Il costrutto di ostacolo epistemologico per un’interpretazione in chiave didattica del rapporto fra conoscenza ingenua e conoscenza formale in fisica
The construct of epistemological obstacle for an interpretation in a didactic way of the relationship between naive knowledge and formal knowledge in physics
Monica Tombolato
Dottore di ricerca
Sommario
L’influenza delle concezioni ingenue sull’apprendimento formale della fisica, al centro dell’interesse di numerosi ricercatori nel campo dell'apprendimento e dell'istruzione già a partire dagli anni ’70, impone di affrontare la trasmissione del sapere scientifico alla luce delle conoscenze informali che gli studenti derivano dall’interazione con l’ambiente naturale e culturale. Alle difficoltà connesse a questa complessa problematica i teorici del cambiamento concettuale hanno tentato di fornire una soluzione focalizzando l’attenzione sulle rappresentazioni mentali dei discenti. Obiettivo del presente lavoro è mostrare come questi contributi – fondamentali ma parziali in quanto esclusivamente connotati dal punto di vista del soggetto – possano essere ricompresi, guadagnando così una maggiore pertinenza sul piano dell’insegnamento, all’interno del costrutto didattico di ostacolo epistemologico, di cui si è proposta una rivisitazione basata sull’integrazione tra la prospettiva di Bachelard e quella di Brousseau.
Parole chiave
Fisica ingenua, ostacolo epistemologico, trasposizione didattica.
Abstract
The influence of naive conceptions on students’ formal learning of physics, being the focus of many researchers in the field of learning and education since the 70s, requires addressing the transmission of scientific knowledge in the light of commonsense knowledge acquired through interaction with the natural and cultural environment. In the attempt to provide a solution to the difficulties raised by this complex issue, conceptual change theorists pay specific attention to students’ mental representations. The aim of this work is to show how these contributions – fundamental but partial because exclusively focused on the Subject – can be included within the construct of epistemological obstacle. For this purpose it has been proposed a reassessment of the original concept of epistemological obstacle based on the integration of Bachelard’s and Brousseau’s perspectives, in order to let this construct gain more relevance from a didactical point of view.
Keywords
Naive physics, epistemological obstacle, didactic transposition.
Il ruolo delle teorie ingenue nell’apprendimento della fisica
Il rapporto tra la cosiddetta naive physic (Smith e Casati, 1994) – ovvero le credenze di senso comune che le persone detengono circa il modo in cui funziona il mondo – e la fisica come sapere istituzionalizzato si presenta come un complesso intreccio di problemi che, per quanto ampiamente indagati – con metodologie e per scopi differenti – da studiosi[1] di varie discipline, rimangono per la maggior parte tuttora aperti. Il tema dell’influenza delle concezioni ingenue sugli apprendimenti formali degli allievi, al centro dell’interesse di numerosi ricercatori nel campo dell'apprendimento e dell'istruzione già a partire dagli anni ’70 (si veda, ad esempio Shanon, 1976; Viennot, 1978; McCloskey, 1983; Bozzi, 1958), impone di riconsiderare il problema della trasmissione del sapere scientifico alla luce delle conoscenze informali che gli studenti derivano dall’interazione con l’ambiente naturale e culturale.
Tra i primi a farsi latore di questo messaggio è Howard Gardner (2005) che, nell’ormai classico Educare al comprendere, sottolinea come la metafora della tabula rasa di matrice lockiana mal si accordi con la situazione reale degli alunni a cui si rivolge l’intervento didattico, denunciando la poca attenzione che la pedagogia tradizionale riserva all’influenza degli stereotipi infantili sulla qualità dei processi di insegnamento-apprendimento. Supportato dai risultati della ricerca empirica, Gardner offre un’interessante chiave di lettura con cui interpretare le difficoltà incontrate dai discenti nell’acquisizione di competenze in ambito scientifico: le “teorie” intuitive ma funzionali che costellano la loro mente fin dall’infanzia, ovvero un insieme di credenze organizzate che, se inizialmente rappresentano degli strumenti utili per conferire, almeno temporaneamente, un senso ai fenomeni del mondo, finiscono troppo spesso per cristallizzarsi in schemi mentali inamovibili resistenti alla scolarizzazione, schemi che riemergono con tutta la loro forza sia durante che al termine di interi cicli di istruzione (Gardner, 2005, cap. 5).
All’inizio del percorso scolastico, quindi, gli studenti si trovano già da tempo immersi in un sistema di conoscenze, perlopiù implicite, che, costituendo lo sfondo del loro agire irriflessivo, fungono da filtro e/o da lente deformante rispetto a quanto di nuovo viene loro insegnato.[2] E questo, sottolinea Gardner, non si verifica solo sporadicamente e soprattutto non è necessariamente imputabile alla scarsa preparazione dell’alunno. Un’ampia mole di studi empirici, condotti su studenti di diverso ordine e grado, attesta infatti come anche allievi brillanti con un’apparente padronanza della disciplina – specialmente se posti nella condizione di affrontare un problema in un contesto non scolastico – non siano esenti dal ricadere in queste concezioni ingenue che, lungi dall’essere state soppiantate dalle loro controparti formali, sembrano invece convivere al loro fianco per riaffiorare alla prima difficoltà. Di qui la necessità non tanto – o almeno non solo – di un ampliamento delle concezioni preesistenti, da arricchire mediante ulteriori informazioni con esse congruenti, quanto piuttosto di una ristrutturazione radicale delle conoscenze disponibili nella memoria a lungo termine, poiché incompatibili con quanto di nuovo deve essere incorporato e integrato nei propri sistemi concettuali.[3] Si parla a questo proposito di conceptual change, costrutto formulato a partire da una concezione dell’apprendimento come attività costruttiva e intenzionale,[4] e diffusamente impiegato negli studi sulla natura e sullo sviluppo di rappresentazioni cognitive complesse.
