Vol. 7, n. 1, aprile 2021

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MODELLI EDUCATIVI

L’educazione etico-sociale oltre la Philosophy for Children

Strumenti per la riflessione e il dialogo

Paola D’Ignazi1

Sommario

Partendo da un esame critico della Philosophy for Children, sono presi in esame strumenti e metodologie in grado di rispondere agli scopi dell’educazione etico-sociale ed alle esigenze formative degli adolescenti che vivono la realtà mutevole e complessa della società contemporanea.

Il disagio esistenziale dei ragazzi e la confusione/perdita di riferimenti valoriali si esprimono con atteggiamenti talvolta lesivi e autolesivi. L’interazione tra sfera sociale e sfera virtuale con l’esposizione alla comunicazione violenta (hate speech), utilizzata soprattutto nei social network e new media può indurre al rischio della normalizzazione di tale linguaggio veicolando aggressività e intolleranza. Un’educazione all’etica della comunicazione, come pure l’acquisizione di una consapevolezza delle proprie emozioni si realizza con la discussione, poiché questa consente di esprimere la propria prospettiva morale attraverso la narrazione dell’esperienza vissuta e del significato che le si è attribuito. Ma la discussione è anche e soprattutto un confronto con altri punti di vista e altre storie. L’approccio narrativo invita a pensare attraverso le storie — attinte da fatti di cronaca, biografie, ma anche romanzi, opere teatrali, poesie e film — che forniscono strumenti cognitivi e simbolici consentendo il dialogo tra la propria esperienza e quella degli altri.

Parole chiave

Approccio narrativo, etica della comunicazione, dialogo.

EDUCATIONAL MODELS

Ethical-social education beyond Philosophy for Children

Tools for reflection and dialogue

Paola D’Ignazi2

Abstract

Based on a critical examination of Philosophy for Children, the article analyses tools and methodologies capable of responding to the aims of ethical-social education and the training needs of adolescents facing a complex and changing reality in contemporary society. The existential discomfort in youngsters and the confusion/loss of values is sometimes expressed through harmful and self-endangering behaviours. The interaction between the social sphere and the virtual sphere and the exposure to violent communication (hate speech), especially on social networks and new media, may lead to a normalization of such language, spreading aggressiveness and intolerance. Education in the ethics of communication and the acquisition of awareness of emotions is accomplished through conversation, since it enables the expression of a moral perspective, through talking about personal experiences and the meaning ascribed to them. However, the discussion is, first and foremost, a way to compare other points of view and other stories. This narrative approach is an invitation to think through story-telling — drawn from news reports, biographies, novels, theatrical plays, poetry, and films — which provide cognitive and symbolic tools, engendering, therefore, dialogue, through personal experience and the experience of others.

Keywords

Narrative approach, Ethics of communication, Dialogue.

L’educazione del soggetto etico

Quale educazione può essere adeguata a un’epoca tanto complessa come quella contemporanea? Genericamente si può dire che in una società pluralistica e tanto mutevole la scuola dovrebbe aiutare i giovani a esprimere la propria singolarità e unicità, a ricercare il significato della propria esistenza e il benessere personale, a riconoscere i valori di una buona esistenza, a instaurare delle buone relazioni. Si dirà che i giovani hanno bisogno di riflettere sul significato che devono dare alla loro vita, sulle diverse visioni del mondo, sulla giustizia e altro ancora.

Il contributo che può dare la scuola come risposta a tali istanze è l’educazione del soggetto etico. Utilizzeremo l’espressione educazione etico-sociale per evidenziare e valorizzare la dimensione sociale della vita morale, il momento del confronto interpersonale attraverso il dialogo e la discussione, collocando questo momento etico dell’educazione scolastica in un orizzonte di cittadinanza attiva e di democrazia. L’educazione etico-sociale si fonda sul confronto e sull’integrazione sociale dei diversi punti di vista personali (delle moralità individuali) nella prospettiva di una possibile negoziazione e intesa, che ne rappresenta la dimensione universale condivisa. Essa aspira, dunque, a una eticità sociale che sia critica e consapevole e soprattutto scevra da dogmatismi, fondata sulla comune tensione verso una universalità che può essere solo concertata, che può prospettarsi solo attraverso un processo in cui ciascuno articola il punto di vista (morale) personale, confrontandolo con quello di altre individualità.

Per definire il senso che viene comunemente attribuito all’educazione del soggetto etico, si dirà che la scuola dovrebbe annoverare tra i suoi compiti quello di formare l’individuo nella prospettiva del pieno sviluppo di un Sé, che sia capace di stima e di rispetto verso sé stesso, verso gli altri nelle relazioni interpersonali, e come cittadino verso la comunità. Si tratta, dunque, riprendendo il pensiero di Paul Ricoeur (1990), di una prospettiva in cui il soggetto si pone in un rapporto costitutivo con l’Altro, che va riconosciuto e rispettato, in cui si tende a una buona vita con e per gli altriall’interno di istituzioni giuste. Si pone, dunque, il problema di come intendere l’educazione etico-sociale all’interno dell’istituzione scolastica e soprattutto di come veicolarla, ovvero di individuare un metodo e le pratiche per la sua attuazione. Allo scopo di approfondire aspetti inerenti all’educazione etico-sociale e di individuare possibili strumenti didattici rispondenti alle caratteristiche e ai bisogni di soggetti educativi nella fascia di età pre-adolescenziale, è interessante confrontarsi con una significativa esperienza educativa che ha posto tra i suoi scopi anche l’educazione morale, la Philosophy for Children.

