La sequenza PPP

Per decenni nella didattica delle lingue è invalsa la sequenza PPP, Presentation, Practice, Production, ampiamente diffusa in seno al metodo strutturale. In una lezione ispirata a questa sequenza, la regola (ad esempio la coniugazione dei verbi al passato) viene presentata, quindi reimpiegata in un contesto molto controllato (mediante drill), infine applicata in produzioni libere. Questa sequenza si è imposta come modello tanto nella didattica quanto nella formazione. In breve, la sequenza ha valso come un sovra-metodo.

In realtà, in una lezione strutturale, lo spazio dedicato alla terza P (la produzione libera) è generalmente ridotto. Infatti, a tutt’oggi, capita che si impartiscano lezioni di lingua concentrandosi sulla trasmissione e sul reimpiego di regole (la prima e la seconda P), vuoi per il disagio da parte dell’insegnante non nativo di ricorrere alla lingua straniera, vuoi per la convinzione, da parte dello stesso, secondo la quale insistere sul solo reimpiego consente di ridurre possibili errori, vuoi infine per via della necessità di obbedire a un curricolo iperdenso (che lascia poco spazio alla comunicazione).

È quindi più corretto parlare di una sequenza binaria, di tipo PP[P], mostrando così come la terza fase abbia costituito (e in molti casi continui a costituire ancora) una realtà praticabile solo ai livelli più alti, quando l’allievo ha raggiunto un grande controllo del codice.

Il metodo PPP è stato oggetto di numerose critiche (Brumfit, 1979; Byrne, 1986; Woodward, 1993; 2001; Willis, 1994; Harmer, 1996; Scrivener, 1996; Skehan, 1998; Hedge, 2000; per una rassegna completa, cfr. Criado, 2013); se ne è limitata, da più parti, la portata ai livelli iniziali, laddove gli apprendenti hanno bisogno di sicurezza, o per l’insegnamento di pattern linguistici di particolare complessità o nel caso di insegnanti a inizio carriera (Thornbury, 2013).

Al tempo stesso sono sorte proposte alternative, che muovono tre obiezioni fondamentali alla progressione PPP:

  • la lingua è un fenomeno complesso, non segmentabile in elementi discreti;

  • l’apprendimento, ridotto a riproduzione meccanica di elementi decontestualizzati, agisce a detrimento della motivazione;

  • l’apprendimento richiede ricorsività e un consolidamento continuo (che un paradigma lineare, di tipo accumulativo, non prevede).

Tali proposte si possono raggruppare sulla base dell’elemento oggetto di discussione:

  • il contenuto della progressione;

  • la forma della progressione.

Nelle sezioni che seguono presentiamo alcune di esse (il lettore che volesse accedere a una più ampia rassegna può consultare: Harmer, 1996; Criado, 2009a; 2009b; 2010).

La revisione del contenuto

Per quanto riguarda il contenuto, segnaliamo due alternative alla sequenza PPP:

  • il modello dell’unità didattica;

  • la lezione circolare.

Nei sottoparagrafi che seguono ciascuna di esse viene rapidamente descritta.

L’unità didattica

L’unità didattica [UD] è frutto di una lunga elaborazione in ambito italiano, iniziata a partire dagli anni Ottanta (cfr. Freddi, 1979; Porcelli, 1994; Balboni, 1994; 2008b; Vedovelli, 2002; per un prospetto generale, Mikić 2009).

I sostenitori ritengono che la sequenza ottimale sia di tipo input, formulazione di ipotesi circa regolarità e aspetti specifici della lingua oggetto di studio, output. I termini usati sono: Globalità (incontro con il testo oggetto di comprensione), Analisi (studio della regola presente nel testo), Sintesi (reimpiego della regola in produzioni controllate o libere); l’acronimo è GAS.

Scrive Balboni (2008a, p. 23):

Il modello […] non viene dalla pedagogia ma dalla psicologia e riguarda i meccanismi umani di percezione e rappresentazione mentale; in termini diversi ma sostanzialmente paralleli a quelli gestaltici il modello globalità → analisi → sintesi/riflessione è stato descritto da Chomsky come meccanismo di funzionamento del LAD (Language Acquisition Device) in termini di osservazione → creazione e verifica di ipotesi su quanto osservato → fissazione e uso delle «regole» che sono state osservate, ipotizzate e confermate.

