Introduzione

Sebbene la diffusione della cosiddetta rivoluzione digitale nel nostro Paese non possa considerarsi del tutto compiuta (in realtà quasi 22 milioni di persone, pari al 38,3% della popolazione residente non utilizza internet) (Istat, 2014), essa è certamente rapida (si osservano tassi di crescita crescenti) e ampia (attraversa, seppur in misura diversa, le differenze territoriali, sociali, generazionali e di genere). Essa è, soprattutto, pervasiva della vita delle persone. Al punto che dovremmo considerarla un fatto “naturale”, capace di incidere sull’intera fenomenologia della nostra esperienza (Simone, 2012). Rispetto a quanto è accaduto con i media a stampa e analogici, infatti, i media digitali hanno il potere di far convergere su se stessi moltissime attività diverse, legate all’informazione, allo svago, al lavoro, alla comunicazione e alla partecipazione a gruppi sociali. Ne consegue che essi abbiano un potenziale di influenza molto elevato sulle diverse dimensioni della nostra vita personale, sociale, culturale e professionale.

In particolare, la presenza delle tecnologie digitali investe i contesti educativi e quelli dell’insegnamento e dell’apprendimento dei quali costituisce una variabile specifica. L’essere divenuta una condizione caratterizzante i contesti educativi implica di farsene carico in rapporto ai diversi problemi che di volta in volta vengono assunti a oggetto di indagine e di riflessione pedagogica, anche nel caso in cui questi non possano essere strettamente ricondotti allo specifico ambito dei problemi propri delle tecnologie dell’istruzione. Dal punto di vista dell’epistemologia pedagogica questo comporta la necessità che anche gli studi che non ricadono nel campo specifico delle tecnologie dell’istruzione o della media education  considerino caratteristiche e entità del fenomeno quali fattori imprescindibili dell’esperienza educativa. Ciò favorisce la costruzione di un atteggiamento critico intorno a questo tema, capace di orientare la prassi pedagogica (Baldacci, 2009).

In questo contributo, in particolare, discuteremo i presupposti teorici dell’uso didattico di artefatti digitali per l’apprendimento della conoscenza. Articoleremo il contributo in quattro parti. Nella prima, di carattere introduttivo, si forniscono alcuni dati per circoscrivere l’entità e la qualità del fenomeno di diffusione delle tecnologie digitali nel nostro Paese. Nella seconda parte si analizzano le caratteristiche dei media digitali, con particolare riferimento all’idea di agentività. Nella terza parte si individua il paradigma socio-costruttivista come paradigma coerente con una didattica che integri le tecnologie digitali all’interno delle situazioni di insegnamento-apprendimento. Nell’ultima parte, infine, si presentano due modelli di apprendimento elettronico che possono essere presi a supporto per trarne orientamenti utili alla progettazione didattica.

La diffusione dei media digitali. Uno sguardo al caso italiano

Cerchiamo di cogliere, attraverso qualche dato, i principali trend sull’entità e la qualità nell’uso didattico delle tecnologie digitali nel nostro Paese.

Relativamente all’entità del fenomeno, essa è certamente caratterizzata da un trend di crescita molto elevato. La percentuale di famiglie che dispongono di un accesso a internet nella propria abitazione, infatti, era il 2,3% nel 1997, il 15,4% nel 2000, il 42% nel 2008, il 64% nel 2014. Quest’ultima percentuale sale tuttavia all’89% per le famiglie con almeno un minorenne. Inoltre, sempre al 2014, circa un terzo degli utenti di Internet ha fatto ricorso a servizi cloud per accedere ai propri file (istat, 2001; 2009; 2014). La crescita, prevedibilmente, è ancora più marcata tra i lavoratori della conoscenza e della cultura. In base alle indagini dell’Istituto iard, dal 1999 al 2008 la percentuale degli insegnanti che afferma di aver navigato su internet per questioni attinenti la didattica nei tre mesi precedenti alla rilevazione passa dall’8,8% al 86,6% per gli insegnanti della scuola primaria, dal 15,6% all’86,6% per gli insegnanti della scuola secondaria di primo grado e dal 36,6% al 92,6% per quelli della scuola secondaria di secondo grado (Gui, 2010, p. 285).