La filosofia come paradigma di formazione e di educazione morale

La Philosophy for Children è un’esperienza e un metodo educativo che si pone quale obiettivo quello di sviluppare nel soggetto (bambino, adolescente, ma anche anziano o con svantaggio) l’esercizio del pensiero critico e creativo, come pure lo sviluppo di una forma adeguata di comunicazione, che consente di imparare a prendere decisioni sulla base dei dati della realtà. Oggi questo metodo, che propone la riflessione e il ragionamento di tipo filosofico come paradigma di formazione, si è diffuso in tutto il mondo con modalità differenti di applicazione.3

Il curricolo di Philosophy for Children, indicata con l’acronimo P4C, nasce negli anni Settanta a opera di Matthew Lipman, il quale propone come programma educativo, all’interno dell’attività didattica, l’utilizzo di pratiche filosofiche non intese come contenuti a carattere disciplinare, quanto piuttosto come una specifica modalità di indagine conoscitiva da utilizzare in vari campi dell’esperienza umana.

Docente di logica alla Columbia University, Mattew Lipman prende atto di come la logica risulti oscura per una buona parte dei suoi allievi. Egli individuò il motivo di questo problema nel fatto che l’istruzione ricevuta dai suoi studenti si basava più sulle conoscenze di contenuti, anziché sulle capacità di ragionamento, sul pensiero. Fu questo che lo indusse a elaborare un metodo per sollecitare nei bambini la curiosità, la prontezza intellettuale e la capacità riflessiva. Pubblicò nel 1971 il racconto Harry Stottlemeier’s Discovery (Lipman, 1974), un romanzo filosofico per bambini, la prima opera che ha inaugurato il movimento educativo. La filosofia veniva assunta dallo studioso allo stesso tempo sia come contenuto che come metodo di ricerca, mentre l’idea di utilizzare il racconto costituiva nello specifico una scelta pedagogica che aveva come scopo quello di rendere la logica non oscura e complicata, così come sembrava risultare per i suoi allievi.

Questi intenti sono esplicitati nell’opera autobiografica L’impegno di una vita: insegnare a pensare (Lipman, 2018) in cui l’autore racconta il percorso della ricerca, non solo filosofica, ma anche politica ed esistenziale, che l’ha condotto alla Philosophy for Children. Narrando il proprio vissuto Lipman chiarisce come si è costruito il tessuto teorico e pratico del suo metodo che si poneva come obiettivo quello di fare in modo che i bambini scoprissero la razionalità e diventassero persone ragionevoli, laddove a dare contenuto alla ragionevolezza sono il dialogo, la tolleranza, il rispetto, la libertà, la critica, l’autonomia, la razionalità e il giudizio. Difatti, il suo modello ideale di individuo è quello della persona democratica; il suo curricolo, la filosofia praticata a scuola, costituisce anche un tentativo di riforma del sistema educativo per mezzo del quale i bambini possono approssimarsi a questo ideale ed essere nel futuro degli adulti che danno concretezza a quel modello.

Compito del metodo è quello di produrre un cambiamento, formando «nuovi» cittadini e facendo in modo che le classi scolastiche diventino comunità di ricerca (D’Addelfio, 2011).

La teoria di Lipman è stata fortemente influenzata dalla tradizione pragmatista statunitense, da autori come Charles S. Pierce, George H. Mead e da John Dewey. Il pensiero di questi autori ha contribuito alla strutturazione della teoria educativa a fondamento della Philosophy for Children, la quale risente anche dell’epistemologia genetica di Piaget, del pensiero di Vygotskij e della psicologia culturale di Bruner, ma soprattutto si incardina sulla fiducia nella filosofia come efficace pratica riflessiva che è anche paradigma di formazione. Qui la filosofia non è intesa come disciplina, bensì come pratica discorsiva condivisa tra soggetti diversi e in ambiti differenti da quelle tradizionali. L’impatto con il complesso linguaggio filosofico, che necessita di una decodificazione, produce nell’alunno frustrazione o addirittura un rifiuto, sostiene Lipman, un senso di estraneità ai contenuti proposti. Ciò non vuol dire che la lezione frontale sia un metodo pedagogico obsoleto, tuttavia «troppo spesso inibisce la creatività invece di incoraggiarla e la stessa cosa vale anche per il pensiero critico. Si appropria dei mezzi della produzione intellettuale, invece di consegnarli agli studenti così che diventino essi stessi produttivi» (Lipman, 2005, pp. 279-280). Nell’ottica dello studioso, se si sottraggono alla filosofia tutti quegli aspetti specifici della disciplina racchiusi nei manuali e che costituiscono gli aspetti inerti e nozionistici, come gli autori, i testi, la complessità linguistica e lessicale, resta della filosofia ciò che è davvero importante insegnare ai ragazzi, vale a dire la Logica e quella specifica attitudine all’approfondimento della ricerca che si colloca e avviene nel confronto dialogico.