Se raffrontiamo la sequenza GAS con la più tradizionale PPP, notiamo che:

  • il punto di partenza non è la regola ma il testo (G);

  • la grammatica non è data ma è inferita dallo studente a partire dal testo (A);

  • Practice e Production vengono assimilate nella terza fase (S).

Gli autori che fanno capo a questa prospettiva si rifanno alla psicologia della Gestalt (secondo la quale la percezione è regolata dalla ricerca di una forma, e quindi di una totalità) e a indicazioni che provengono dalle neuroscienze degli anni Ottanta (Danesi, 1988).1

Al tempo stesso il modello dell’UD converge con due questioni che emergono nella linguistica applicata di quegli anni:

  • la centralità dell’input;

  • il ruolo assunto dal noticing nei processi di formazione della conoscenza dichiarativa e procedurale.

La centralità dell’input deriva dalla teorizzazione di Krashen. Se si parte dalla regola, sostiene lo studioso californiano (1981; 1982; 1985), si produce conoscenza effimera (apprendimento); se invece si parte dal testo, posto che questo risulti comprensibile allo studente (e quindi sia calibrato sulla competenza di quello), le regole vengono assimilate per via inconscia, in maniera stabile (acquisizione).

I sostenitori dell’unità didattica correggono però lo spontaneismo di Krashen, ammettendo che una riflessione formale sulle regole, a partire da un testo compreso, possa accelerare e consolidare i processi di acquisizione. È un riflesso, in ambito italiano, dell’ampio dibattito attorno al concetto di noticing che domina la linguistica applicata della seconda metà degli anni Ottanta. A definire questo termine sono stati Schmidt e Frota nel 1986: il concetto rimanda a un’attenzione cosciente alla lingua (alle sottocompetenze della competenza linguistica: morfologia, sintassi, lessico, fonetica, prosodia, testualità2), la quale concorre appunto all’acquisizione, formando intake, ovvero possesso stabile (Pawlak, 2011).

Il modello dell’unità didattica presenta, comunque, una certa indeterminazione per quanto riguarda la terza fase; non è chiaro in che modo Practice e Production si debbano articolare all’interno della Sintesi.3

La lezione circolare

La lezione circolare si presenta come uno schema ribaltato rispetto alla sequenza PPP (la conoscenza procedurale precede la dichiarativa).

Le prime tracce di circolarità si possono rinvenire agli esordi del metodo comunicativo, con le riflessioni sulla Deep-end Strategy (Brumfit, 1979; Johnson, 1980; ma si vedano anche Byrne, 1986; Willis, 1994; 2004; Johnson e Jackson, 2006).

Prendendo a prestito i termini del modello GAS, possiamo dire che una lezione circolare anticipa la Sintesi (i.e. la produzione) rispetto alla Globalità (i.e. la comprensione). In altre parole, il testo oggetto di lettura o di ascolto è spostato in avanti; vi si accede a seguito di varie attività produttive, e consente così agli allievi di verificare le ipotesi sul testo sollevate a partire da una serie di indizi (domande aperte, immagini, suoni, ecc.).

Una lezione circolare riflette il modo di apprendere abilità in ambito artistico, ad esempio musicali o grafiche, in cui l’allievo produce e quindi misura la distanza tra quanto prodotto e un modello. Riteniamo che una lezione circolare ben si adatti ai livelli più alti, solleciti la fantasia, induca a una partecipazione attiva, stimoli la produzione e crei curiosità nei confronti del testo. Esempi di lezioni circolari si trovano in Taylor, 2001; Willis e Willis, 2007; Torresan, 2009.

La revisione della forma: la didattica come trama

Altre proposte sono dirette non tanto a rivedere il contenuto o ad argomentare quale sia la successione ottimale delle fasi, quanto a mettere in discussione il concetto di stesso di fase, quale parametro d’obbligo in operazioni di lesson planning.

La didattica come intreccio di Woodward e Lindstromberg

In un saggio uscito nel 1998, Woodward e Lindstromberg (1998, p. 5):

A different approach is to think not so much in terms of “vertical” connections within one lesson, but of “horizontal” connections from lesson to lesson.