L’indagine iard offre invece dati meno confortanti sulla qualità dell’uso didattico dei media digitali. Da una parte, infatti, si registra un atteggiamento generalmente positivo degli insegnanti rispetto all’integrazione delle ICT nella scuola; tale dato rimane invariato dal 1999 senza marcate differenze nell’ordine scolastico, nel tipo di scuola e nel genere. Positive, sebbene questa volta comprensibilmente segnate da una differenza tra scuola primaria e secondaria, anche le opinioni degli insegnanti sull’uso di internet da parte degli studenti per le attività di studio (Gui, 2010, p. 293). Dall’altra parte, se si prendono in considerazione le risposte degli insegnanti sull’uso regolare (almeno una volta a settimana) del pc e di internet in classe, le percentuali diminuiscono molto e la risposta è in maggioranza positiva solo nel caso in cui il loro impiego è finalizzato alla preparazione di documenti da presentare in forma stampata agli studenti. Ciò è confermato anche dalla percentuale, di poco superiore al 10%, degli insegnanti della scuola secondaria di I e II grado che richiede regolarmente (almeno settimanalmente) agli studenti di eseguire ricerche su internet. Il dato è all’incirca il medesimo per coloro che dichiarano di non averlo mai chiesto. L’uso di internet per ricerche e approfondimenti risulta dunque sporadico e, fatto non del tutto sorprendente, in misura più marcata nei licei rispetto agli altri istituti superiori (Gui, 2010, p. 297).

È interessante osservare che tale situazione non risente in maniera rilevante del fattore disciplinare. Se è vero che gli insegnanti di materie tecnico-applicative dimostrano di fare un uso giornaliero delle ICT più elevato rispetto ai colleghi di materie scientifiche, i quali a loro volta superano del medesimo valore percentuale gli insegnanti di materie umanistiche, in realtà il gap viene recuperato sulle risposte relative a frequenze d’uso minori. Ciò significa che gli insegnanti di materie umanistiche che usano le ICT sono quasi quanto i loro colleghi di materie scientifiche e applicative, ma il loro uso è più sporadico (Gui, 2010, p. 291). In sintesi, nonostante gli insegnanti esprimano un giudizio positivo sull’opportunità di un’integrazione delle tecnologie nella didattica, queste ultime rivestono un ruolo del tutto marginale: o se ne fa un uso sporadico oppure, quando l’uso è regolare, esso è finalizzato per lo più a facilitare o a velocizzare le tradizionali operazioni “carta e penna”.

L’agency degli artefatti digitali

Dal nostro punto di vista, il contrasto tra il giudizio degli insegnanti e il loro concreto agire didattico è indizio, seppur non esclusivamente, dell’incapacità di inserire le tecnologie digitali nel quadro di modelli didattici che ne prevedano un uso razionale, coerente e sistematico. Razionale, in quanto diretto a rendere più efficaci le proprie pratiche di insegnamento-apprendimento; coerente rispetto a finalità educative e obiettivi didattici determinati; sistematico, in quanto integrato all’interno di strategie didattiche specifiche e reiterato nel tempo. Insomma, il presupposto confortevole che attribuisce all’introduzione delle tecnologie effetti positivi sulla didattica è illusorio e rischia di essere controproducente, in quanto finisce con lo scoraggiare gli insegnanti che intendano riporre nelle tecnologie la speranza di migliorare sic et simpliciter i risultati dei propri allievi. Peraltro, due recenti rassegne sistematiche della letteratura esistente in materia giungono alla conclusione che, mentre alcuni studi evidenziano una correlazione positiva tra uso delle ICT e risultati scolastici, altri evidenziano una correlazione negativa, altri ancora, infine, indicano che non esiste alcuna relazione tra i due elementi (Trucano, 2005; Kozma, 2008). In generale, pertanto, la questione rimane aperta.

Un contributo in questa direzione può consistere nel chiarire da un punto di vista concettuale le implicazioni che le tecnologie digitali hanno sulle modalità di appropriazione e gestione della conoscenza. Nel seguito, pertanto, evidenzieremo gli aspetti che a nostro giudizio caratterizzano i processi di mediazione didattica al digitale ponendoli in relazione con alcuni modelli teorici dell’apprendimento in questo campo. La progettazione pedagogica di modelli educativi segnati dalle ICT, infatti, non può prescindere da principi psicopedagogici che li supportino da un punto di vista teorico.

Normalmente l’apprendimento elettronico, ovvero quello che si manifesta attraverso i media digitali, viene posto in alternativa all’apprendimento tradizionale, ovvero quello che avviene attraverso i media a stampa e analogici. Questo modo di porre il problema pone l’accento sul diverso tipo di mediazione didattica, intesa come terzo pedagogico della relazione allievo-sapere (Damiano, 2013), che caratterizza le situazioni di insegnamento e apprendimento. Ciò che caratterizza di volta in volta tale mediazione sono le interazioni (processi mediatori) che consentono a chi insegna e a chi apprende di giocare il proprio ruolo nella situazione di insegnamento e apprendimento. Il soggetto che opera la mediazione, con o senza il supporto dei media digitali, è l’insegnante (qui lasciamo da parte il caso delle situazioni di insegnamento a distanza). Attraverso adattamenti e bilanciamenti continui egli interviene per avvicinare il soggetto in apprendimento al sapere e, viceversa, il sapere al soggetto. Tale mediazione è dunque un’attività che va regolata a seconda del tipo di strategie didattiche adottate e dei risultati che si intendono raggiungere. Ciò avviene anche nel caso in cui la mediazione sia supportata da artefatti tecnologici. Escludendo le metodiche di istruzione programmata di matrice comportamentista (Skinner, 1970), infatti, tali artefatti costituiscono uno degli strumenti della mediazione attraverso il quale l’insegnante amministra la relazione allievo-sapere. Quali sono dunque, ci chiediamo, le caratteristiche di tale mediazione e quali le implicazioni sulla relazione allievo-sapere?