L’utilizzo di testi narrativi

Allo scopo di mantenere viva la fiammella della curiosità che supporta la conoscenza e il pensiero creativo, Lipman recupera il modello socratico dove il pensare trova la sua espressione proprio nell’oralità e nel dialogo con tutti i suoi caratteri di incertezza, flessibilità e anche conflittualità emergente nella dialettica del confronto.

Socrate è la figura ispiratrice dell’idea della filosofia intesa come pratica che viene esercitata, coltivata, vissuta con implicazioni educative molto importanti, poiché forma spiriti critici in grado di mettere in discussione i valori e le idee comunemente accettate. Per questo la filosofia sembra essere la migliore pratica educativa, in quanto cammino che gli interlocutori impegnati in un dialogo devono percorrere non isolatamente, ma insieme. L’indagine filosofica non è un esercizio puramente retorico su questioni lontane ed estranee, ma è al contrario la messa in discussione dei dogmatismi e dei pregiudizi che abitano la vita individuale e collettiva. Si impara a ragionare, a pensare filosoficamente, partendo da un testo narrativo che sia capace di sollecitare il desiderio della ricerca, che non è solamente logica ma anche sociale ed etica, in un dialogo intersoggettivo che mira alla costruzione condivisa della conoscenza.

Lipman tiene in grande considerazione la narrazione e la scrittura e ha ideato come strumenti per attualizzare il suo progetto un insieme di testi ritenuti fondamentali per avviare e guidare il dialogo filosofico. Il cuore di questa metodologia didattica sono i racconti che, sebbene similari nella forma e negli intenti, si differenziano per la specificità dei contenuti, sono calibrati sulle diverse fasce di età dei destinatari e sono rispondenti a scopi diversi (lo sviluppo del pensiero logico, etico, ecc.). Lipman ci teneva a sottolineare che questi non vanno considerati opere letterarie, poiché non sono accattivanti al pari dei romanzi, né vi sono virtuosismi linguistici, bensì sono racconti da leggere, storie concepite per essere discusse, un mezzo per aiutare a ragionare con la propria testa. I racconti sono proposti in forma dialogica e i bambini, gli adolescenti e gli adulti che ne sono i protagonisti, dialogano su problematiche di natura filosofica quali il pensiero, il valore della vita, la giustizia la verità, tutti aspetti che affiorano dalla loro personale esperienza. Si tratta dell’arte antica e potente del dialogare, qualcosa che si apprende con l’esercizio, poiché dialogare vuol dire contribuire con il punto di vista soggettivo a chiarire anche ad altri le idee. Ai diversi racconti è abbinato un manuale per l’educatore-docente nel quale si danno indicazioni metodologiche per poter approfondire il lavoro educativo con tematiche di discussione e alcuni esercizi e attività che possano stimolare la riflessione critica. Queste narrazioni per l’autore possono avere un’efficacia solo attraverso l’esperienza del dialogo filosofico e all’interno di una comunità di ricerca, poiché è in tale situazione educativa che esse possono riaccendere la ricerca filosofica in una dimensione collaborativa, rispettando il rigore dell’argomentazione e il pathos della comunicazione faccia a faccia. Il dialogo ha dunque un ruolo centrale e se da Socrate deriva il significato etico della ricerca condivisa, da Dewey deriva quel valore sociale dell’educazione nella stretta interdipendenza tra scuola e società, dove la scuola ha il compito di produrre le competenze necessarie alla società entro la quale si colloca (Dewey, 1976). I racconti filosofici proprio per le situazioni che propongono sono prevalentemente di carattere aporetico e la ricerca si articola come ricognizione dei significati differenti che il contesto narrativo suggerisce a chi lo interpreta; il lettore vi proietta il proprio orizzonte mentale, ma proprio la problematicità che caratterizza il racconto lo spinge a ricollocarsi in una dimensione di discussione e negoziazione di significato all’interno della comunità educativa.

Imparare a pensare filosoficamente: i racconti per gli adolescenti

Strutturati per le singole tappe dello sviluppo i racconti hanno l’obiettivo preciso di aiutare il ragazzo a pensare correttamente. Ne citeremo alcuni. Il prisma dei perché è concepito per ragazzi della fascia di età compresa tra i 12 e i 15 anni. Il titolo originale era Harry Stottlemeier’s discovery, che ha volutamente un’assonanza con Aristotele.4 Questo racconto costituisce una sfida in quanto, riscrivendo il discorso filosofico in una maniera tale da renderlo accessibile ai bambini e agli adolescenti, propone il riconoscimento della disciplina dell’intelletto quale valore eminentemente importante dell’educazione. Il racconto ha una struttura narrativa che si articola tra dimensioni di vita scolastica, familiare e di gruppo, su vicende ordinarie e protagonisti che si caratterizzano più da un punto di vista concettuale che esistenziale. L’uno rappresenta ed esemplifica uno stile di pensiero incline alla riflessione e alla ricerca, l’altro incarna il pensiero di tipo matematico; l’altro ancora rappresenta il pensiero creativo, che procedendo per salti logici riesce a cogliere prospettive nuove, fino ad arrivare a snodi critici. Alla stessa maniera altri protagonisti rappresentano l’emarginazione, il conformismo e la trasgressione. Questo racconto, come gli altri non si pone come letteratura per l’infanzia; viene esclusa la dimensione fantastica per ancorarsi alla realtà quotidiana, cercando intenzionalmente in questa ordinarietà i motivi dello stupore e l’attrazione per ciò che risulta enigmatico e sconosciuto. Il protagonista è Aristide, nome che richiama Aristotele e la logica aristotelica, il quale dichiara esplicitamente: «A scuola si pensa alla matematica, si pensa all’ortografia, si pensa alla grammatica. Ma quando mai ci è capitato di pensare al pensiero? […] se noi pensiamo all’elettricità, possiamo capirla meglio, e allora, se pensiamo al pensiero, potremmo capire meglio noi stessi» (Lipman, 2004a). Diremmo che è questo il significato di tutto l’impianto della P4C. La logica è ritenuta parte essenziale della ricerca filosofica tanto che Harry Stottlemeier’s discovery si propone di dare ai bambini gli strumenti logici che utilizzeranno nella loro attività di ricerca. Tale aspetto viene rimarcato dal fatto che il manuale corrispondente si intitola Philosophical Inquiry, nell’edizione italiana L’indagine filosofica(Lipman, Sharp e Oscannyan, 2004).