La risposta psicopedagogica: genesi del costrutto del cambiamento concettuale
Approfondito in maniera relativamente autonoma sia nel campo della psicologia dello sviluppo che in quello dell’educazione scientifica, l'approccio del cambiamento concettuale, in continuità con l’impostazione piagetiana, assume come focus di analisi le strutture mentali dei discenti, concependole, tuttavia, non come costituite da operazioni logiche bensì come reticoli di concetti e credenze interrelati (Berti, 2002).
In ambito evolutivo l’espressione conceptual change viene introdotta dalla psicologa americana Susan Carey (1985) con l’obiettivo precipuo di proporre una visione dello sviluppo cognitivo in grado di superare i limiti che, a partire dalla seconda metà degli anni ’70, erano stati imputati alla teoria stadiale piagetiana. Alla concezione dominio-generale dello sviluppo difesa dallo psicologo ginevrino, Carey oppone l’idea che le strutture cognitive e i loro cambiamenti siano dominio-specifici, ponendo l’accento sui contenuti di pensiero anziché sulla sua forma. Secondo la studiosa, l’evoluzione cognitiva dei bambini attraverso l’emergere di teorie nuove da teorie preesistenti è, infatti, il risultato non dello sviluppo di operazioni intellettuali indipendenti dal contesto, ma di due differenti tipi di ristrutturazioni specifiche – definite rispettivamente debole e forte[5] – all’interno di un settore circoscritto.
Nel campo dell’educazione scientifica, l’espressione “cambiamento concettuale” è invece legata al quadro teorico sviluppato da un gruppo di ricercatori dell'Università di Cornell, i quali, insoddisfatti della visione empiristica della conoscenza ma al contempo consci delle criticità dell’epistemologia piagetiana, concordano anch’essi sulla necessità di prestare maggiore attenzione ai contenuti delle rappresentazioni intuitive dei fenomeni naturali elaborate dai discenti, ritenendole uno scoglio importante per l’apprendimento delle scienze (Strike e Posner, 1982). Avanzando un parallelismo tra studenti e scienziati, Posner e colleghi (Posner et al., 1982) si rivolgono così alla filosofia e alla storia della scienza – nello specifico all’opera di Thomas Kuhn sulle rivoluzioni scientifiche (1999) – per ricavare suggerimenti su come approntare interventi d’istruzione capaci di incentivare la revisione delle concezioni ingenue sulla realtà fisica, per certi aspetti paragonabili alle teorie scientifiche accreditate prima della svolta galileiana.[6] In particolare, all’interno di questa prospettiva è stata evocata un'analogia tra i concetti piagetiani di assimilazione e accomodamento e i concetti di “scienza normale” e “rivoluzione scientifica” – impiegati da Kuhn per spiegare l’avvicendamento delle teorie nella storia della scienza –, con l’obiettivo di fornire indicazioni sui fattori che ostacolano la ristrutturazione delle proprie conoscenze informali e sulle azioni didattiche che possono invece promuoverla.
Basandosi sul duplice assunto della natura non cumulativa del sapere scientifico e delle misconcezioni come insiemi di credenze sistematicamente interconnesse, il modello proposto da Posner e colleghi – divenuto ormai un “classico” della ricerca in questo campo – stabilisce quattro condizioni fondamentali[7] sottostanti alla revisione di conoscenze e riconosce nel conflitto cognitivo[8] la strategia didattica più efficace per indurre il cambiamento concettuale, inteso kuhnianamente come mutamento gestaltico all’interno di un breve arco temporale. Assunto per anni come autorevole fonte d’ispirazione nell’ambito dell’educazione scientifica, tale modello non ha tuttavia ottenuto piena validazione sul piano empirico, divenendo così oggetto di numerose critiche (Vosniadou, 1999, p. 4; Vosniadou, 2008b, p. XV) che hanno incentivato il proliferare di modelli alternativi. In particolare, l’ipotesi che il cambiamento concettuale sia un tipo di apprendimento per insight, con il conseguente impiego del conflitto concettuale come strategia didattica per favorire una ristrutturazione immediata e improvvisa del campo cognitivo, si è rivelata priva di fondamento. Da numerose ricerche è emerso infatti come difficilmente le acquisizioni scolastiche riescano a modificare l’ottica con cui i discenti guardano i fenomeni fisici. Nonostante imparino a padroneggiare il vocabolario scientifico e a rispondere “correttamente” ai quesiti dell'insegnante, al di fuori del contesto d'aula la nuova conoscenza – recepita dai più non come possibile chiave interpretativa della realtà ma come un insieme di nozioni spesso controintuitive da giustapporre alle comuni conoscenze – rimane “inerte”, incapace cioè di connettersi alla vita reale, non essendo prontamente disponibile all’applicazione o al trasferimento a nuove situazioni (Gardner, 2005, pp. 160-161; Vosniadou, 2003, pp. 394-403).
L’influenza dei saperi ingenui sull’apprendimento delle conoscenze formali rappresenta un consolidato e fertile terreno di ricerca anche per i lavori di matrice didattico-disciplinare (Martini, 2000), i quali collocano questo fenomeno all’interno del sistema didattico (Martini, 2000, cap. 2) – inteso come schema concettuale costituito dall’insieme delle relazioni insegnante-allievo-sapere – e individuano nel costrutto di “ostacolo epistemologico” un dispositivo per interpretare le difficoltà incontrate dagli studenti – ma prima ancora dagli stessi fondatori della fisica classica – nel ricondurre la realtà sensibile ai modelli della meccanica newtoniana ovvero nel costruire – per esprimerci con Sellars – l’immagine scientifica della realtà a partire dalla sua immagine manifesta (Sellars, 2013).