Prendiamo inconsiderazione, a questo proposito, la concettualizzazione proposta da Rézeau (2004) e adattata da Damiano (2013), nella quale il processo di mediazione viene riarticolato in quello di didattizzazione e di formazione, rispettivamente riferiti ai sistemi di interazione strumenti-allievo-sapere e strumenti-insegnante-sapere. Questa schematizzazione rende evidente il cambiamento di ruolo dell’insegnante, il quale interviene nella relazione allievo-sapere in maniera indiretta, attraverso la predisposizione degli artefatti e delle regole del loro uso. Sono dunque gli artefatti (strumenti mediatori), anziché l’insegnante, a intrattenere la relazione diretta con il soggetto che apprende.

Rezéau configura questo processo come processo di auto-insegnamento dell’alunno verso se stesso. Ciò comporta di considerare l’agentività (agency) di tali strumenti. Infatti essi sostengono il processo di auto-insegnamento in misura proporzionale alla “libertà” che concedono all’allievo di insegnare a se stesso. Rossi allude a qualche cosa di simile quando utilizza il concetto di affordance in riferimento all’ambiente tecnologico di apprendimento nel quale è inserito l’allievo (2011, p. 141). Sebbene si possano esprimere delle riserve sulla necessità di distinguere all’interno del sistema didattico i poli sapere e strumenti (infatti il primo può incorporare il secondo in una sua accezione procedurale specifica) (Damiano, 2013, p. 161), questa formulazione ha il pregio di porre l’accento sulla potenzialità degli artefatti tecnologici di fungere da “agenti” dell’apprendimento di chi opera con e su di essi.

Può essere utile, a proposito di agentività degli artefatti tecnologici, richiamare la distinzione proposta da Gardner e Devis (2014). Gli autori individuano nelle App le tecnologie attualmente dominanti della generazione giovanile, per effetto delle quali (ma qualcosa di analogo vale per le tecnologie digitali in generale) la capacità di costruire ed esprimere se stessi (Identità), la capacità di intrattenere relazioni interpersonali (Intimità) e la capacità creativa (Immaginazione) hanno subìto negli ultimi decenni una significativa riconfigurazione. L’indagine, compiuta attraverso l’analisi di una mole ingente di dati – conversazioni, interviste semi-strutturate, focus group condotti con educatori, insegnanti e adolescenti, nonché produzioni artistiche (racconti di scrittura creativa e produzioni grafiche) di studenti di scuola media inferiore e superiore, dal 1990 al 2011 – ha l’obiettivo di individuare i segni dei mutamenti introdotti dalle tecnologie.

Con riferimento ai media digitali (ossia, nella definizione degli autori, quel particolare tipo di tecnologie che rendono possibile la comunicazione di informazioni), gli autori evidenziano che essi hanno, come qualunque altro medium, il potere di strutturare abitudini. Né chi ne fa uso può evitare di costruirne. Tuttavia l’effetto trasformativo provocato dal loro impiego può essere di diverso segno, positivo o negativo. Può renderci passivi, assoggettati alle condizioni da questi definite, oppure può renderci attivi, liberi di sperimentare nuove azioni. Nel primo caso le tecnologie ci rendono App-dipendenti in quanto impongono un corso definito alle nostre azioni, alle nostre scelte e ai nostri obiettivi; nel secondo caso esse ci rendono App-attivi in quanto ci inducono a un atteggiamento esplorativo, a migliorare le proprie conoscenze e le proprie tecniche di lavoro. Per fare solo un esempio, immaginiamo che uno studente utilizzi l’app di Wikipedia dal suo device mobile. Se egli si limita a copiare o a parafrasare una voce per utilizzarla in un compito, fa un uso imitativo e riproduttivo della app; se invece utilizza la voce per iniziare la ricerca di informazioni ulteriori o se, addirittura, interviene a migliorare la voce, allora ne fa un uso attivo. In ultima analisi, la qualità dell’interazione con le tecnologie digitali per appropriarsi della conoscenza dipende dall’uso che facciamo di queste: per evitare la fatica di imparare o come punti di partenza per costruire conoscenze, coltivare idee o soddisfare interessi. Ovviamente esistono app che sono in parte imitative e in parte esplorative; allo stesso modo anche il comportamento individuale nell’uso di una stessa app può oscillare tra i due estremi. Tuttavia la stigmatizzazione di questi due approcci opposti può aiutarci a problematizzare la questione in rapporto all’uso didattico dei media digitali e al suo effetto sull’apprendimento.