I due concepiscono le fasi della sequenza PPP come “connessioni verticali”, vale a dire “blocchi”, contenitori nei quali collocare attività a seconda delle abilità (ricettive o produttive) e delle competenze (morfologiche, sintattiche, lessicali, ecc.) da praticare e sviluppare. Tali “blocchi” si ripetono di lezione in lezione, e costituiscono le forme mediante le quali il curricolo si materializza.

La sequenza PPP è, difatti, nella logica del metodo strutturale, un modello da applicare e da reiterare; il successo dell’azione didattica è garantito nella misura in cui l’insegnante aderisce alla scansione delle fasi.

Woodward e Lindstromberg (1998) si interrogano sulla possibilità di creare connessioni “orizzontali” tra le azioni didattiche, e definiscono la loro proposta didattica per thread (“fili”). Illustriamo di seguito tale proposta, descrivendo in un secondo momento le riflessioni di Kumaravadivelu (1992; 1994; 2003a; 2003b) e di Thornbury (1999) che, a nostro avviso, possono completarla.

Nella figura 1 rappresentiamo l’idea di sequenziazione concepita da Woodward e Lindstromberg (le sigle in alto si riferiscono ai giorni della settimana).

 

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Fig. 1 Pianificazione per thread (tratta da Woodward e Lindstromberg, 1998, p. 5, leggermente adattata).

 

Un thread, dicono gli autori (Woodward e Lindstromberg, 1998, p. 7),

is an activity or a set of actitivies set up by you and your students. It can be used and reused although it doesn’t have to be used every lesson. Once introduced in one lesson, it can be picked up again quickly in later lessons with a mínimum of explanation because it is familiar to everyone. Once a thread is set up, you have less to plan. Some threads you can use for just a minute of a lesson. Other can be used for twenty minutes or more.

I threads sono quindi activities. Ci rifacciamo alla definizione di activity presente in Criado (2009, p. 15):

A unit of action in classroom of teaching materials, involving goals, content and strategies as an integrated construct.

In altri passaggi, la definizione di thread si fa però più ampia, fino a comprendere molte variabili dell’evento didattico (Woodward e Lindstromberg, 1998, p. 13):

Almost any of the various ways of doing dictation (e.g. teacher to students at slow speed with no questions from students, teacher to students at natural speed with questions allowed from students, or student to student in pairs), dialogue building (e.g. starting with a picture, with key words, or with a story) or picture composition (e.g. you display a numbered sequence of pictures and elicit an oral story from the class, or students order in a jumbled set of pictures and write a story). Arrangements and movements of people, e.g. students in pairs or students in small groups moving from table to table, can also be considered as a type of thread since these choreographical elements can recur and evolve from lesson to lesson.

La didattica per thread costituisce una dimensione flessibile (“alcuni thread possono essere sviluppati in un minuto, altri si possono sviluppare in venti minuti o più”; Woodward e Lindstromberg, 1998, p. 7), ricorsiva e aperta. L’impostazione che ne deriva è di tipo bottom-up: l’intreccio è un abbozzo che si definisce e si affina facendo attenzione alle risposte che provengono dagli studenti.

Autori che giungono a conclusioni simili sono Harmer (con il concetto di patchwork; 20013), Willis e Willis (con il concetto di task sequences, 2007).

Il punto debole della prospettiva di Woodward e Linstromberg, a nostro avviso, risiede nell’indeterminazione dei contenuti: si considerano in primis attività, per poi includere, come abbiamo visto, ogni genere di azione didattica.

Le macrostrategie di Kumaravadivelu

La proposta di Kumaravadivelu procede lungo una direzione complementare rispetto a quella di Woodward e Lindstromberg: definisce il contenuto di una programmazione flessibile.

Lo studioso suggerisce l’adozione di uno schema di riferimento ispirato a un principled pragmatism e tradotto in 10 macrostrategie (1992; 1994):

  1. Maximaze learning opportunities

  2. Facilitate negotiated interaction

  3. Minimize perceptual mismatches

  4. Activate intuitive heuristics

  5. Foster language awareness

  6. Contextualize linguistic input

  7. Integrate language skills

  8. Promote learner authonomy

  9. Raise cultural awareness

  10. Ensure social relevance.

Ciascuna macrostrategia didattica si attua poi in una serie di microstrategie (cfr. Kumaravadivelu, 2003a; 2003b).

