I bisogni e le strategie linguistiche: un questionario tra il personale educativo
Prima di progettare un intervento didattico nel campo dell’educazione linguistica e interculturale è necessario analizzare il contesto in cui ci si trova a operare e ricercare le sue potenzialità, le sue esigenze e le sue criticità. Attraverso un questionario, rivolto al personale educativo del Comune di Siena, ho verificato i bisogni in materia di educazione linguistica, delle abitudini linguistiche all'interno dei servizi e l'analisi delle strategie linguistico-educative messe in atto, in maniera consapevole, durante le attività didattiche e di routine nelle classi plurilingui. I dati raccolti hanno consentito riflessioni interessanti e hanno permesso di individuare sia le criticità sia i campi d’azione nei quali è necessario intervenire più rapidamente.
Il profilo del personale educativo
Nel Comune di Siena operano 52 educatrici negli asili nido e 30 insegnanti nelle scuole dell’infanzia. I questionari a loro rivolti hanno riscontrato un interesse diverso: negli asili nido il questionario è stato compilato dal 90% delle educatrici e nelle scuole d’infanzia dal 63%. La presenza di bambini stranieri nelle scuole d’infanzia è per di più concentrata in alcune scuole e la sporadica presenza di alcuni bambini di madrelingua non italiana in altre non fa emergere particolari criticità tanto che l’interesse delle insegnanti si rivolge verso altre azioni programmatiche. Nell’insieme i questionari compilati rappresentano l’80% del totale e i risultati possono quindi essere considerati estensibili all’intera categoria. I risultati ottenuti sono stati sufficienti per determinare il profilo linguistico del personale educativo e per iniziare un percorso di riflessione su tematiche finora poco considerate quali l’educazione linguistica, la valorizzazione delle LM e l’importanza del parlato dell’insegnante come modello educativo.
L’età anagrafica, l’esperienza lavorativa e il titolo di studio
Più della metà del personale educativo è al di sopra dei 46 anni (figura 1), soprattutto negli asili nido dove l’ultimo concorso risale a oltre dieci anni fa. Il personale, sebbene privato della vitalità progettuale che dovrebbero portare con sé le nuove assunzioni, ha a suo vantaggio un’elevata anzianità di servizio (figura 2) che comporta maggiori competenze acquisite sul campo. Nonostante la Laurea non sia un requisito necessario, una parte importante del personale (il 38%) ha conseguito comunque il titolo, due sono in possesso di un Master di I livello.
Figura 1 – Anzianità di servizio
Figura 2 – Età anagrafica del personale educativo
Le competenze linguistiche
Tutte le educatrici, tranne una, sono di madrelingua italiana e hanno competenze linguistiche, per lo più inglese o francese, come risultato di istruzione scolastica.[1] Si rileva un personale monolingue italiano con limitate competenze in lingue straniere che però sono riconosciute abbastanza/molto importanti tra le educatrici del nido (37 su 38), per niente/poco tra le insegnanti della scuola d’infanzia (10 su 19).
Difficoltà linguistiche incontrate con le famiglie e con i bambini stranieri
Le educatrici del nido dichiarano di avere incontrato per niente/poco difficoltà linguistiche con i bambini mentre abbastanza con le famiglie. Le insegnanti della scuola d’infanzia dichiarano il contrario. La compresenza nei servizi educativi di bambini di comunità di diverse lingue, culture, religioni non è mai stata secondo la maggior parte del personale educativo (61 su 66) fonte di tensioni o conflitti. Alcune riportano però esperienze nelle quali qualche tensione è emersa rispetto alla differenza dello stile educativo tra famiglia e scuola, a una visione diversa del bambino, alla difficoltà di dare un senso comune all'esperienza scolastica del bambino e di condividere l’idea del servizio. Un terreno scivoloso è quello religioso: tensioni vengono segnalate in merito all’incomprensione verso l’alimentazione per motivi religiosi ma anche pregiudizi generici da parte di famiglie autoctone soprattutto verso etnie di religione musulmana. Tutte le educatrici dei nidi non hanno mai fatto richiesta di un mediatore linguistico e culturale; diversa appare la situazione nelle scuole d’infanzia dove emerge una maggiore difficoltà e dove è sentita la necessità di personale specializzato e competente. La maggior parte delle intervistate ritiene che i bambini nell’ambiente extrascolastico parlino soprattutto la lingua materna.
