzato nei primi anni del Novecento. Questa difficoltà a lasciarsi contaminare da altre proposte pedagogiche e metodologiche ha minato alla radice il senso che la stessa Montessori aveva conferito al suo approccio didattico: non come metodo andava inteso, ma come un aiuto alla personalità umana, per consentirle di raggiungere livelli sempre più alti di indipendenza, di liberarsi da modelli educativi oppressivi e carichi di pregiudizi nei confronti del potere costruttivo dell’essere umano (Montessori, 2009c; 1970).

Al di là della tendenza più o meno generalizzata dei montessoriani a isolare il metodo, probabilmente – scrive Furio Pesci (2015, pp. 73-84) – per tutelarlo dal rischio di contraffazioni, non è escluso che la proposta pedagogica montessoriana non possa essere utilizzata in qualunque ambito scolastico – non solo nelle scuole di metodo – per diffondere tra studenti e docenti un modello pedagogico e didattico che come pochi altri può contribuire a promuovere l’autocostruzione e l’autoeducazione dei propri costrutti mentali. Se dunque è vero che per poter istituire sezioni scolastiche Montessori è necessario disporre di personale docente specializzato nel metodo di differenziazione didattica montessoriana, capace di proporre agli studenti l’utilizzo di materiale strutturato adeguato ai loro bisogni di crescita e di sviluppo, è altrettanto importante diffondere nella prassi didattica indirizzi e approcci pedagogici e metodologici che, come quello montessoriano, si prestano a garantire la promozione dei principi che fanno “buona” una scuola: libertà e autonomia nei processi di insegnamento-apprendimento. Contro qualsivoglia rischio di competizione, la didattica montessoriana ha il solo scopo di supportare lo studente nella costruzione individuale di strutture mentali nelle quali lui stesso progressivamente “incarnerà” i suoi processi psichici, metacognitivi e metaemotivi.

 

Scommettere sui principi di qualità del modello pedagogico e didattico montessoriano. Per trasformare la scuola in una “comunità educativa”

Il principio della comunità educativa, trasversale a tutti i modelli di scuola progettati dalla Montessori, è centrale soprattutto nel progetto di riforma della scuola secondaria, avanzato negli anni Trenta del Novecento e purtroppo rimasto incompiuto (Montessori, 1994; 2002, pp. 181-189).[1] Una riforma che allora, come oggi, la popolazione scolastica avvertiva in modo forte per contrastare una crisi politica, economica e culturale che sembrava minacciare la pace nel mondo e il benessere degli esseri umani e che insisteva sulla formazione “sociale” degli adolescenti, futuri cittadini del mondo.

Conviene allora richiamare l’attenzione soprattutto sul progetto della scuola secondaria pensato dalla Montessori, se non altro perché il testo stesso della riforma in atto sembra in più occasioni fare riferimento, per la scuola secondaria, al recupero di proposte già realizzate in passato e delle figure emblematiche che le hanno progettate. Tra i vari riferimenti compare il nome della Montessori (Cives, 2015, pp. 23-28).

Il “programma di Laren”, come la Montessori definì la sua proposta sperimentale di riforma della scuola secondaria, prese il nome da un paese in provincia di Amsterdam nel quale il progetto fu realizzato a partire dalla metà degli anni Trenta e per un breve periodo di tempo, fino alla sua interruzione a causa dell’irrompere della seconda guerra mondiale. Per comprendere i principi pedagogici fondamentali alla base del programma è necessario partire da una breve considerazione dell’età adolescenziale, secondo quanto evidenziato in più occasioni dalla stessa Montessori.