La proposta dello studioso californiano presenta, in ogni caso, alcune criticità:

  • un’impropria definizione degli elementi di cui tratta;

  • l’assenza di una riflessione sulla concatenazione tra questi elementi.

Quelle che Kumaravadivelu definisce come macro e microstrategie didattiche sono piuttosto principi generali (quindi sovraordinati alla definizione di macrostrategie), in un caso, e attività puntuali (quindi elementi sottoordinati alla definizione di microstrategie), nel secondo. In sostanza, le macrostrategie mancano di una dimensione operativa nettamente definita (si pensi, ad esempio, ai punti 9 e 10),4 mentre le microstrategie sono elementi troppo circoscritti, non format trasversali.

In più, riteniamo (in accordo con Liu, 1995) che molti punti della lista di Kumaravadivelu siano sovrapponibili tra di loro. Di seguito ci occupiamo di una possibile ridefinizione delle strategie.

Verso una (ri)definizione delle strategie

La proposta Kumaravadivelu si caratterizza, come abbiamo già evidenziato, per una certa genericità (nella definizione di cosa sono le macrostrategie) e una mancata articolazione (tra macro e micro); pertanto, ci rimane da definire, per nostro conto, che cosa sia una strategia, e quindi il carattere del possibile thread con cui interpretiamo la proposta di Woodward e Lindstromberg.

Per strategia didattica intendiamo un’azione del docente orientata a facilitare l’apprendimento in generale. Nelle strategie didattiche rientrano sia azioni che pertengono più direttamente alla sfera dell’insegnante in un contesto di educazione formale (strategie didattiche in senso stretto, SDS), sia azioni volte ad attivare strategie che anche l’allievo che si trova a imparare una lingua in un contesto di autoapprendimento (apprendimento spontaneo o mediato dall’uso autonomo di risorse) può adottare (strategie didattiche in senso lato, SDL). La tabella 1 rappresenta una ricognizione delle strategie glottodidattiche (SDS, SDL) a nostro avviso più diffuse; la lista è stata slitata sulla base di un’analisi di materiali e risorse di vario genere relativi all’insegnamento delle lingue moderne (in particolare italiano, spagnolo e inglese).

TABELLA 1
Strategie glottodidattiche

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Una strategia glottodidattica può essere trasversale a più attività (ad esempio, il vuoto di informazione può caratterizzare attività di comprensione, di analisi, di reimpiego e di produzione), così come ciascuna attività può prevedere più strategie ed essere diversificata in termini di forme e usi (per un esempio riferito al dettato, cfr. Torresan, 2011).

Le strategie, nel loro complesso, possono costituire i fili (threads) della proposta di Woodward e Lindstromberg: alcuni più “grossi” (macrostrategie; così è la pressione comunicativa, ad esempio; cfr. Gass 2003), altri più “fini” (microstrategie; come, ad esempio, il vuoto di informazione; cfr. Harmer, 1982).

La concezione estetico-narrativa di Thornbury

Il contributo di Thornbury (1999) conferisce, da ultimo, una direzione significativa all’inteccio dei thread invocato da Woodward e Lindstromberg.

In una ricognizione condotta presso l’International House di Barcelona mediante un questionario-pilota (somministrato a 39 studenti), e poi confermata da un’indagine su più ampia scala (100 studenti) realizzata da un collega in Grecia (Luke Prodromou), Thornbury riscontra come, per la maggioranza degli intervistati, una lezione riuscita sia, sostanzialmente, una bella lezione (1999, pp. 5-6). A concorrere alla qualità di una lezione è quindi, a detta di Thornbury, un criterio estetico.

In vetta alla classifica delle analogie (“una lezione riuscita è come…”) spicca il paragone con il mondo del cinema, del teatro e del gioco (la bella lezione assomiglia a un film ben congeniato, è simile a un’opera teatrale in cui i ruoli degli attori sono ottimamente orchestrati, è pari a un gioco capace di sorprendere).

Se ci soffermiamo sul paragone saliente, quello con il cinema, c’è da riconoscere che la figura dell’insegnante come regista non è una novità. Negli anni Novanta si è dibattuto molto sulla centralità dello studente, e di conseguenza sul ruolo di facilitatore, di tutor, di regista che l’insegnante è invitato ad assumere traendosi in disparte e lasciando agli studenti la scena. Nella prospettiva di Thornbury, tuttavia, l’insegnante è regista non tanto nel senso dell’animatore, quanto nei termini dello sceneggiatore: cura, infatti, nei minimi dettagli il “copione” da realizzare in classe.