Ma prima di approfondire il discorso lungo questa direzione, e per meglio chiarire le motivazioni che ci spingono a individuare nel problematicismo didattico (Frabboni, 2012, cap. 3) una cornice di riferimento particolarmente consona a un tema così complesso, prendiamo rapidamente in esame le posizioni di alcuni teorici i quali, nel tentativo di arginare i limiti del costrutto teorizzato da Posner e colleghi, sollevano – in maniera più o meno esplicita – un problema, quello dei rapporti tra scienza ed esperienza, di cui la didattica deve necessariamente farsi carico. Per quanto complessi e vari siano i motivi che rendono le concezioni intuitive degli studenti impenetrabili all’insegnamento scientifico, almeno uno, infatti, è di un’evidenza difficilmente questionabile: la realtà di cui si occupa la fisica scolastica appare affatto diversa da quella che quotidianamente cade sotto i nostri sensi. I piani inclinati senza attrito, i corpi perfettamente rigidi, i punti materiali inestesi ma dotati di massa, per non parlare delle leggi newtoniane del moto, hanno davvero ben poco in comune con la realtà percepita.
Nuove varianti al modello classico: il ruolo dei pre-giudizi epistemologici e ontologici
Assumendo questa problematica come filo conduttore segnaliamo, tra le risposte più accreditate alle criticità emerse nel modello classico del cambiamento concettuale, il contributo della psicologa Stella Vosniadou la quale, a partire da ricerche sistematiche condotte nel dominio dell'astronomia elementare e della meccanica, avanza l’ipotesi che la conoscenza intuitiva si articoli in modelli mentali, teorie specifiche e teorie cornice (Vosniadou, 1994; 2008b). I primi, generati dal soggetto per risolvere problemi, spiegare e/o prevedere fenomeni del mondo naturale, sono basati su teorie specifiche – concernenti le proprietà e il comportamento di oggetti fisici –, a loro volta vincolate da teorie cornice caratterizzate da presupposizioni di ordine ontologico ed epistemologico, in merito alle entità esistenti e alla natura della conoscenza.[9]
All’interno del quadro esplicativo proposto da Vosniadou e Brewer (1992), il sorgere di misconcezioni (modelli sintetici) può dunque essere ricondotto al tentativo, da parte degli studenti, di incorporare le nuove informazioni acquisite a scuola nelle teorie cornice preesistenti. A ostacolare il cambiamento concettuale – inteso qui come l’esito di un lento e complesso processo socio-cognitivo di ristrutturazione della teoria cornice iniziale – sarebbe dunque, secondo la psicologa, proprio la difficoltà di modificare assunzioni ontologiche ed epistemologiche radicate da tempo, assunzioni continuamente confermate e rafforzate dall’esperienza, di cui i discenti non hanno alcuna cognizione. Ne consegue una prima importante differenza tra esperti e novizi: l’utilizzo inconsapevole, da parte di questi ultimi, di un quadro esplicativo fondato su presupposti ontologici ed epistemologici affatto diversi dai principi e dalle leggi della fisica.[10]
Ad avallare questa ipotesi concorrono i lavori di psicologia della percezione di Paolo Bozzi sui quali riteniamo pertanto opportuno aprire una breve parentesi. Mettendo in evidenza come il sistema visivo legga certi tipi di movimento (Bozzi, 1990)[11] in accordo con le leggi aristoteliche e non con quelle galileiane, gli esperimenti messi a punto dal percettologo mostrano inequivocabilmente che, per quanto la fisica moderna abbia rivoluzionato il nostro modo di concettualizzare il mondo, noi tutti continuiamo a percepirlo come lo ha rappresentato Aristotele.[12] Nel suo pionieristico lavoro all’interno del grande dominio dell’analisi dei saperi ingenui,[13] Bozzi riconduce le conoscenze intuitive delle leggi della meccanica a regolarità direttamente colte sul piano percettivo e precisamente sul piano visivo, ed è proprio in virtù di questa operazione essenziale – come la definisce Giovanni Piana (1990) – che si giustifica il nostro interesse sul piano didattico. Sostenendo come alla radice delle conoscenze cosiddette ingenue sul mondo naturale siano operanti precisi vincoli percettivi (Legrenzi, 2007)[14] che sfuggono alla nostra consapevolezza e conseguentemente al nostro controllo, lo psicologo fornisce infatti una convincente chiave di lettura del perché le teorie specifiche e le teorie cornice di cui, secondo Vosniadou, consta la naive physics siano così pervicaci e quindi difficili da mutare.
D’altronde, che le credenze di senso comune non siano tutte ugualmente forti e radicate lo confermano anche gli studi sul cambiamento concettuale nel campo dell’economia condotti da Anna Emilia Berti (1999), seguendo il modello di Vosniadou. La psicologa sottolinea, infatti, come le concezioni nel campo della fisica siano molto più difficili da modificare rispetto a quelle in ambito economico – dove la revisione della conoscenza iniziale può avvenire in un tempo relativamente più breve – e ciò potrebbe trovare una plausibile spiegazione proprio nel fatto che le prime si legano a doppio filo alle leggi d’organizzazione della realtà fenomenica.[15] Le ricerche condotte da Bozzi sul rapporto tra fenomenologia della percezione e storia della fisica guadagnano dunque pertinenza rispetto al problema in esame, in quanto esplicitano l’implicito – la coercitività del dato percettivo rispetto a una qualsivoglia costruzione teorica – sotteso al modello elaborato da Vosniadou, ma che permane sullo sfondo anche dell’interpretazione del cambiamento concettuale avanzata da Michelene Chi e colleghi (Chi, Slotta e de Leeuw, 1994).