Il frame socio-costruttivista per insegnare e apprendere al digitale

Veniamo dunque alle implicazioni dell’uso dei media digitali sull’apprendimento. Analizzeremo la questione da due punti di vista: quello che rivolge la propria attenzione alle principali caratteristiche dei media in rapporto all’appropriazione della conoscenza e quello che rivolge la propria attenzione ai comportamenti e ai processi connessi all’uso dei media.

Come abbiamo detto, una delle caratteristiche generali dei media digitali è che essi stimolano l’attitudine all’azione (sebbene non necessariamente, come si è già osservato, a “nuove” azioni). Seguendo una distinzione ormai classica (Cohen e Squire, 1980), questo significa che il tipo di conoscenza in essi implicata è in gran parte procedurale, anziché dichiarativa, legata al “sapere fare le cose” (che mobilita un agire con e su gli artefatti tecnologici), o al “conoscere facendo” (che mobilita un agire sul sapere attraverso gli artefatti tecnologici). Questo attribuisce al processo di appropriazione della conoscenza un carattere spesso implicito, tale per cui nel momento in cui si agisce non si è del tutto consapevoli di che cosa si stia imparando; legato a principi imitativi o associativi semplici (ad esempio, quando scopriamo come fare qualcosa osservando il comportamento di altri, o quando ci accorgiamo che due eventi si manifestano ripetutamente insieme); o anche legato a eventi fortuiti (ad esempio, quando si scopre come funziona qualcosa mentre stiamo facendo qualcos’altro). Inoltre, i media digitali consentono, tendenzialmente, un’applicabilità immediata dell’apprendimento; sono rispondenti agli interessi personali di chi li usa e sostengono la motivazione sia estrinseca sia intrinseca (Mammarella, Cornoldi e Pazzaglia, 2005).

A partire dalla cosiddetta “generazione 2.0”, infine, i media digitali sono anche, per loro stessa natura, “collaborativi” o “connettivi” (de Kerckove, 1999), legati a processi di condivisione, costruzione e produzione sociale della conoscenza. Ciò vale anche per la conoscenza di tipo dichiarativo, anch’essa intrinsecamente connettiva in quanto ipertestuale e perciò tale da conferire significato alle informazioni in ordine alle relazioni tra gli elementi (Buffardi e de Kerckove, 2011).

Questo modo di guardare ai processi di appropriazione della conoscenza si richiama a un approccio psico-pedagogico di matrice socio-costruttivista (Varisco, 2002). Com’è noto, tale paradigma fa storicamente seguito al paradigma cognitivista tradizionale, originariamente incentrato sullo studio dei processi “interni” alla mente, al quale oppone la tendenza a indagare la mente “dall’esterno”, a partire dai contesti sociali e culturali che le danno forma, anziché dai processi mentali e dalle rappresentazioni cognitive degli individui. Secondo questo paradigma, l’indagine sui processi di costruzione della conoscenza non può essere condotta indipendentemente dai contesti in cui tali processi hanno luogo e dalle relazioni socioculturali dai quali emergono.

In seno a questo paradigma si sono sviluppate tre grandi prospettive di ricerca: una linea costruttivista (che afferma il ruolo predominante del soggetto come “agente epistemico” impegnato in una relazione di adattamento all’ambiente nel quale agisce); una linea contestualista (che vede i processi di apprendimento e cognitivi contestualmente situati ed emergenti dalle relazioni tra soggetto, ambiente fisico e ambiente socioculturale); infine, una linea culturalista (che vede i processi mentali come “plasmati” dai contesti culturali nei quali si producono a mezzo del vivere sociale e delle narrazioni sociali che vi si instaurano). Dall’intersecarsi di queste prospettive sono scaturiti interessanti modelli interpretativi dei processi di appropriazione della conoscenza che assumono a comune denominatore i presupposti generali dell’approccio socio-costruttivista. In sintesi: l’interpretazione del processo di apprendimento come processo situato, ossia inseparabile dal contesto fisico, sociale e culturale nel quale ha luogo; attivo, ossia partecipativo ed emergente dall’esperienza; distribuito, ossia decentrato nell’interazione con artefatti, strumenti e sistemi simbolici presenti nel contesto didattico; collaborativo, ossia sostenuto dai processi di interpretazione, condivisione, trasformazione e costruzione della conoscenza attivati da una comunità di apprendimento (Santoianni e Striano, 2003).