E, in effetti, è l’aspetto narrativo a costituire uno degli ingredienti fondamentali della concezione estetica di Thornbury (accanto al tema, al ritmo, all’armonia [flow], e al senso di compiutezza; Thornbury, 1999, p. 6). È la coscienza di un’intenzionalità, di un disegno, di una profonda coesione tra gli elementi, che fa la differenza tra una serie giustapposta di azioni (story) e una trama (plot). In particolare, in una trama ben compiuta si recuperano elementi apparsi in precedenza così come avviene in molte arti in cui l’aspetto narrativo ha un ruolo centrale, come il cinema o l’improvvisazione teatrale.

Thornbury, purtroppo, non offre esempi di struttura narrativa della lezione.

Abbiamo, perciò, desunto da un manuale di italiano per stranieri (Ziglio e Rizzo, 2014) un semplice micropercorso che aiuti ad apprezzare le caratteristiche di cui abbiamo parlato, con riferimento, in particolare, al recupero di elementi trattati, cui abbiamo appena accennato (figure 2-4). Lo studente in questo percorso è dapprima invitato a formulare delle ipotesi: deve immaginare quali elementi urbanistici della lista sono presenti nella città descritta nelle foto (figura 2); successivamente svolge un’attività di comprensione (figura 3) e da ultimo, con i dati a disposizione, è tenuto a dare un nome alle tre fotografie iniziali (figura 4). La progressione costituisce un interessante testa-coda, un flashback d’effetto: lo studente, a un certo, punto torna indietro per conferire significato agli indizi presentati per primi (cfr. per percorsi simili, si veda anche Guastalla, 2002).

 

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Fig. 2 Secondo esempio di flashback. Attività iniziale (tratta da Ziglio e Rizzo, 2014, p. 77).

 

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Fig. 3 Esempio di flashback. Attività intermedia (tratta da Ziglio e Rizzo, 2014, p. 78).

 

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Fig. 4 Esempio di flashback. Attività finale (tratta da Ziglio e Rizzo, 2014, p. 77).

 

La trama (plot) è l’elemento fondamentale della proposta di Thornbury: ci pare, infatti, che essa possa imprimere una direzione chiara e precisa alla didattica per thread di cui parlano Woodward e Lindstromberg.

Rispetto a una didattica per fasi, una didattica come trama o intreccio si distingue per una concezione complessa della progressione, che va concepita non come giustapposizione, ma come uno schema libero dove sono possibili:

  • un numero non vincolante di passaggi, regolati più in termini di strategie che di fasi;

  • l’eventuale iterazione di alcuni passaggi (possiamo avere sequenze di attività di comprensione, ad esempio, collegate le une alle altre);

  • una concezione plastica delle attività (esaltando la varietà di usi, di forme e le possibilità di integrazione);

  • una concezione continua delle attività (tale per cui la lingua prodotta, analizzata o reimpiegata può essere messa in circolo, e costituire la premessa di nuove attività; all’interno della stessa lezione e in lezioni successive; cfr. Breen e Candlin, 1987; Torresan, 2014).

Siamo convinti che tali caratteristiche ben esprimano l’equilibrio dinamico di cui è capace l’insegnante esperto, in bilico costante tra struttura (i.e. disponibilità di scripts) e improvvisazione (i.e. risposte immediate a bisogni concreti; cfr. Sawyer, 2011).

In particolare, focalizzandoci sull’ultima caratteristica tra quelle descritte nell’elenco precedentemente sopra, la continuità (flow, in Thornbury, 1999), essa ci pare rimandare al concetto di raccordo, ovvero soluzione di compenetrazione tra attività: il materiale ricavato dall’una diventa motivo di reimpiego per l’attività successiva.5 Le attività descritte riprese dal manuale di italiano LS e riportate sopra (figure 2-4) sono caratterizzate da raccordi eleganti. Più un percorso, pur se complesso, è ricco di raccordi, maggiore è la leggerezza, ovvero l’impressione complessiva di un tutto-che-scorre.