Le abitudini linguistiche
Tutte le intervistate riconoscono il ruolo del parlato del docente e del fatto che rappresenti una variabile rilevante nel processo di apprendimento della lingua italiana per i bambini stranieri (figura 3).[2] La quasi totalità delle intervistate dichiara di usare per niente o poco il baby talk, la varietà linguistica usata spesso dagli adulti per rivolgersi ai bambini. L’idea che le insegnanti dei servizi prescolastici usino questa varietà linguistica è, a torto, ampiamente diffusa nella collettività ma trova scarsi riscontri nella realtà. Si tratta piuttosto di una varietà linguistica usata dai genitori, familiari o da adulti che occasionalmente si trovano a contatto con i bambini; le educatrici e le insegnanti considerano i bambini piuttosto come interlocutori attivi nello scambio comunicativo perché prima che di bambini si tratta di individui e sono solite rivolgersi a loro così come agli adulti, in un rapporto paritario, con modalità autentiche e con rispetto. Il ricorso al baby talk avviene solo in quei momenti di intimità tra adulto e bambino, in quelle interazioni sociali nelle quali l'attenzione si focalizza l'uno sull'altro, in un’interazione faccia a faccia che implica sguardi, contatti fisici, vocalizzazioni.
Figura 3 – Importanza del parlato del docente
Strategie linguistiche delle insegnanti
Sia le educatrici sia le insegnanti hanno dichiarato di modificare poco o per niente il proprio modo di parlare durante le attività didattiche o nelle routine alla presenza di bambini stranieri. La percezione che le insegnanti hanno del proprio modo di parlare in una classe plurilingue consiste tendenzialmente in un uso piuttosto limitato dell’eloquio enfatico nelle attività didattiche, uso che diventa praticamente nullo nelle operazioni di routine. Rispetto all’uso di un vocabolario di base le risposte si dividono equamente tra chi ne fa un uso consistente e chi no, mentre strategie quali la riformulazione, ripetizione e semplificazione sono abbastanza/molto frequenti soprattutto nelle operazioni di routine che vedono un uso importante anche di codici non verbali.
Il fatto che ci sia una differenza, seppure leggera, tra le due situazioni, cioè tra le attività didattiche e le routine, dimostra che c’è l’attenzione dell’educatrice a non immobilizzare il bambino in una comunicazione impoverita come può essere talvolta quella delle routine quotidiane. L’educatrice non si limita pertanto solo ai bisogni primari della comunicazione ma cerca di creare dimensioni dinamiche durante le attività didattiche attraverso input linguistici e metalinguistici anche più complessi e variabili, creando contesti di apprendimento interattivo e proponendo attività motivanti che creino nuovi bisogni linguistici. La grande responsabilità dei servizi alla prima infanzia è quella di garantire e assicurare la qualità e la quantità degli input. Qui, in maniera completamente diversa rispetto agli altri contesti educativi, il parlato del docente e l'input sonoro cui sono esposti contemporaneamente bambini italiani e stranieri hanno un ruolo determinante proprio perché, non potendo avvalersi ancora del codice della scrittura piuttosto che fare una riflessione metalinguistica, tutto lo sviluppo del linguaggio e l'acquisizione di una o più lingue passa esclusivamente dall'oralità. Dal punto di vista fonologico le educatrici e le insegnanti dichiarano di non ricorrere all’aumento del volume della voce e solo una minima parte ritiene di rallentare il ritmo ma sostengono di fare uso abbondante di segnali fatici e cinetici per accompagnare il discorso, nonché un maggiore ricorso a deittici.
La questione del bilinguismo precoce e simultaneo
La metà del personale docente ritiene che la presenza di bambini stranieri non richieda competenze particolari mentre l’altra metà dà indicazioni molto precise su elementi che ritiene indispensabili e che sente come carenti nella propria preparazione e formazione. È una divisione molto netta che distingue due approcci diversi, in cui l’uno non prevale sull’altro. Tra le competenze che le insegnanti ritengono importanti per soddisfare le esigenze delle nuove generazioni di immigrati troviamo una maggiore conoscenza delle culture dei paesi d’origine, usi, costumi, abitudini, storia e tradizioni, indispensabili per raggiungere, attraverso un atteggiamento più aperto e flessibile, una maggiore relazione ed empatia con le famiglie. In assenza di mediatori linguistici e culturali, un approfondimento interculturale e antropologico è sentito come necessario per garantire una buona gestione delle diversità nella scuola così come per evitare gaffe ed equivoci.