Sulla base delle rivoluzioni concettuali discusse da storici e filosofi della scienza nonché della nutrita letteratura sulle concezioni ingenue presenti a diversi livelli scolari, gli studiosi propongono, come causa delle misconcezioni nel dominio della fisica, l’attribuzione dei concetti a categorie ontologiche errate. Identificate tre categorie basilari della realtà – sostanze materiali, processi e stati mentali –, caratterizzate a loro volta da sottocategorie definite da specifici attributi, il modello proposto da Chi e colleghi distingue tra un cambiamento concettuale all’interno di una stessa categoria ontologica e uno attraverso categorie differenti, che è poi quello necessario alla comprensione dei concetti fisici. Anche in questo caso, la complessità di un tale tipo di cambiamento risiede nel fatto che la riassegnazione di un concetto a una categoria ontologica diversa da quella in cui era stato inizialmente collocato implica, come nel caso precedente, un profondo mutamento del sostrato originario di credenze ontologiche ed epistemologiche, credenze la cui influenza sul processo di ristrutturazione concettuale è peraltro confermata anche dagli studi di Chinn e Brewer (1993) sulle reazioni ai dati anomali.[16] Condizione di possibilità di un mutamento così radicale, sostiene Vosniadou (2003, pp. 401-404), è possedere consapevolezza metaconcettuale, che tradotto operativamente significa essere in grado di riconoscere la natura ipoetica delle proprie concezioni, nonché la possibilità di un loro eventuale cambiamento in relazione a questioni di adeguatezza esplicativa. Non solo. A distinguere gli esperti dai novizi, sempre secondo la psicologa, sarebbe anche una maggiore flessibilità cognitiva, ovvero la capacità di assumere prospettive e punti di vista di volta in volta adeguati ai diversi contesti. Gli esperti, infatti, non abbandonano le teorie di senso comune ma, contrariamente agli studenti, sono in grado di differenziarle metacognitivamente dalle teorie scientifiche (Vosniadou, 2003, pp. 402-403).[17]
Del medesimo avviso alcuni studiosi, tra cui Caravita e Halldén (1994), i quali, al di là delle differenze specifiche, condividono un’interpretazione del cambiamento concettuale come ampliamento del repertorio di modi alternativi di rappresentazione della realtà, funzionali a diversi contesti. In opposizione al modello classico, anche Pozo (Pozo, Gomez e Sanza, 1999) e Spada (1994) sostengono che il costituirsi dell’habitus mentale dello scienziato non richiede necessariamente la rimozione di qualsiasi forma di sapere ingenuo – spesso utile in situazioni di vita quotidiana – bensì la consapevolezza della distinzione tra rappresentazioni scientifiche e rappresentazioni fenomeniche, delle loro reciproche relazioni nonché della possibilità di utilizzare le une o le altre, a seconda delle circostanze. Al variare della prospettiva teorica varia così anche l’obiettivo dell’istruzione scientifica, ora calibrato non più sulla dicotomia vero/falso – espressione di un’epistemologia ingenua[18] – ma sulla possibilità di gestire “rappresentazioni multiple” in modo efficace e consapevole (Vosniadou, 2003, pp. 402-403).
In sintesi possiamo dunque affermare che, riconosciuto il decisivo ruolo dei pre-giudizi ontologici ed epistemologici all’interno nella competizione dialettica tra teorie ingenue e teorie formali, Vosniadou, supportata dai contributi di altri studiosi, individua nella consapevolezza metaconcettuale, nella flessibilità cognitiva e nell’acquisizione di una visione epistemologica matura i principali traguardi a cui un’educazione scientifica dovrebbe guardare. Sul piano didattico-operativo si apre quindi il problema di identificare le modalità più adatte a promuovere nei discenti la capacità di comprendere come a diversi livelli di realtà corrispondano propri “fatti”, proprie “teorie”, proprie “regole” (Vicentini e Mayer, 1996, p. 34), nonché di scegliere di volta in volta quali concetti e quali strategie per la risoluzione di problemi siano appropriati nelle varie situazioni,[19] favorendo al contempo lo sviluppo di epistemologie scientifiche più sofisticate.
La risposta didattico-disciplinare: la teoria della trasposizione didattica
Conclusa questa breve disamina – certamente non esaustiva ma comunque rappresentativa di almeno alcune delle posizioni più accreditate sul cambiamento concettuale[20] – intendiamo ora riorientare l’attenzione dalle strutture mentali dei discenti al carattere sistemico della relazione di insegnamento-apprendimento, vagliando, rispetto all’analisi del problema preso in esame, la pertinenza e la fertilità degli strumenti concettuali offerti dalle didattiche disciplinari e fornendone, ove necessario, anche una parziale rilettura. Questa scelta risponde a due ordini di motivazioni distinte ma interdipendenti: la prima è strettamente connessa all’istanza mossa da alcuni teorici del cambiamento concettuale d’implementare nel curricolo scolastico temi che generalmente ne sono esclusi quali l’epistemologia e l’ontologia; la seconda, invece, riposa sulla convinzione che un’efficace trasposizione didattica, epistemologicamente e pedagogicamente fondata, presupponga la conoscenza degli ostacoli epistemologici che hanno segnato la genesi e l’evoluzione della fisica, al fine di orientare l’analisi disciplinare quale dispositivo metodologico di progettazione curricolare.[21]
Per quanto concerne il primo punto, se a fronte di quanto emerso l’esigenza espressa è pienamente condivisibile, si tratta tuttavia di stabilire come una tale opzione sia effettivamente traducibile nella pratica. Altrimenti detto, come integrare questioni epistemologiche e ontologiche nel curricolo scolastico in modo tale che non appaiano completamente avulse dagli altri contenuti d’insegnamento? Che la risposta a questo interrogativo non possa provenire unilateralmente dagli studi sul cambiamento concettuale ci è chiaro a partire dagli anni ’80 (Martini, 2011b), quando ha inizio il lento e graduale processo di emancipazione della ricerca didattica dal paradigma applicazionista,[22] il quale, assoggettando l’azione didattica unicamente alle teorie dell’apprendimento, finisce per destituire il sapere del suo potere formativo. La soluzione che proponiamo si deve invece a un disciplinarista francese della matematica, Ives Chevallard, il quale, nel tentativo di arginare i limiti delle prospettive psicopedagogiche, conia nel 1985 il termine “trasposizione didattica” per indicare «il lavoro che di un oggetto del sapere da insegnare fa un oggetto di insegnamento» (Chevallard, 1985, p. 39).[23] Riconosciuto oggi come uno dei costrutti portanti delle Didattiche disciplinari, la nozione di trasposizione didattica concerne la possibilità di stabilire relazioni opportune tra sapere esperto (savoir savant), sapere da insegnare (savoir à enseigner) e sapere insegnato (savoir enseigné), alludendo metaforicamente – scrive Berta Martini (2005, pp. 64-65) – al «situare altrove», ovvero a uno «spostamento non rettilineo», in conseguenza del quale il sapere «cambia» alcune caratteristiche o, appunto, la sua «forma».