Mark è il racconto che narra di alcuni giovani e dei loro tentativi e sforzi di fare chiarezza dentro di sé riguardo a questioni di diversa natura (ad esempio, cosa significa amare, fare a pugni, avere un rapporto di amicizia, commettere un crimine, punire) con l’idea di fondo che i criteri utili ad affrontare i problemi quotidiani non sono poi tanto differenti da quelli che dovrebbero regolare le relazioni tra i componenti della società e degli stessi Stati-nazione. In tale ottica tutto ciò riconduce ad altre dimensioni morali o etiche come la guerra, l’ingiustizia la libertà, la democrazia. Mark è un programma di filosofia sociale e politica: i personaggi discutono, ad esempio, nel primo capitolo l’espressione «mondo libero», si offre poi un elenco di Paesi affinché gli alunni possano individuare quelli che rappresentano dal loro punto di vista un mondo più o meno libero.

Il programma di ricerca etica è rappresentato dal racconto Lisa, in cui sono esposti due aspetti problematici: la dipendenza dell’etica dalla logica e quindi, di conseguenza, la necessità di apprendere innanzitutto la logica per poi poterla applicare ai problemi. In ultima analisi, per Lipman la filosofia educa nella e per la democrazia, che è mezzo e fine dell’educazione.

Punti di debolezza e punti di forza della P4C

Avanziamo alcune considerazioni critiche sulla P4C, che pur restando un punto di riferimento importante per gli educatori, proiettata nel presente, a nostro giudizio risente di alcuni limiti connessi alle profonde trasformazioni culturali e sociali avvenute da quando tale metodo è stato ideato.

La prima osservazione che si può avanzare è sui contenuti propriamente filosofici, come sostengono alcuni esperti della didattica e degli aspetti filosofico-politici inerenti al fare filosofia con i bambini (Waksman e Khoan, 2013). Non è del tutto vero, così come aveva prospettato Lipman, che nel curricolo di racconti e rispettivi manuali vi sarebbe tutta la storia della filosofia. Da tale prospettiva, difatti, è esclusa la filosofia nata in America latina, in Africa, in Oriente e altri luoghi che sono stati estromessi da quella storia del pensiero a cui Lipman fa riferimento. È questo un tema di accesi dibattiti che vanno oltre la P4C.

La visione etnocentrica e culturocentrica nell’ambito della filosofia (il punto di vista occidentale ed europeo) viene evidenziata da diversi studiosi, tra i quali Raul Fornet-Betancourt. Il filosofo cubano è infatti tra coloro che rimettono in discussione il canone della razionalità occidentale, sostenendo che prendere congedo da una razionalità monoculturale non vuol dire rinunciare alla razionalità tout court, ma lasciare emergere le molteplici tipologie di razionalità e di voci che appartengono alle diverse culture e collaudare l’esperienza filosofica come campo di sensi (possibili), «logicamente aperto e indefinito». Riconosce nei contemporanei un «analfabetismo contestuale», vale a dire l’incapacità di lasciarsi trasformare dalla pluralità di contesti e mondi in cui l’uomo si trova a vivere. Per la stessa filosofia aprirsi al pluralismo delle visioni del mondo vuol dire mettersi in discussione, entrare in rapporto con l’«alterità attraverso il dialogo, che è insieme il dire, ma anche l’ascoltare e lasciare che l’altro si esprima» (Fornet-Betancourt, 2006). Le domande relative ai problemi presentati nei racconti e nei manuali hanno un senso in quanto riferite al contesto storico-sociale e politico, pertanto va da sé che sono assenti quelle domande pertinenti ad altri contesti, tradizioni e culture che all’epoca dell’ideazione di tale metodo non erano tenute in considerazione, come pure non c’è un adeguamento alla realtà contemporanea. Lo stesso Lipman si colloca in un contesto storico-sociale e culturale che imprime senso al suo lavoro. Quelli che appaiono come problemi filosofici universali sono in realtà dei problemi filosoficamente rilevanti per un lettore che appartiene a una tradizione di pensiero specifica, così come quelli che sembrano aspetti e caratteri universali della ricerca filosofica sono delle figure paradigmatiche di un soggetto collocato in una cultura che non è sempre in grado di riconoscere la sua dimensione storica e particolare. In sintesi, la presunta universalità dei problemi filosofici appare un’idea di filosofia ampiamente condizionata dal particolare contesto culturale in cui si colloca al momento in cui è ideata.