Conclusioni

In didattica si sottolinea spesso l’importanza che la varietà assume ai fini della motivazione (Hutchinson e Waters, 1987; Skehan, 1989; Ur, 1996; Dörnyei, 2001; Harmer, 2001;3 Tomlinson, 2003; Balboni, 2008a). Tuttavia il principio viene riportato alle sole attività, senza considerare la progressione delle stesse (Criado, 2013).

In questo saggio abbiamo definito le caratteristiche di una didattica come trama, la quale rappresenta un possibile sviluppo della didattica per thread di Woodward e Lindstromberg (1998), sulla base di elementi che provengono dalle riflessioni sulle macrostrategie di Kumaravadivelu (1994; 2003a; 2003b) e sulla concezione estetico-narrativa di Thornbury (1999).

Una didattica come trama:

  • formula la possibilità di una sintassi complessa della lezione, senza negare altre forme di sequenziazione (come le sequenze PPP o GAS o la lezione circolare), ma integrandosi piuttosto alle stesse, le quali per certi aspetti possono risultare più praticabili ai livelli bassi o laddove l’insegnante abbia meno tempo a disposizione per la progettazione (Akbari, 2008) o in contesti, ancora, in cui sia necessario rapportarsi a un sistema valutativo dove viene conferito un notevole peso alla grammatica (PPP) o alla comprensione (GA[S]). Detto altrimenti, la didattica come trama vale come possibilità di rottura della routinizzazione di modelli applicati per un lungo periodo di tempo;

  • porta a dire che il testo non è solo il centro della lezione, in veste di contenuto attorno a cui ruotano operazioni formali, ma è anche la forma che la lezione assume;

  • vale come un potente stimolo per la creatività del docente, il quale appunto può iniziare la sua lezione attraverso un’attività di un qualsiasi genere (ad esempio, un dettato), per poi architettare, a partire da quella, un percorso in cui altre attività si avvicendano, progettate secondo un ragionamento che non è solo funzionale (che tipo di abilità/competenza voglio che gli studenti esercitino?) ma è anche strategico (posto, ad esempio, che voglio che il dettato valga come attività di pre-scrittura, quale strategia adotterò per impostare l’attività di produzione scritta successiva? E come raccorderò l’attività di scrittura con quella che vorrò far seguire poi? Avrò infine la possibilità di creare un collegamento tra l’ultima attività della serie e la prima, vale a dire, nel nostro caso, il dettato?).

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Note 

1 Si tratta del principio di bimodalità (la distinzione funzionale degli emisferi, con quello sinistro deputato all’analisi e quello destro alla sintesi) e del principio di direzionalità (l’elaborazione delle informazioni avviene dapprima nell’emisfero destro, poi nel sinistro). Entrambi i principi sono messi in discussione dalle neuroscienze attuali, cfr. Howard-Jones, 2009.

2 Per semplicità, di seguito riportate come competenze, in opposizione alle abilità (ascoltare, leggere, parlare, scrivere).

3 A nostro avviso, ciò si lega allo scarso impatto che l’Output Hypothesis (Swain, 1985), e più in generale il ruolo giocato dalla produzione libera nei processi di acquisizione linguistica, hanno avuto nel dibattito glottodidattico italiano.

4 Sull’aspetto dell’operatività di una strategia, cfr. Mariani e Pozzo, 2002.

5 A onor del vero, anche nella didattica per fasi esistono elementi di raccordo: ad esempio, nell’unità didattica, il testo compreso diventa soggetto ad analisi e gli elementi analizzati sono oggetto di recupero. Una didattica come trama moltiplica esponenzialmente le possibilità di raccordo: ad esempio, segmentando la lettura e intervenendo con produzioni ad hoc (Stephan, 2006), interrompendo la scrittura con attività di lettura (Rinvolucri, 1997), utilizzando quanto prodotto dagli allievi durante attività di reimpiego come stimolo (prompt) per produzioni successive (Torresan, 2014), e così via. In questo senso, la didattica come trama viene incontro a un bisogno avvertito da molti esperti di metodologia (tra tutti, Scrivener, 2014): consentire, all’interno di un approccio comunitivo caratterizzato spesso da dispersione e avvicendamento di attività poco legate le une alle altre (giochi, quiz, canzoni, film, produzioni orali, ecc.), occasioni di recupero continuo e circolare della lingua compresa, analizzata e prodotta dagli allievi.

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