Caratterizzati da un forte focus sul soggetto, gli studi sul cambiamento concettuale, per quanto forieri di significativi e preziosi risultati circa la struttura delle rappresentazioni mentali dei discenti, trascurano tuttavia il ruolo fondamentale che, all’interno del processo di insegnamento-apprendimento, gioca la distinzione tra forme scientifiche e forme didattiche dei saperi nonché l’indagine delle loro reciproche relazioni. Ed è proprio questa lacuna che il processo traspositivo si propone di colmare richiamando l’attenzione sulla necessità d’interrogarsi continuamente in merito al lavoro di adattamento e di trasformazione del sapere esperto in oggetto di insegnamento, in funzione del luogo, degli scopi e dei destinatari della trasmissione, che è poi anche un modo per riflettere sulla scienza e sui suoi risultati, troppo spesso ridotti a un insieme di abilità tecniche da spendere sul piano professionale. Muovendoci all’interno della teoria della trasposizione didattica possiamo dunque rispondere all’istanza sollevata dai teorici del cambiamento concettuale non implementando il curricolo con nuovi contenuti, ma guardando ad essi secondo una diversa angolatura prospettica che, attraverso un’analisi in chiave epistemologica della disciplina, sappia ricavare le condizioni pedagogiche per il suo apprendimento.
La risposta didattico-disciplinare: il costrutto di ostacolo epistemologico
Operare una trasposizione fondata sia in senso epistemologico, sia in senso pedagogico (Martini, 2006) è un compito ampio e complesso e richiede, tra le altre cose, piena padronanza, da parte di coloro che se ne devono assumere l’onere, degli scogli teorici e concettuali disseminati lungo il percorso che conduce dall’intuitiva Weltanschauung aristotelica al paradigma epistemico – di gran lunga meno intuitivo – inaugurato da Galileo e Newton. A questo riguardo ci permettiamo una breve digressione sull’origine e sull’evoluzione del costrutto di ostacolo epistemologico, la cui introduzione in ambito didattico si deve, anche in questo caso, a un disciplinarista francese, Guy Brousseau, il quale, ispirandosi all’opera dell’epistemologo Gaston Bachelard, costruisce una teoria degli ostacoli che si frappongono all’apprendimento della matematica. Poiché la trasposizione dal piano dell’epistemologia a quello della didattica ha comportato uno slittamento concettuale, con uno spostamento dall’originaria centratura sul soggetto e sul sottofondo psicologico delle procedure conoscitive, alla centratura sul sapere e sulla complessità formale delle sue strutture, riteniamo necessario riprendere brevemente le posizioni dei due studiosi per poi tentarne una sintesi e una riarticolazione capaci di rendere tale costrutto un dispositivo interpretativo paradigmatico.
Di ostacolo, concepito come una resistenza interna all’atto stesso del conoscere, Bachelard parla a proposito del progresso discontinuo della ragione scientifica che non procede linearmente, ma per brusche rotture con la conoscenza pregressa costituitasi nel corso della vita quotidiana. Sposando una concezione dinamica della scienza, il filosofo francese si esprime in questi termini:
Quando si ricercano le condizioni epistemologiche dei progressi della scienza, ci si convince ben presto che è in termini di ostacoli che bisogna porre il problema della conoscenza scientifica. E non si tratta di considerare ostacoli esterni, come la complessità e la fugacità dei fenomeni, oppure d’incolpare la debolezza dei sensi e dello spirito umano, perché è all’interno dell’atto stesso del conoscere che, per una specie di necessità funzionale, appaiono lentezze e confusioni. È qui che mostreremo alcune cause di stagnazione e persino di regresso della scienza, qui ne rileveremo le cause di inerzia; e tutte queste cause le chiameremo ostacoli epistemologici. […] Tornando su un passato di errori, la verità la si trova in un vero e proprio pentimento intellettuale. Si conosce, infatti, contro una conoscenza anteriore, distruggendo conoscenze mal fatte, superando quello che nello spirito stesso fa da ostacolo alla spiritualizzazione. (Bacherlard, 1995, p. 11)
Se dunque per Bachelard l’ostacolo risiede nel pensiero, nella limitatezza della mente umana che, intrisa di pregiudizi, si attarda nella conoscenza di senso comune opponendo resistenza all’avanzare delle nuove concezioni e dei nuovi modi di vedere, per Brousseau, al contrario, si lega alla natura intrinseca del sapere, all’impossibilità di comunicarlo immediatamente nella sua generalità, ampiezza e complessità (Martini, 2000, pp. 95-96). D’altronde il sapere non sorge tutto in una volta, ma la sua genesi e il suo sviluppo sono connessi al succedersi di difficoltà che «hanno fatto scaturire i problemi fondamentali», al rifiuto di «alcune idee trovate errate o maldestre» e alle «innumerevoli discussioni al loro riguardo», in una parola a quella storia che la «presentazione “classica” del sapere» tende a cancellare, celando così il «vero modo di procedere della scienza, impossibile da comunicarsi e descriversi fedelmente dall’esterno» (Brousseau, 1995, p. 20).[24]