Se ne ricavano modelli di insegnamento e apprendimento caratterizzati da una didattica attiva, partecipata e sperimentale, capace di esaltare la dimensione pratico-operativa dell’apprendimento (Calvani, 2001). Si pensi, in particolare, al modello che interpreta l’appropriazione della conoscenza come “un conoscere in pratica” (Lave e Wenger, 2006) e i contesti di formazione come “comunità di pratica”.

In base ai presupposti di questo modello, il conoscere è definibile non in astratto, ma a partire dalla pratica; anche la questione dell’apprendimento, pertanto, va posta nel contesto delle pratiche umane; al centro di queste ultime vi è un’esperienza di significato; significato che emerge da un processo di negoziazione che combina partecipazione e reificazione (Wenger, 2006, p. 157). Questo comporta che nella progettazione di una situazione di insegnamento e apprendimento ciò che conta è l’equilibrio tra la definizione delle forme di partecipazione che consentono l’ingresso in una pratica (prima attraverso forme di partecipazione periferica legittima, e successivamente di partecipazione piena) e la reificazione delle conoscenze che si intendono far apprendere (materiali, libri di testo, programmi, ecc.). La reificazione può pertanto favorire o ostacolare l’apprendimento inteso come processo emergente dalla pratica, a seconda che permetta o limiti la partecipazione alla pratica e, dunque, la negoziazione del significato in seno ad essa. In questa chiave, le situazioni di insegnamento e apprendimento mediate dagli artefatti digitali possono essere configurate a partire dalla combinazione dinamica di reificazione e partecipazione che tali artefatti pongono in essere. Nei termini del neologismo proposto da Gardner e Davis, le App-attive sono desiderabili in quanto realizzano modalità di reificazione e partecipazione che consentono la negoziazione dei significati. Più in generale, il paradigma socio-costruttivista fornisce, a nostro giudizio, una cornice adeguata nella quale inscrivere i processi di appropriazione della conoscenza mediati da artefatti digitali.

Gli attuali artefatti digitali infatti (si pensi a un qualunque ambiente digitale pensato per insegnare e apprendere: una piattaforma dedicata, un programma, una app, ecc.) reificano la conoscenza come patrimonio pratico che si genera in situazione, nella relazione tra oggetti e processi di interpretazione, trasformazione circolazione, condivisione.

L’integrazione di artefatti tecnologici di ultima generazione nelle situazioni di insegnamento-apprendimento, molto al di là di un loro ruolo strumentale per compiere più facilmente e più velocemente certe operazioni, può allora consentire ai soggetti in formazione di partecipare attivamente al processo di co-costruzione e co-gestione della conoscenza, attraverso una progressiva appropriazione mediata di contenuti e di strutture della conoscenza, di funzioni e processi cognitivi. In ciò alcuni studiosi ravvisano, non del tutto a torto, il segno della tendenza, recentemente affermatasi, verso una rimodulazione del paradigma epistemologico della didattica centrato (ma sarebbe meglio dire ri-centrato) sull’azione, come sistema mente-corpo-mondo che integra i processi di insegnamento-apprendimento e da cui emerge la conoscenza (Falcinelli, 2012; Rivoltella, 2012; Rossi, 2011).

Media digitali e modelli di apprendimento

Accanto a una lettura dell’esperienza di appropriazione della conoscenza come attività contestuale e situata, distribuita fra soggetti in interazione fra loro e con oggetti culturali e artefatti tecnologici, ne va posta un’altra che la interpreta come “realtà della mente” implicante processi cognitivi, intenzioni e motivazioni. A maggior ragione se tale lettura viene fatta in funzione della progettazione di efficaci itinerari di insegnamento-apprendimento. Rivolgiamo pertanto la nostra attenzione ai comportamenti e ai processi connessi all’uso dei media digitali.

Faremo riferimento, in particolare, a due modelli. Il primo è un modello di apprendimento elettronico, mentre il secondo è un modello di apprendimento multimediale. Entrambi i modelli sono di matrice cognitivista. Assumeremo, in generale, che i concetti chiave riferiti all’apprendimento elettronico e all’apprendimento multimediale siano validi per estensione anche per l’apprendimento mediato da artefatti digitali.