Nello specifico dei racconti, Il prisma dei perché fa emergere delle contraddizioni. Vi sono contenuti logici che gli alunni devono apprendere, come ad esempio la regola della conversione (se tutti gli X sono Y, non tutti gli Y sono X, essendo X un insieme minore compreso nell’insieme Y). Le regole della logica vanno prese come tali attraverso un buon numero di esercizi, affinché questa regola del «buon pensatore» venga acquisita. Il limite sta nel fatto che se l’insegnante rispetta l’interesse degli alunni — un aspetto che viene enfatizzato dallo stesso Lipman — le regole passano in secondo piano. Diversamente, se gli alunni devono imparare ad applicare queste regole nei loro processi di pensiero, sono gli stessi interessi spontanei ad essere forzati o travalicati.

Se nel racconto intitolato Mark i personaggi discutono del significato dell’espressione «mondo libero» sulla base di un elenco di Paesi che gli alunni dal loro punto di vista vedono come un mondo più o meno libero, si evidenzia come tale scelta finisca per avere un carattere ideologico che non può contribuire a problematizzare la categoria trattata.

Il racconto intitolato Lisa rappresenta il programma di ricerca etica. Sono qui evidenziati due aspetti problematici: la dipendenza dell’etica dalla logica e di conseguenza la necessità di apprendere, innanzitutto, la logica per poi poterla applicare ai problemi etici. Alcuni problemi si presentano in un contesto specifico con una pretesa di universalità, ma in realtà sono considerati importanti solo per una certa tradizione filosofica. Di fatto nella storia dell’umanità ci sono casi di ragionamenti logici assolutamente corretti che hanno poi prodotto delle etiche esecrabili (come lo sterminio nazista degli ebrei, ad esempio). Ugualmente, vi sono esempi di attitudine etica espressa da persone che possiedono una forma rudimentale di logica sillogistica. In tali casi alla base dell’etica non è la logica, bensì un certo atteggiamento e modo di intendere la condizione sociale e la vita umana.

Riguardo ai racconti un aspetto contraddittorio è dato da due principi di lavoro che non sembrano facilmente conciliabili. Da un lato, i temi di cui discutere debbono nascere degli interessi degli alunni, dall’altro tutte le discussioni, devono iniziare dalla lettura di un frammento di qualche racconto.

Inoltre, i modi di essere e di agire che affiorano dai racconti sono dati da una razionalità nella quale non ha alcun peso il desiderio, ad esempio, o il potere, e questo li rende poco reali anche per il contesto culturale che in essi predomina. I racconti sono intenzionalmente poveri da un punto di vista letterario e ciò è giustificato dal fatto che l’aspetto letterario può distrarre gli alunni dal punto focale della discussione, sta di fatto che la fiction filosofica proposta da Lipman somiglia più a un dibattito filosofico che finisce per offuscare l’interessante legame tra letteratura, esperienza e soggettività, quando questa interazione si rivela invece molto feconda e arricchente.

Va riconosciuto a Lipman il merito di aver identificato due aspetti tra loro connessi come caratterizzanti di un certo tipo di scuola: la cattiva reputazione del dialogo e della parola libera da coercizioni da un lato, dall’altro l’enfasi del testing, vale a dire l’attenzione prevalente al momento dell’esecuzione, il momento dei compiti e delle verifiche circa l’acquisizione delle conoscenze trasmesse dal docente. In una scuola così concepita è prioritario il ruolo dell’ascolto, rispetto a quello del parlare come espressione del proprio punto di vista. Si tratta di una comunicazione/relazione educativa dove viene posta molta più attenzione agli errori del discente che alla possibile originalità del suo pensiero.

Nuovi bisogni formativi oltre la P4C

Il contesto sociale odierno può recepire in modo costruttivo il significato complessivo e i contenuti del curricolo della Philosophy for Children, ma si compone di scenari culturali e contestuali molto diversi da quelli in cui tale metodo è stato ideato, che fanno emergere nuove problematiche e nuove esigenze formative. Non si può ignorare che il soggetto educativo verso cui si intende orientare l’educazione etico-sociale presenta caratteristiche del tutto nuove rispetto al passato e si colloca in un contesto sociale altamente complesso. Pertanto, riteniamo che non sia importante discutere sul fatto se la Philosophy for Children costituisca o non costituisca un buon metodo, o il migliore dei metodi per educare il soggetto etico. Non si tratta di essere a favore o contro il programma ideato da Lipman, quanto piuttosto di valutare cosa attingere dal suo metodo, tenendo conto del contesto socio-educativo contemporaneo e delle possibilità che possono offrire altri strumenti a integrazione del lascito di questa significativa esperienza educativa.