Ora, se vogliamo operare una sintesi di queste due prospettive, considerandole eterogenee ma complementari rispetto all’elaborazione di un costrutto teorico capace di stringere in un unico nodo l’epistemologia descrittiva di ascendenza bachelardiana – che riconosce la natura endogena degli ostacoli ovvero il loro essere radicati nelle strutture di pensiero, aprendo così la riflessione alla dimensione psicologica della dinamica della scienza (Martini, 2005, p. 22) –e la funzione normativa del sapere a cui rinvia Brousseau nello spostare l’attenzione dai limiti psichici del soggetto conoscente allo statuto epistemologico dei concetti e alla loro intrinseca complessità,[25] dobbiamo innanzitutto giustificare la parzialità di entrambe le posizioni alla luce del carattere relazionale della conoscenza. Poiché il processo conoscitivo prevede costitutivamente la relazione tra un soggetto conoscente e un oggetto conosciuto, allora un dispositivo per l’interpretazione di ciò che avviene all’interno del sistema didattico a proposito della costruzione della conoscenza in relazione alle forme istituzionalizzate dei saperi dovrebbe poter essere declinato sia in senso soggettivo sia in senso oggettivo. Questo duplice compito può considerarsi assolto se si assume come un ostacolo oggettivo – ovvero intrinseco al sapere – possa annunciarsi sul piano soggettivo attraverso misconcezioni che possono essere colte descrittivamente dalla ricerca empirica. Caratterizzato in senso epistemologico, l’ostacolo può dunque alludere, sul versante del sapere, alle difficoltà generate dalla complessità dei contenuti conoscitivi, mentre, sul versante di chi apprende, alle manifestazioni soggettive di tali difficoltà oggettive. Con questo non si intende sostenere l’esistenza di un nesso di tipo deterministico-causale tra misconcezioni degli studenti e ostacoli interni al sapere, ma solamente ipotizzare un nesso correlazionale, soggetto a validazione empirica, che non implica necessariamente una corrispondenza biunivoca misconcezione – ostacolo, poiché a uno stesso ostacolo può corrispondere una fenomenologia di misconcezioni diverse, così come una stessa misconcezione può rinviare all’intreccio di più ostacoli.
Sul piano didattico, pertanto, la fertilità di tale dispositivo interpretativo si lega a doppio filo al suo porre in relazione aspetti soggettivo-descrittivi e oggettivo-normativi della conoscenza, facendo convergere verso un unico obiettivo – garantire le condizioni di possibilità dell’apprendimento – contributi provenienti da ambiti distinti.[26] Non solo. La duplice prospettiva da cui possiamo interpellarlo ne amplifica inoltre la potenza euristica: se è possibile, a partire dalle misconcezioni rilevate dalla ricerca empirica, risalire a potenziali ostacoli connaturati a una specifica disciplina, è sempre anche possibile percorrere la strada in senso inverso grazie allo studio della storia e dell’epistemologia della disciplina stessa.
In sintesi, il costrutto di ostacolo epistemologico, riferendosi alle difficoltà intrinseche al processo conoscitivo, ci permette, proprio in virtù del darsi di quest’ultimo come correlazione intenzionale soggetto-oggetto, di considerare il problema dei rapporti tra scienza ed esperienza sia sul versante del soggetto conoscente – dove si palesa attraverso un ampio ventaglio di misconcezioni della cui origine Vosniadou fornisce una plausibile spiegazione – sia sul versante dell’oggetto conosciuto, dove invece si pone nei termini dei nodi teorici propri della fisica. In questo senso esso costituisce un dispositivo ermeneutico ed euristico paradigmatico, in virtù del quale il processo traspositivo può divenire lo strumento chiave con cui rispondere alle istanze sollevate dagli studi psicopedagogici poiché consente di conciliare e integrare il momento eterocentrico – rappresentante le ragioni del sapere – con quello puerocentrico – rappresentante le ragioni di chi apprende – in linea con un’opzione teorica di matrice problematicista (Martini, 2006, p. 1).[27]
Conclusioni
Ricapitolando possiamo dire che, a partire dall’influenza delle concezioni ingenue sull’apprendimento formale della fisica messa in luce da Gardner e ampiamente esplorata dalle ricerche accomunabili sotto l’etichetta “cambiamento concettuale”, si è cercato di mostrare come questi contributi – fondamentali ma parziali in quanto esclusivamente connotati dal punto di vista del soggetto – possano essere ricompresi, guadagnando così una maggiore pertinenza sul piano dell’insegnamento, all’interno del costrutto di ostacolo epistemologico, di cui si è proposta una rivisitazione basata sull’integrazione tra la prospettiva di Bachelard e quella di Brousseau. Le ragioni di tale scelta riposano sulla convinzione che un modo efficace per affrontare in chiave didattica questo problema di natura interdisciplinare sia assumere in senso euristico le concezioni di fisica ingenua – di cui gli studi sul cambiamento concettuale offrono per l’appunto un quadro dettagliato – per intercettare, sul lato del sapere, gli ostacoli epistemologici connessi alla sua natura e alla sua evoluzione – distinti non solo per tipologia ma anche per livello logico – al fine di poterne orientare in senso pedagogico ed epistemologico la trasposizione didattica. Riconsiderato secondo questa angolatura, il modello proposto da Vosniadou e colleghi – che descrive come di fatto si originano le misconcezioni – può dunque essere interpretato come la faccia soggettiva di un problema, quello dei rapporti tra scienza ed esperienza, che sul piano normativo del sapere rinvia all’attività di modellazione caratteristica della prassi scientifica e alle difficoltà ad essa connesse.