Il primo modello (Mammarella, Cornoldi e Pazzaglia, 2005) è stato elaborato a partire da schemi-quadro formulati per altri contesti (Cornoldi, De Beni e Fioritto, 2003) e declinati sulle specificità dell’apprendimento elettronico. Di matrice cognitivista, il modello cerca di spiegare i meccanismi cognitivi alla base dell’apprendimento elettronico. Esso è costituito da sei macrovariabili relative sia alle strutture cognitive implicate nel processo di apprendimento sia alle disposizioni motivazionali e affettive del soggetto che apprende: le abilità (strutture) cognitive; l’organizzazione della memoria a lungo termine; gli stili cognitivi; le abilità metacognitive; le motivazioni; le componenti emotive di personalità (Mammarella et al., 2005, p. 34). Sebbene da un punto di vista psicologico la tenuta del modello richieda di considerare le variabili nel loro complesso, di seguito affronteremo solo quelle che assumono una specifica connotazione in rapporto al carattere digitale dell’apprendimento, mentre ometteremo la descrizione di quelle variabili il cui significato è aderente a quello che assumerebbero nella descrizione dell’apprendimento in generale.

Tra le strutture cognitive coinvolte nel modello ci soffermeremo su quelle di percezione, comprensione, attenzione e memoria di lavoro, in quanto esse permettono l’accesso elaborato all’informazione in formato elettronico; l’indirizzamento delle risorse cognitive sulle informazioni rilevanti; il loro mantenimento per il tempo necessario alla loro rielaborazione.

Gli studi cognitivi asseriscono che la nostra capacità percettiva cambia nel tempo e diviene più “sensibile” a seconda dei media con cui operiamo. Esiste dunque una sorta di familiarità percettiva che viene acquisita nella pratica e che condiziona nel tempo la nostra capacità di apprendimento percettivo. Si tratta di un fattore rilevante anche dal punto di vista psico-pedagogico poiché è indubbio che l’introduzione delle tecnologie digitali provochi uno spostamento dalla comunicazione orale e scritta, propria dei cosiddetti media tradizionali, a una comunicazione che coinvolge in modo diretto i sensi uditivo, visivo e tattile. In particolare, nell’organizzazione e nella comprensione di un evento percepito online sembrano giocare un ruolo fondamentale sia l’esperienza precedente sia il tempo dedicato allo svolgimento dei compiti in rete (Mammarella et al., 2005, p. 38): gli studenti che passano più tempo on line mostrano percezioni più adeguate in un corso online di quelli che fanno poco uso della rete (Lorraine, 2002; Koohang, 2004). In altre parole, è ragionevole ritenere che le nostre abilità percettive evolvano, per effetto delle caratteristiche degli stimoli provenienti dai media digitali, in direzioni tali da accrescere le nostre abilità percettive in tali contesti. Il che, da un punto di vista didattico, implica la necessità di riflettere su come sia possibile approfittare di una tale accresciuta o diversa capacità percettiva.

Le abilità di percezione visiva sono inoltre connesse a quelle attentive. In base a una nuova concezione della visione, che prende il nome di visione attiva (Ware, 2008), la percezione visiva è infatti interpretata come un processo attivo e dinamico, che consiste in una serie di atti di attenzione che ha conseguenze sull’uso didattico della comunicazione visiva, intesa come quella modalità di comunicazione che passa attraverso mezzi visibili (Landriscina, 2011).

Recentemente è stato mostrato come giocare con i videogiochi di azione modifichi l’attenzione selettiva visiva (Green e Bavelier, 2003) a favore della capacità di minimizzare l’interferenza di stimoli diversi da quelli rilevanti per il compito. Ciò significa che i giocatori esperti hanno risorse attentive maggiori rispetto ai non giocatori e che, dunque, giocare ai videogame porta a un aumento delle capacità attentive nell’apprendimento del gioco. Diverso è, evidentemente, saper trasferire questa potenzialità attentiva in altri contesti. Questo risultato è interessante non solo in riferimento alle caratteristiche degli ambienti digitali, molti dei quali sono progettati in modo da richiedere un’elaborazione dell’informazione visiva piuttosto che verbale, ma anche in riferimento allo sviluppo delle capacità visuo-spaziali.

Uno degli studi più citati sullo sviluppo delle abilità spaziali attraverso i videogiochi (Souvignier, 2001) mostra evidenze empiriche che la capacità di interagire con immagini bi- e tridimensionali, la visualizzazione spaziale, l’abilità di leggere le immagini e di riconoscere l’informazione in esse contenuta possono essere affinate con l’allenamento e l’esercizio. Il che non significa che giocando ai videogiochi basati su un’informazione spaziale i soggetti presentino automaticamente un miglioramento delle abilità corrispondenti che possa essere trasferito ad altri contesti bensì, fatto non irrilevante, che video-giocare incida sullo sviluppo di abilità, appunto quelle visuo-spaziali, che sono implicate in moltissime attività scolastiche (Calvani, 2011).