L’adolescenza è la fase della vita in cui l’essere umano continua ad avere bisogno di sicurezza per acquisire maggiore fiducia in se stesso e nelle proprie capacità di problem solving. È questa l’età in cui il bambino e la bambina cominciano a rapportarsi al mondo per cui, da un lato, devono consolidare il livello di autonomia acquisito, necessario a sperimentarsi e a gestire autonomamente gli imprevisti, dall’altro lato devono imparare a confrontarsi con una realtà in cui la vita non si gioca più nel chiuso della propria individualità e nella quale è dunque necessario aprirsi agli altri per costruire la propria identità sociale. Per questo motivo la Montessori ha insistito sulla necessità di una riforma della scuola secondaria, in grado di rispondere ai bisogni di un’età “proattiva” (Galeazzi, 2007, pp. 75-79): perché l’adolescente possa imparare a progettarsi ha bisogno di un ambiente di “preparazione alla vita”.

L’adolescente chiede alla scuola di fornirgli gli strumenti culturali necessari per diventare un cittadino, per partecipare attivamente alla vita sociale che lui stesso, insieme agli altri, contribuisce a costruire. Ciò che distingue l’adolescente dal bambino è, infatti, la sua grande sensibilità, che va adeguatamente formata per promuovere in questo “neonato sociale” (Montessori, 1994) un corretto sviluppo dei sentimenti di giustizia e di socialità. Anche per questo motivo le prassi scolastiche ed educative – scrive Laura Marchioni Comel – hanno il dovere di “suscitare il ‘sentimento sociale’ dell’adolescente, di appartenenza e di amore verso la società” (Marchioni Comel, 2015a, p. 52).

Da ciò l’importanza di una corretta predisposizione degli ambienti scolastici, che dovranno configurarsi come laboratori di apprendimento, nei quali l’adolescente possa esercitare le proprie capacità esplorative e di risoluzione dei problemi e nei quali possa soprattutto imparare a familiarizzare con la società, che il “microcosmo” scolastico rappresenta. La scuola secondaria deve dunque conservare una caratteristica fondamentale, che la distingue dai precedenti ordini e gradi scolastici: l’interconnessione al suo interno – tra aule, laboratori, biblioteche e relative attività – e con l’ambiente esterno (Marchioni, 2015); “un ambiente di apprendimento aperto, che connette l’energia vitale adolescenziale con il fluire dell’energia vitale della comunità sociale locale, rendendo la scuola una struttura vivente e non separata dalla realtà della vita” (Marchioni, 2015, p. 57); un luogo nel quale oltre alle competenze cognitive l’adolescente possa acquisire competenze sociali, che possono svilupparsi solo attraverso la partecipazione alle esperienze di comunità.

Centrali, dunque, appaiono tanto i contenuti disciplinari, orientati nell’ottica dello sviluppo psichico e della formazione del carattere (studio della terra, della storia dell’umanità, del progresso umano, ecc.), quanto le numerose attività che, seppur svolte in ambito scolastico, sono estremamente utili al benessere della comunità (lavori agricoli e attività artigianali con relativa vendita di prodotti a scopo di beneficienza, lavori socialmente utili, ecc.): esperienze che sempre più frequentemente, nelle numerose scuole secondarie Montessori diffuse nel mondo, vengono fatte confluire nelle attività di tirocinio presso le istituzioni culturali del territorio, con lo scopo di formare nell’adolescente lo “spirito di servizio”, un sentimento coerente con il modello di educazione alla vastità più volte descritto dalla Montessori (2009a) e finalizzato a formare i futuri “cittadini del mondo” a partire dall’ambiente scolastico. Il riferimento è qui al sentimento dell’appartenenza, che matura dalla capacità dell’essere umano di sperimentare molteplici forme di relazione con l’altro da sé in un ambiente che deve prima imparare a conoscere e a padroneggiare.

La conquista dell’ambiente, che di per sé è scambio relazionale, è dunque necessaria per costruire l’identità personale dell’essere umano e questa conquista ha inizio nella primissima infanzia, quando per la prima volta si manifesta il periodo sensitivo dell’ordine, da intendersi come bisogno di orientamento e di continuità con l’ambiente esterno, ovvero come bisogno di “legami”.