La fisica, infatti, ha un rapporto solo mediato con i fatti dell’esperienza che intende spiegare, poiché vi si riferisce in maniera indiretta, attraverso l’utilizzo di modelli ovvero di sistemi idealizzati connessi ai sistemi reali da una relazione di somiglianza secondo aspetti e gradi specificati.[28] Con la fisica galileiano-newtoniana si apre, per dirla con Wittgenstein, un “gioco linguistico” differente da quello quotidiano, un gioco che, inaugurando prassi epistemiche di un nuovo genere rispetto alle prassi ordinarie strettamente connesse ai bisogni della vita e ai suoi orizzonti pratici, risponde a regole affatto diverse da quelle a cui ci ha abituato l’esperienza pratico-percettiva del mondo.[29] Ed è proprio da questo «sorprendente tentativo» – come l’ha definito il filosofo e storico della scienza Alexandre Koyré - «di spiegare l'essere reale con l'impossibile» (1956, p. 231) che si potrebbe partire per individuare possibili ostacoli epistemologici connessi all’attività di modellizzazione che caratterizza l’odierna fisica, al fine di favorire una sua didattica più consapevole, capace di amministrare efficacemente la trasposizione dei suoi contenuti. Questa fertile direzione di ricerca merita tuttavia un’ulteriore e più approfondita trattazione per la quale rinviamo a un lavoro futuro.
[1] Psicologi, ricercatori in didattica della fisica, pedagogisti, percettologi, studiosi di IA.
[2] A questo riguardo si rinvia inoltre a Grimellini Tomasini e Segrè, 1991, pp. VII-VIII. Di questo era convinto anche Gaston Bachelard, il quale nel 1938 precorreva i tempi denunciando, ne La formazione dello spirito scientifico, l’ingenuità dei professori di scienze colpevoli ai suoi occhi di non tenere in debito conto le conoscenze empiriche che costituiscono il bagaglio culturale degli alunni. Cfr. Bachelard, 1995, p. 17.
[3] In questo caso si intende specificamente il cambiamento concettuale indotto dall’istruzione che va distinto da quello spontaneo ottenuto grazie all’arricchimento dell’esperienza del soggetto nell’ambiente naturale e sociale. Cfr. Mason, 2007, p. 128.
[4] Il paradigma costruttivista rivendica il carattere dinamico dell’acquisizione della conoscenza, riconoscendo il ruolo attivo del soggetto. La learning theory comportamentista cede così il passo all’apprendimento inteso come processo costruttivo: si elaborano le nuove conoscenze in base a quelle preesistenti nella memoria a lungo termine, che agiscono da “filtro”, in quanto i nuovi dati vengono interpretati e non semplicemente registrati. Cfr. Mason, 2007, p. 121.
[5] La ristrutturazione debole si manifesta con un incremento delle relazioni tra i concetti – senza che mutino i loro attributi fondamentali – e il loro inserimento in schemi più complessi, mentre la ristrutturazione radicale – che Carey paragona alla nozione kuhniana di rivoluzione scientifica – implica invece la profonda revisione delle strutture concettuali preesistenti e viene propriamente indicata come cambiamento concettuale. Cfr. Mason, 2007, pp. 122-123.
[6] A questo riguardo si rinvia inoltre a Vosniadou, 2008a.
[7]In primis occorre suscitare nell’allievo una certa insoddisfazione nei confronti della concezione che si intende modificare. In secondo luogo la nuova concezione deve risultare intelligibile per il discente, in modo che possa farsene una rappresentazione coerente. La terza condizione è che la nuova teoria appaia anche plausibile, il che avviene quando è in armonia con una più vasta ecologia mentale, che, come sottolinea Anna Berti, «include una moltitudine di altri prodotti intellettuali: teorie più o meno imparentate con quella in questione, conoscenze attinenti ad altri ambiti della realtà, credenze religiose e metafisiche, convinzioni di tipo metodologico sui requisiti che una teoria o i metodi per verificarla devono soddisfare, idee generali sulla natura della conoscenza». La quarta condizione è che la nuova concezione appaia vantaggiosa, utile cioè ad affrontare problemi irrisolti e con un maggiore potere esplicativo e predittivo. Cfr. Berti, 2002, p. 23.
[8] La strategia didattica del conflitto cognitivo, muovendo dall’assunzione che la presentazione di dati anomali faciliterebbe la ristrutturazione delle conoscenze degli studenti, richiede che gli stessi vengano posti di fronte a delle prove evidenti in contraddizione con le concezioni da essi possedute. Cfr. Mason, 2007, p. 130.
[9] In particolare, sottolinea Berti, i primi modelli intuitivi – cioè basati sull’esperienza – della terra posseduti dai bambini derivano da quanto essi percepiscono e dalla sua interpretazione nel quadro di due teorie cornice. La prima assume la forma di un’ontologia, costruita grazie all’esperienza del mondo fisico accumulata fin dai primi mesi di vita, e descrive varie caratteristiche degli oggetti, tra cui quella di cadere se privati di sostegno. La seconda riguarda la conoscenza, fa parte dunque di un’epistemologia, e afferma che le cose sono così come le vediamo. Questi due tipi di presupposizioni condizionano l’interpretazione di ciò che il bambino percepisce e conducono a un modello intuitivo, secondo cui la terra è piatta e sotto di essa c’è terreno. Nel momento in cui i bambini ricevono, attraverso specifici discorsi o immagini, le informazioni sulla sfericità della terra, le interpretano alla luce delle loro presupposizioni ontologiche ed epistemologiche, formulando una serie di modelli sintetici – misconcezioni –, in cui tali informazioni vengono in vari modi travisate. L’acquisizione significativa del modello scientifico si ottiene grazie al progressivo abbandono delle teorie cornice iniziali o alla limitazione del loro ambito di validità, a cui si giunge attraverso una successione di modelli sintetici differenti. Cfr. Berti, 2002, p. 28.