Nell’ambito delle abilità cognitive giocano un ruolo fondamentale i sistemi permanenti della memoria a lungo termine, che garantiscono l’organizzazione e il mantenimento delle conoscenze e la loro utilizzabilità quando necessario. È interessante sapere che gran parte dell’apprendimento elettronico si configura come conoscenza “semantica” (corrispondente al ricordare la cosa in sé indipendentemente dal ricordare il contesto nel quale essa è stata acquisita). Dunque, poiché dalla memoria semantica dipende l’organizzazione delle conoscenze, la comprensione della relazione tra tecnologie digitali e organizzazione della memoria semantica ha implicazioni sull’apprendimento (Mammarella et al., 2005, p. 42).

Un ulteriore elemento concerne gli stili cognitivi (Sternberg, 1998), la cui presa in considerazione all’interno del modello intende rendere conto delle differenze individuali nell’ambito dell’apprendimento elettronico. Occorre sottolineare che il concetto di stile cognitivo non ha trovato in letteratura un accordo chiaro e definito, soprattutto in rapporto alle differenziazioni di stile elaborate (Mammarella et al., 2005, p. 46). Intuitivamente, si può dire che esso allude a una modalità di conoscenza resistente e stabile nel tempo che un soggetto utilizza in modo preferenziale, indipendentemente dal contesto.

Nell’ambito dell’apprendimento elettronico gli autori del modello prendono in considerazione due stili cognitivi: lo stile intraprendente/riflessivo e lo stile accomodante/creativo. La prima polarizzazione tende a marcare la tendenza del soggetto a mettersi in gioco e a ottenere risultati in tempi rapidi, contro l’attitudine del soggetto riflessivo ad affrontare le situazioni un passo alla volta e a considerare tutti i dettagli. La seconda polarizzazione, assimilabile a quella fra stile convergente/divergente, oppone alla tendenza del soggetto a seguire percorsi standard di apprendimento quella a sperimentare percorsi di apprendimento diversi e originali. A questo riguardo, sulla base della distinzione tra stile convergente e divergente, Cacciamani (2002) ha evidenziato che di fronte a un compito di navigazione organizzato con due tipi di mappe, l’una a struttura semantica e l’altra organizzata secondo un criterio alfabetico, i soggetti con stile cognitivo divergente ottengono prestazioni migliori con entrambi i tipi mappe rispetto ai soggetti con stile convergente. che preferiscono intraprendere l’apprendimento secondo una modalità più stereotipata.

Il secondo modello: Multimedia Cognitive Learning Theory è stato elaborato da Mayer (2003; 2005) ed è un modello di apprendimento multimediale le cui implicazioni possono essere ritenute pertinenti anche per l’apprendimento digitale, inteso come specifico processo cognitivo multimediale. Mayer (2001) distingue due prospettive psicologiche dalle quali è possibile guardare alla multimedialità: la prima interessata agli aspetti attentivi e percettivi legati al formato di presentazione delle informazioni; la seconda interessata ai processi di assemblaggio di informazioni di diverso tipo in una rappresentazione coerente. In generale, infatti, gli studi sperimentali evidenziano che presentare il materiale in più formati (ad esempio, testuale e grafico) permette di raggiungere un livello di apprendimento migliore rispetto al caso in cui lo stesso materiale sia presentato in un solo formato. Le teorie dell’apprendimento multimediale cercano in primo luogo di spiegare il perché di questi risultati (Mammarella et al., 2005, p. 60). Per questa via è dunque possibile chiarire un aspetto fondamentale dell’apprendimento digitale come processo caratterizzato da multimedialità e offrire utili indicazioni per la progettazione didattica multimediale (Calvani, 2011, p. 66). Alcune teorie, tuttavia, si prestano più di altre ad essere adottate in maniera estensiva. Infatti, sebbene assumano tutte come valido il principio della doppia codifica (Paivio, 1991), ossia l’approccio secondo il quale coesistono differenti processi di elaborazione visiva e verbale, alcune teorie sottolineano il ruolo diretto delle caratteristiche fisiche e sensoriali degli stimoli sulla costruzione della rappresentazione mentale corrispondente, altre invece, come quella di Mayer che descriveremo in breve, fanno dipendere la costruzione di un modello mentale utile all’apprendimento multimediale dall’interazione di processi cognitivi (memoria di lavoro, attenzione, risorse cognitive in generale). Il modello di Mayer, psicologo e pedagogista dell’Università di Santa Barbara, California, è un modello integrato che tiene conto sia del concetto della doppia codifica di Paivio, sia del concetto di carico cognitivo (Chandler e Sweller, 1991), che stabilisce una possibilità limitata di elaborazione di informazione per ogni canale e dunque un effetto di danneggiamento dell’elaborazione provocato da un carico eccessivo. Accanto a questi due concetti Mayer considera il concetto di elaborazione attiva (Active processing), che sostiene che l’apprendimento avviene quando il soggetto è impegnato in interventi cognitivi attivi sul materiale in entrata, ossia quando seleziona informazioni rilevanti, le organizza in rappresentazioni mentali adeguate e integra fra loro le conoscenze già possedute (Mayer, 2003, p.  129). Secondo questa teoria, l'apprendimento significativo dipende da tutti e tre questi processi (selecting, organizing, integrating) che si verificano per le rappresentazioni visive e verbali.