Con la comparsa di questo periodo sensitivo prende avvio il processo di “normalizzazione”, montessorianamente inteso come progressivo passaggio da una conquista inconsapevole degli stimoli ambientali, propria della “mente assorbente”, a una formalizzazione logica di queste informazioni, interiorizzate in modo disorganizzato e disorganico.

Il passaggio dalla mente “inconscia” alla mente “conscia” può essere agevolato – precisava la Montessori – dall’organizzazione sistematica dell’ambiente di apprendimento e dall’utilizzo di materiali adeguati ai primi piani dello sviluppo umano. L’utilizzo di specifici materiali strutturati in un ambiente scientificamente organizzato per rispettare i tempi di sviluppo di ogni studente risponde alla necessità di creare, fin dalla primissima infanzia, un contesto scolastico “democratico”, capace di promuovere il libero apprendimento di tutti, ognuno sulla base delle potenzialità individuali e a partire dalle stesse opportunità formative. La grande conseguenza di questa intuizione, andando a ritroso nella ricostruzione storica degli eventi, fu una precisa scelta metodologica che indusse la Montessori a progettare le “Case dei Bambini”, luoghi di apprendimento per tutte le età, da quella prescolastica all’età adolescenziale, e a predisporre al loro interno oggetti e materiali utilizzabili dai bambini in modo autonomo, capaci di favorire le scelte personali dei bambini e di rispondere alle motivazioni individuali ponendo al centro del processo educativo i loro interessi e la loro spontanea manifestazione.

La libera scelta del materiale da utilizzare, accanto alla possibilità, che il materiale offre, di controllare autonomamente eventuali errori nell’esecuzione del compito, contribuisce a formare uno spirito democratico nei bambini, che imparano a controllare e a gestire la propria competitività a favore di molteplici occasioni di mutuo aiuto e apprendimento tra pari. Quest’ultimo è a sua volta favorito dall’assenza, nelle scuole Montessori, di più campioni dello stesso materiale. Ciò significa che i bambini non possono scegliere di lavorare contemporaneamente con lo stesso materiale – situazione che, laddove fosse possibile, probabilmente accentuerebbe il rischio di competitività non sempre costruttiva tra gli studenti – perché di ogni oggetto esiste solo un prototipo che verrà scelto dai bambini sulla base degli interessi personali e dei livelli di competenza conseguiti.

Quale il ruolo dell’educatore in contesti scolastici che si pongono tra i loro principali scopi l’educazione alla democrazia attraverso la formazione, negli studenti, di un comportamento autonomo e responsabile, ma soprattutto collaborativo?

Le competenze che si richiedono al docente montessoriano, a prescindere dal grado di scuola in cui presta il suo servizio, sono soprattutto organizzative, poiché per rendere gli studenti unici protagonisti del processo di apprendimento occorre revisionare l’ambiente e adattarlo ai loro ritmi cognitivi e ai loro bisogni psichici. A chiarire il ruolo del nuovo profilo docente è stata la stessa Montessori, che in numerose occasioni ha voluto precisare la centralità e l’indispensabilità di questa figura professionale, soprattutto nella prima infanzia, periodo nel quale il docente ha il compito di mediare tra i bambini e l’ambiente: “stimolare la vita, lasciandola però libera di svilupparsi, ecco il primo dovere dell’educatore […]. L’opera dell’educazione è divisa tra maestra e ambiente […]. La maestra tuttavia ha molte e non facili mansioni: la sua cooperazione è tutt’altro che esclusa: ma diventa prudente, delicata e multiforme. Non abbisognano le sue parole, la sua energia, la sua severità, ma quel che occorre è la sapienza oculata nell’osservare, nel servire, nell’accorrere o nel ritirarsi, nel parlare o nel tacere, secondo i casi e i bisogni. Essa deve acquisire un’agilità morale, che finora non le fu chiesta da nessun altro metodo, fatta di calma, di pazienza, di carità e di umiltà. La virtù e non le parole sono la sua massima preparazione” (2009d, pp. 123-165).