[10] A questo riguardo un punto di vista interessante è fornito da Vicentini e Mayer, 1996; si vedano in particolare pp. 34-35.
[11] Si tratta degli esperimenti sul moto pendolare, sulla caduta libera e sulle traiettorie dei proiettili.
[12] A proposito della distinzione aristotelica tra moti naturali e moti violenti, Bozzi sostiene che «non è possibile dire, per esempio, che le strutture della realtà immediatamente percepita condizionano in modo rigido il nostro modo di pensare il mondo in termini di rapporti obiettivi. Le prime teorie scientifiche apparse nella storia dell'umanità dovrebbero allora essere altrettante fedeli descrizioni dell'esperienza fenomenica, mentre in effetti non lo sono. Ma è abbastanza importante sapere che, d’altra parte, non è possibile fare l'affermazione contraria: dire cioè che le concezioni scientifiche si sono sviluppate solo nella forma di sistemi logici, interferenti tra loro sul piano storico ma non influenzati dal modo con cui la realtà si presenta – spontaneamente e prima di ogni critica – davanti a noi. I casi che ho citato costituiscono già qualche punto d'appoggio per questa tesi e non è improbabile che, cercando attentamente, se ne trovino altri». Cfr. Bozzi, 1961, p. 392.
[13] Nella prospettiva di Bozzi, come sottolinea Paolo Legrenzi, la fisica ingenua sarebbe da definirsi più correttamente fisica fenomenologica. Cfr. Legrenzi, 2007, p. 3.
[14] A questo proposito l’autore puntualizza come, accanto ai vincoli di natura percettiva, ve ne siano altri di natura cognitiva, come le ricerche sperimentali sulla psicologia del pensiero hanno ampiamente dimostrato. Su questo tema si rinvia a Legrenzi e Mazzocco, 1973.
[15] Secondo Bozzi, «tali leggi ci devono essere, perché il mondo in ogni momento constatato intorno a noi non è, evidentemente, un caos di sensazioni». Cfr. Bozzi, 1961, p. 381.
[16] Con l’espressione “dati anomali” s’intendono delle informazioni contrastanti con le proprie conoscenze pregresse su uno specifico argomento. Cfr. Mason, 2013, p. 137.
[17] Come rileva Berti, gli scienziati sono soliti usare espressioni quali, ad esempio, il “sorgere” e il “tramontare” del sole. D’altronde, l’idea che la terra sia immobile e che sia il sole a muoversi attorno ad essa ben corrisponde alla nostra esperienza quotidiana e al tipo di linguaggio che la esprime. Chi, infatti, volesse contestare l’utilizzo di tali espressioni in quanto improprie o errate sulla base delle odierne conoscenze scientifiche verrebbe preso per un eccentrico, anziché per una persona colta. La conoscenza della moderna astronomia, più che soppiantare le concezioni di senso comune, ad esse si aggiunge, e viene usata in altri contesti come, ad esempio, per spiegare il ciclo delle stagioni. Cfr. Berti, 2002, p. 25. A questo proposito scrive Bozzi: «Gli antichi cedettero che la Terra su cui poggiamo i piedi sta ben ferma, mentre gli astri si muovono rispetto ad essa: questa è già fisica ingenua fondata sulla percezione. In effetti, il nostro apparato percettivo non dispone di alcun indice del moto terrestre, mentre la vista rileva il lento moto degli astri relativo a qualche sistema di riferimento ancorato al terreno. Ciò basta a dire con verità: “Gli astri si muovono, la Terra no”. Si tratta di una proposizione scientificamente vera entro l’orizzonte delle constatazioni dirette e ripetibili». Cfr. Bozzi, 1990, p. 30.
[18] Con il costrutto “epistemologie personali” si intende l’insieme di convinzioni che, influenzando il modo personale in cui gli studenti si rapportano a uno specifico sapere, possono, a seconda dei casi, favorire oppure ostacolare l’apprendimento significativo dei suoi contenuti. Cfr. Mason, 2013, in particolare i capitoli 7 e 8.
[19] A tal proposito scrive Spada: «Molti cosiddetti concetti ingenui e strategie ingenue per la soluzione di problemi sono molto utili in quasi tutte le situazioni della vita quotidiana. Il ragionamento scientifico non è in grado di sostituire il pensiero di senso comune. Lo studente deve imparare a distinguere quali concetti e quali strategie per la soluzione di problemi sono adeguati alle varie situazioni». Cfr. Spada, 1994, p. 115.
[20] Per una rassegna completa si rinvia a Vosniadou, 2008a.
[21] Sul ruolo dell’analisi disciplinare si rinvia a Martini, 2011a, pp. 183-188.
[22] Sull’inadeguatezza dell’approccio applicazionista in didattica, secondo il quale l’insegnamento è causa dell’apprendimento, si rinvia anche a Damiano, 2013, pp. 107-138.
[23] Citato in Nirchi, 2014, p. 4.
[24] Citato in Martini, 2000, p. 96.
[25] Quest’esigenza assume come ipotesi di sfondo un’interpretazione dei saperi come sistemi adattivi al contempo autonomi ed eteronomi. A questo proposito si rinvia a Martini, 2011a; si veda in particolare il capitolo 1.
[26] Psicologia dello sviluppo, psicologia cognitiva, psicologia della percezione, storia della disciplina, epistemologia della disciplina, didattica, ecc.
[27] Per un approfondimento sul problematicismo si rinvia a Baldacci, 2003.
[28] Ci richiamiamo alla tesi sostenuta dal filosofo della scienza Ronald Giere. Cfr. Giere, 1996; 2004.
[29] Per un approfondimento in chiave epistemologica su questo tema si rinvia a Spinicci, 2000.
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Autore per la corrispondenza
Monica Tombolato
Indirizzo e-mail: monica.tombolato@uniurb.it
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