Il «conosci te stesso» che si realizza attraverso lo scambio comunicativo, elemento prevalente nel curricolo della P4C, può ricondurre a una prospettiva e a una dimensione morale prevalentemente individualista, diversamente dalla prospettiva dell’educazione etico-sociale dove l’accento si pone sulla dimensione del confronto e del dialogo come negoziazione e co-costruzione di significato.

La complessità caratterizza la società contemporanea, dove disomogeneità e contraddizioni si riverberano sui piani del vissuto individuale e collettivo. A fronte di realtà tanto mutevoli ciò che si diffonde è l’incertezza e il disagio, mentre sembra dissolto il sentimento del noi su cui si è retta l’età moderna (Lyotard, 1981); la solitudine appare come la nota distintiva del presente, che probabilmente si accentuerà ancor più a causa della dura esperienza della pandemia da Covid-19. Va ricordato che al centro del dibattito pedagogico degli ultimi anni c’è stata l’educazione affettiva, che in ambito scolastico sembrava essere trascurata, e il disagio esistenziale diffuso tra le nuove generazioni, le quali sembrano patire in modo più marcato gli effetti negativi delle trasformazioni sociali. D’altra parte, la sfera emotiva del singolo individuo risente fortemente degli atteggiamenti e delle visioni del mondo che attraversano e caratterizzano una data società in un definito periodo storico (Oatley, 2007). Si è rilevata negli ultimi decenni una richiesta crescente d’aiuto da parte di genitori e di educatori per l’aumento di patologie psichiatriche e del malessere tra i ragazzi, una richiesta alla quale i tecnici della sofferenza non sanno dare risposta.

Fattori individuali e sociali sembrano spingere gli adolescenti ad assumere comportamenti che esprimono disagio, talvolta reattivi, trasgressivi o anche devianti, che frequentemente la società tende a rimuovere (Benasayag e Schmit, 2007). In alcuni casi essi tendono ad estraniarsi dalla dimensione civile e collettiva, per indirizzarsi verso l’isolamento o a identificarsi e aggregarsi in piccoli gruppi di pari. La frequenza dei disturbi alimentari evidenzia per certi versi una difficoltà ad accettare il proprio corpo nella sua unicità, per altri un totale conformismo riguardo all’assunzione acritica di mode sul piano estetico, comportamentale e relazionale che arrecano talvolta anche gravi danni alla salute sul piano fisico e/o psichico. Si pensi alle interazioni tra sfera sociale e sfera virtuale (Fabris, 2018) e agli effetti devastanti che in alcuni casi producono sui ragazzi, come ad esempio i giochi dell’orrore. Tra questi il Blue whale, ad esempio, che si è diffuso in diversi Paesi e a causa del quale qualche anno fa dei ragazzi hanno perso la vita, dove un «tutore» virtuale spingeva gli adolescenti che accettavano di partecipare al gioco ad affrontare delle prove autolesive e letali, come il «tagliarsi» e saltare da un edificio.

Un altro fenomeno complesso che va preso in considerazione è l’hate speech, il linguaggio che incita all’odio che si coglie e si diffonde attraverso diversificati canali, soprattutto attraverso i social network e i new-media (Ferrini e Paris, 2019). Si tratta di un linguaggio aggressivo e violento che viene utilizzato anche sui canali televisivi per commentare qualsiasi tema della vita quotidiana, ma è soprattutto la rete a portarlo in ogni casa, veicolando l’intolleranza xenofoba, omofoba, razziale, religiosa, sociale, di classe. Sono i bambini e gli adolescenti, i soggetti più vulnerabili, a pagarne le conseguenze, che possono diventare le vittime del cyberbullismo, ma possono correre un altro tipo di rischio non meno grave che è quello della normalizzazione di tale linguaggio e dei comportamenti che vi sono dietro, una accettazione e di conseguenza una minore sensibilità ai significati che racchiude.

L’educazione etico-sociale nella società contemporanea

Tutti i soggetti giovani sono esposti al rischio che la comunicazione violenta diventi una modalità deviata per esprimere il proprio disagio. L’espressione dell’odio e della violenza nello spazio virtuale può apparire ai ragazzi come qualcosa che rientra nella normale condotta di cui non si percepiscono gli effetti. Proprio per questo è importante un intervento educativo al fine di indirizzare bambini e adolescenti verso la logica del rispetto, dell’accoglienza, dell’empatia, del bene comune. In questo senso l’educazione etico-sociale risulta al passo con i tempi e adeguata alla cultura dell’oggi.

L’accenno alle diverse forme del disagio adolescenziale sopra esposta evidenzia delle difficoltà sociali ed emotive, che possono ostacolare la progettualità esistenziale, come pure la dimensione relazionale. Questo scenario ha fatto sì che in ambito scolastico venissero promossi interventi educativi di sensibilizzazione e di contrasto al bullismo, ad esempio, alla violenza di genere, all’uso consapevole e responsabile di internet, sugli effetti devastanti delle sostanze stupefacenti e sulle tossicodipendenze. Tutte iniziative, quelle elencate, che sicuramente sono molto importanti sul piano formativo ma anche in questo caso si tratta di una comunicazione asimmetrica, dove all’adolescente vengono trasmesse informazioni (messaggi) che dovrebbero sensibilizzarlo in modo da influenzare in maniera positiva la sua condotta e le sue scelte. Tutto questo avviene, però, senza che vi sia una partecipazione attiva da parte degli alunni, un confronto e una assunzione di responsabilità riguardo a quei contenuti educativi che sono stati pensati per tutelare e migliorare le loro vite e la vita della comunità; si tratta in questo caso di un apprendimento di primo livello che non consente l’acquisizione e il consolidamento di abiti mentali che influenzeranno a lungo termine un certo tipo di condotta e visione del mondo (Baldacci, 2012).