Al centro del modello pedagogico e didattico montessoriano vi è soprattutto lo studente, poi il docente. Uno studente che apprende autonomamente, con il supporto, nella prima infanzia, di un materiale scientifico opportunamente pensato e progettato per rappresentare la realtà che lo stesso imparerà a conoscere direttamente in età adolescenziale, e un docente che media questo rapporto con l’ambiente attendendo pazientemente la manifestazione spontanea delle attività cognitive e psico-sociali dello studente.

Il principio secondo cui l’adulto non deve diventare un ostacolo nel processo di crescita del bambino e del ragazzo viene chiarito in tutti i suoi scritti, a partire da Il bambino in famiglia (Montessori, 1923), che si concentra proprio sulla necessità, per l’adulto, di liberarsi di pregiudizi che lo inducono a vedere nel bambino un essere umano dipendente dagli altri e assolutamente incapace di un agire autonomo. Questa incomprensione crea progressivamente nel bambino uno “spirito di distruzione” – come la stessa Montessori lo definiva – che lo induce a non avere fiducia nelle proprie potenzialità e a reagire a questa difficoltà dello sviluppo con pianti e regressioni che vengono solitamente fraintesi dall’adulto e quindi ulteriormente soffocati, a danno di una corretta espansione intellettuale e morale della sua personalità.

“Quasi tutta l’azione cosiddetta educativa è pervasa dal concetto di provocare un adattamento diretto, e perciò violento, del bambino al mondo adulto: adattamento basato sopra una sottomissione indiscutibile e un’obbedienza illimitata, e che conduce alla negazione della personalità infantile” (Montessori, 2010, p. 9).

Sarà proprio questa nuova veste scientifica, dettata dalla capacità dell’educatore di “stare dietro le quinte” e di adattarsi a una flessibilità dei tempi di apprendimento, a fargli maturare l’atteggiamento paziente che lo guiderà verso il raggiungimento di nuovi obiettivi: l’osservazione del libero espandersi della personalità umana, la sospensione del giudizio, la capacità del “non intervento”, l’abilità a sostenere i bambini e i ragazzi nelle scelte e a orientarli senza ostacolare la loro volontà di abitare spazi e tempi di apprendimento autonomo.[2]

Questo anche lo scopo della “buona” scuola, che potrebbe trarre vantaggio dall’utilizzo di pratiche montessoriane e di approcci pedagogici centrati sul protagonismo degli studenti e sulla libera manifestazione del loro potenziale creativo e del loro sviluppo sociale, che in quanto “libero” non può essere in alcun modo “premiato” né “punito”.

 

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[1] Il primo volume citato raccoglie le conferenze tenute a Londra da Maria Montessori nel 1939 e pubblicate nello stesso anno in lingua inglese, con il titolo The Erdkinder. A scheme for a reform of secondary education. Il suddetto testo, che presenta un’introduzione di Mario Montessori, costituisce l’appendice dell’opera Dall’infanzia all’adolescenza, pubblicata prima in francese, poi in italiano. La prima pubblicazione in lingua italiana del testo The Erkinder è apparsa nel 1957 sulla rivista “Vita dell’Infanzia”.

[2] Oltre alla predisposizione dei materiali di sviluppo e dei materiali per le attività di vita pratica, che vengono solitamente svolte in piccoli gruppi di lavoro, l’ambiente scolastico montessoriano è costituito da tempi e spazi di lavoro individualizzati, dove volutamente scompaiono la cattedra del docente e i banchi in forma rettangolare per fare posto a tavoli circolari che si fanno garanti del protagonismo degli studenti. La specificità di questa scelta è legata alla volontà di consentire agli studenti di lavorare liberamente in piccoli gruppi, pur rimanendo concentrati ciascuno sul proprio compito, piuttosto che avviare occasioni di confronto.

 

 




Autore per la corrispondenza

Barbara De Serio
Indirizzo e-mail: barbara.deserio@unifg.it
Dipartimento di Studi Umanistici, Via Arpi, 155, 71100 Foggia


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