Rispetto alla questione linguistica ritengono che una maggiore competenza plurilingue, almeno delle lingue veicolari come l’inglese o il francese, faciliterebbe i rapporti con le famiglie e che comunque è necessario mettere in atto un modo di semplificazione delle comunicazioni scolastiche pensate e scritte solo per un pubblico italofono. Secondo l’80% del personale la full immersion linguistica e culturale dei bambini nei servizi educativi per la prima infanzia è di per sé sufficiente a garantire un apprendimento della lingua italiana tale da conseguire livelli di competenza elevatati.[1] Le insegnanti che invece ritengono non sufficiente l’apprendimento spontaneo indicano alcune strategie, tecniche, materiali o sussidi didattici ritenuti importanti nella progettazione di un percorso di apprendimento linguistico negli asili nido e nelle scuole d’infanzia. Da alcune emerge l’esigenza di maggiore attenzione alla lettura ad alta voce, alla scelta dei libri illustrati, alla drammatizzazione e a tutte quelle attività che prevedono un maggiore sviluppo e promozione delle capacità espressive e di comunicazione. Altre insegnanti indicano la necessità di una particolare attenzione verso attività specifiche dove si possa valorizzare le lingue d’origine indicando come strategie possibili un maggiore coinvolgimento dei genitori nei percorsi linguistici e una loro partecipazione diretta alle attività attraverso strumenti quali le fiabe, la storia, la musica. Tutte le insegnanti sono consapevoli che l’acquisizione della lingua materna simultaneamente alla lingua italiana non rappresenta in nessun modo un ostacolo per lo sviluppo cognitivo del bambino. Maggiore incertezza invece c’è sulla possibilità che possa rappresentare un vantaggio: 46 credono che l’acquisizione simultanea della LM rappresenti un vantaggio per la futura riuscita scolastica del bambino, 11 ritengono che non lo sia mentre 10 dichiarano di non sapere (figura 4).
Figura 4 – LM vantaggio per L2
Figura 5 – Obiettivo prioritario
Le lingue materne non sono riconosciute come risorse nell’acquisizione dell’italiano L2 e questo determina minore sostegno e promozione della situazione del bilinguismo. Se, infatti, la programmazione didattica di gran parte delle scuole degli ultimi cinque anni ha visto affrontare il tema dell’intercultura e della valorizzazione delle differenze, non c’è stata nessuna attenzione verso l’aspetto linguistico e la valorizzazione del plurilinguismo. La promozione della competenza plurilingue non è, per oltre la metà del personale, da considerarsi un obiettivo formativo prioritario nei servizi per la prima infanzia (figura 5). Diventa urgente quindi dare delle risposte immediate e fornire gli strumenti adeguati a coloro che sentono come prioritaria la questione del bilinguismo e poi cercare di sensibilizzare sulla questione il resto del personale.
Conclusioni
È possibile riconoscere due distinti approcci alla questione della lingua e del bilinguismo. Se la maggior parte del personale riconosce l’educazione interculturale come fondamentale nella scuola e nella società contemporanea, non altrettanto viene considerato l’aspetto linguistico, anche se l’assioma lingua/cultura è ampiamente condiviso. Il messaggio da trasmettere è che la possibilità di far crescere i bambini bilingui è un’occasione preziosa da non sprecare, possibilità considerata ancora fuori dalla norma della nostra società. È necessario procedere quindi a una giusta informazione sui vantaggi che il bilinguismo precoce e simultaneo comporta nello sviluppo cognitivo del bambino, nel mantenimento della diversità linguistica delle lingue minoritarie e nella costruzione di una società finalmente plurilingue. Le insegnanti dei servizi educativi per la prima infanzia devono diventare consapevoli dell’importanza del ruolo che rivestono perché le loro decisioni, fondamentali nella crescita dei bambini, sono spesso seguite dalle famiglie. Il bilinguismo non è, infatti, una naturale conseguenza del fatto che i genitori parlino una lingua diversa e non è un obiettivo formativo che riguarda esclusivamente l’ambito familiare. Ignorare questa risorsa è una contraddizione per tutti quei servizi che si dichiarano, a ragione, educativi.
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[1] Tutti gli studi scientifici smentiscono questa ipotesi. Per un approfondimento vedi Cummins, Fabbro e Titone.
[1] Ventuno intervistate ritengono avere scarse competenze, 27 sufficienti, 12 buone e 3 ottime; 2 hanno certificazione linguistica.
[2] Il 61% risponde che è molto importante, il 39% che è abbastanza importante.