Il ruolo delle emozioni

L’educazione etico-sociale deve partire da un atteggiamento di riflessione critica sia introspettiva (intrapersonale), sia interpersonale. Nel periodo della vita che corrisponde all’adolescenza le emozioni sono grandi motori dell’azione, per cui se l’intento educativo è quello di formare un soggetto etico che è in questa fascia di età, è opportuno tener conto del ruolo svolto emozioni nello sviluppo e consolidamento di atteggiamenti e comportamenti. Ne consegue che alla base o contestualmente alla riflessione etico-morale è importante che il ragazzo acquisisca una consapevolezza delle emozioni che lo abitano e dell’uso che ne fa o che può farne per «governarle» al meglio.

Le emozioni sono connesse ad interessi e scopi personali, ma hanno una forte valenza sociale e giocano un ruolo importante nel rapporto con il prossimo; esse sono culturalmente definite, poiché nella loro modalità di espressione si collocano in un sistema di norme tacite date dalla cultura di appartenenza del soggetto (Anolli, 2004). Le emozioni, mentre in alcuni casi sono utili e costruttive, in altri possono essere distruttive e/o autodistruttive. Il senso del motto «conosci te stesso», che ha origine dal tempio di Delfi è secondoKeith Oatley, che «[…] quel che dovremmo conoscere sono i nostri Sé emotivi, le nostre emozioni» (2007). Ciò evidenzia quanto sia importante imparare a riconoscere le emozioni, a non averne paura e ad orientarle il modo costruttivo (Oatley, 2007, p. 47).La possibilità della crescita personale ed anche di una educazione etico-sociale sta, dunque, anche nella capacità di riconoscere le emozioni proprie e altrui, di comprenderle e governarle. Ciò può avvenire attraverso la conversazione e altri approcci volti alla consapevolezza di sé, per raggiungere un benessere soggettivo che permetta a ciascun individuo di vivere a pieno e al meglio la propria esistenza in una condizione di equilibrio tra le proprie aspirazioni, relazioni, opportunità e i vincoli dati dal contesto di vita.

La narrazione e il dialogo

L’educazione etico-sociale rappresenta per la scuola una vera sfida, soprattutto con preadolescenti e adolescenti, i quali si trovano in una fase della vita in cui tendono ad uniformarsi e identificarsi con il gruppo di pari. Esprimere la propria «diversità», o condividere un’esperienza personale è impresa non facile, pertanto sono necessari una strategia educativa e strumenti adeguati affinché tra le diverse forme di resistenza e difficoltà ad esprimersi che i ragazzi possono manifestare si possa «aprire un varco» per consentire un’apertura al dialogo e alla discussione.

Le scelte morali si pongono come aporie. L’esperienza morale può essere, difatti, intesa come quella di una persona di fronte a un conflitto o un dilemma che richiede una decisione. L’esperienza morale è particolare in quanto consiste nel prendere una decisione di per sé difficile, intrapersonale e destabilizzante. Il conflitto interpersonale, invece, è una situazione in cui «la cosa giusta da fare» è messa in discussione da una voce esterna, da un’altra persona (in ambito educativo dal gruppo di pari, dal gruppo-classe). La narrazione (attraverso il confronto e il dialogo, o anche la rappresentazione, la drammatizzazione, come si dirà più avanti) dello stesso conflitto morale consente allo studente di considerare altre possibilità di azione in circostanze simili e di assumersi la responsabilità delle sue idee e della sua scelta. Per poter affermare la propria prospettiva morale il soggetto deve, dunque, poter «narrare», esternare la propria esperienza vissuta, esprimendo il significato che le ha attribuito. Questa forma di narrazione non può avvenire senza la presenza dell’Altro, senza la presenza di un pubblico attento, ricettivo ed anche interattivo. Nel contesto scolastico la creazione di uno spazio riservato alla narrazione di sé permette agli alunni di riflettere sugli ostacoli morali e sulle sfide della propria esistenza, di varcare la soglia della passività per affacciarsi su un inizio di autorità/responsabilità morale. La narrazione di sé, tuttavia, non può risolvere tutto. Gli studenti dovrebbero anche ispirarsi a delle storie altrui, attingendo ad esempio a romanzi, ma anche opere teatrali, poesie, biografie e film. Difatti, il senso morale di un individuo può anche intendersi come il frutto dell’interazione fra la narrazione di sé e le storie di altri, così come afferma Ronald W. Morris. Per questo motivo è importante fare in modo che i ragazzi entrino in contatto con l’esperienza e la saggezza espressa dalle tante storie tratte dalla storia, dai miti o romanzi attraverso i quali possono riappropriarsi delle loro personali storie.

È l’approccio narrativo che ci invita a pensare attraverso le storie, fornendoci gli strumenti cognitivi e simbolici che consentono il dialogo tra la propria esperienza e quella degli altri (Morris, 2002, p. 137).

La narrazione attraverso il gioco drammatico

Rispetto al dialogo, il debate, l’uso di giochi di ruolo e di simulazione consente agli alunni di esprimersi in modo diverso. L’approccio narrativo e il gioco drammatico sono due modi di raccontarsi che possono essere finalizzati all’educazione etico-sociale. Entrambe le situazioni fanno sì che l’alunno si ponga come autore: nell’approccio narrativo è l’autore della propria voce morale, nel gioco drammatico deve essere l’autore del suo personaggio; entrambe le situazioni sono rappresentazioni dell’esperienza vissuta. Sia nella rappresentazione narrativa che in quella teatrale, lo studente dà senso alla sua esperienza ed esprime una parte della sua realtà in modo originale e in tutti e due i casi è richiesto un contesto particolare e la modalità relazionale.

Tra le tecniche di simulazione il Role Playing consiste nell’assunzione di comportamento in una situazione immaginata. È un gioco attraverso cui i giocatori assumono uno o più ruoli o personaggi in uno spazio immaginario dove c’è conversazione, scambio dialettico e dove si proiettano eventi fittizi, con un’ambientazione della narrazione che può ispirarsi anche ad un romanzo, a un film, a un contesto storico, o anche realistico.5

Nel gioco di ruolo l’aspetto importante è il campo di azione immaginario che ha un doppio effetto sull’allievo: quello di creare la distanza attraverso il gioco, attraverso la finzione e un personaggio che deve rappresentare, e quello di permettergli comunque di coinvolgersi personalmente, dato che per improvvisare sull’argomento proposto deve necessariamente attingere dal suo campo di esperienza e conoscenza.

Il dispositivo della discussione

Per un’etica della comunicazione è necessaria un’etica della discussione. La caratteristica di questa è il decentramento, la capacità di tenere conto del punto di vista di tutti gli interessati, pertanto l’approccio non consisterà nel forzare la discussione in una direzione o in un’altra, quanto piuttosto in un ampio scambio di argomentazioni e poi, conformemente ai punti di vista, nella individuazione di uno standard che consenta a tutti di condividere una determinata scelta o punto di vista. La prospettiva di Habermas chiarisce questo aspetto (Habermas, 1993). Alla luce della sua interpretazione il senso etico della discussione consiste nel superamento del punto di vista del rispetto di Sé e dell’Altro per adottare il punto di vista universale o, in ogni caso, il punto di vista di tutti gli interessati sul piano pragmatico, etico o morale; ciò consiste nello sviluppo da parte degli alunni dell’argomentazione necessaria per impegnarsi nella vita pubblica, dunque nell’iniziazione alla filosofia politica e alla filosofia del diritto. Questo fa comprendere come la Res publica, la democrazia, per essere viva debba essere partecipativa e partecipata.

L’utilizzo del dispositivo della discussione, che non è senza difficoltà per l’insegnante, ricalca quell’intento della Philosophy for Children che ha individuato nella filosofia, o meglio nel pensare filosoficamente, una modalità che non induce mai alla conformità, che non accetta punti di chiusura, i non-luoghi del pensiero, ma rende sempre possibile continuare a ricercare e domandare. È questo il senso e la dimensione dell’Educazione etico-sociale e di una ricerca pedagogica orientata a trovare paradigmi formativi adeguati al benessere e alla crescita della persona e della comunità.

In fondo la ricerca può intendersi come un viaggio vissuto non solo come spostamento verso un punto di arrivo, bensì come scoperta e conoscenza in continuo divenire. Per dirla con un altro linguaggio, quello della letteratura e della poesia: «La fine di un viaggio è solo l’inizio di un altro. Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo quel che si è già visto, vedere in primavera quel che si è visto in estate, vedere di giorno quel che si è visto di notte, con il sole dove la prima volta pioveva… Bisogna ritornare sui passi già fatti, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini» (Saramago, 2015).

Bibliografia

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1 Università degli Studi di Urbino «Carlo Bo».

2 Università degli Studi di Urbino «Carlo Bo».

3 I centri impegnati a sostenere e diffondere la Philosophy for Children sono numerosi negli USA, ma anche in America Latina, in Europa e fanno riferimento al ICPIC, l’International Council of Philosophical Inquiry with Children. C’è una federazione europea che si impegna a formare gli educatori e fare ricerca sul curricolo dando valore educativo alla filosofia. Matthew Lipman fondò l’Institute for the Advancement of Philosophy for Children presso la Montclair State University, USA.

4 Poiché la traduzione non consentiva di riproporre il gioco di parole e il suono del titolo originario, fu individuato un titolo che fosse pertinente al contenuto e agli intenti del testo.

5 Oggi il gioco di ruolo ha una connotazione ludica e come espressione può indicare indistintamente diverse tipologie di giochi che si differenziano sia per il mezzo che utilizzano, sia per la modalità della loro gestione. All’origine il termine role playing fu usato nel 1934 dallo psicologo Jacob Levi Moreno che negli Stati Uniti dove era emigrato ideò la tecnica dello «psicodramma» utilizzata anche oggi nella psicoterapia.

Vol. 7, Issue 1, April 2021

 

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