Figura 1 – Modello di apprendimento multimediale di Mayer (2003)

multimediamodel

Dal modello deriva che metodi didattici che consentono e promuovono questi processi hanno maggiori probabilità di portare ad apprendimenti significativi rispetto a metodi didattici che non lo fanno (Mayer, 2003, p. 130). La possibilità di consentire allo studente un’elaborazione attiva costituisce dunque la sfida della progettazione didattica multimediale in quanto tale processo è responsabile della possibilità di costruire rappresentazioni mentali significative, ossia apprendimenti che possano essere utilizzati in situazioni di problem solving (Mayer, 2003, p. 127). In particolare, il processo didattico multimediale (multimedia instruction), inteso come processo che usa parole e immagini per provocare l’apprendimento, regola tre diverse esigenze degli allievi: la prima, Extraneous processing, è legata a un’elaborazione cognitiva che non supporta l’obiettivo della lezione ed è generalmente dovuta a una cattiva progettazione didattica; la seconda, Essential processing, è un’elaborazione cognitiva di base richiesta per rappresentare mentalmente il materiale presentato ed è causata dalla complessità intrinseca di quest’ultimo; la terza, Generative processing, è un’elaborazione cognitiva profonda richiesta per dare significato al materiale presentato ed è causata dalla motivazione dello studente a imparare. In questa chiave, gli obiettivi della progettazione didattica multimediale consistono nel ridurre l’elaborazione cognitiva estranea; gestire l’elaborazione cognitiva essenziale; favorire l’elaborazione cognitiva generativa.

Sulla base di un vasto programma di ricerca teso a determinare per via sperimentale quali metodi didattici sono efficaci per l’apprendimento, Mayer dà evidenza empirica di dieci principi fondamentali dell’apprendimento multimediale (Research-Based Principles for Multimedia Learning)[1] che possono, dal nostro punto di vista, costituire un valido orientamento generale per la progettazione didattica che integri l’uso di artefatti digitali.

  1. Multimedia principle. Le persone apprendono meglio da una presentazione che associa testo e figure rispetto a una presentazione che utilizza solo testo o solo figure.

  2. Spatial Contiguity principle. Le persone apprendono meglio quando testo e figure corrispondenti sono presentai vicini tra loro sulla pagina o sullo schermo.

  3. Temporal contiguity principle. Le persone apprendono meglio quando testo e figure corrispondenti sono presentati simultaneamente anziché in sequenza.

  4. Coherence principle. Le persone apprendono meglio quando nella presentazione non sono inclusi parole, immagini o suoni estranei.

  5. Modality principle. Le persone imparano meglio da animazioni e narrazioni piuttosto che da animazioni e figure. Lo stesso vale per il confronto tra presentazioni che contengono immagini e spiegazioni orali, rispetto a quelle che contengono testo scritto e figure (Mayer e Moreno, 1998).

  6. Redundancy principle. Le persone apprendono meglio da animazioni e narrazioni che da animazioni, narrazioni e testo on-screen. Più in generale, il materiale presentato in troppi formati ostacolo l’apprendimento.

  7. Personalization principle. Le persone apprendono meglio quando le parole sono in uno stile conversazionale anziché formale.

  8. Voice principle. Le persone apprendono meglio quando la narrazione è espressa da una voce umana in un accento standard piuttosto che da una voce meccanica.

  9. Signaling principle. Le persone apprendono più profondamente quando nella presentazione si aggiungono cues che sottolineano le idee principali e l’organizzazione delle parole.

  10. Segmenting principle. Le persone apprendono più profondamente quando un’animazione narrata è presentata in segmenti secondo il ritmo di chi apprende piuttosto che in una sezione continua.

Dal punto di vista della progettazione didattica multimediale questi principi devono essere considerati in relazione fra di loro. Infatti, ad esempio, l’utilizzazione di testo e figure in una medesima presentazione produce effetti diversi a seconda che i materiali siano o meno rilevanti ai fini della comprensione (principio della coerenza) o ridondanti (principio di ridondanza). Non solo. L’utilizzazione di testo e immagini può portare a effetti di divisione dell’attenzione. Questo accade quando lo studente deve dividere la sua attenzione tra due fonti di informazione entrambe necessarie alla comprensione come, ad esempio, quando il testo non è spazialmente vicino all’immagine corrispondente (principio di contiguità spaziale). In questo caso, infatti, si genera un carico cognitivo estraneo che peggiora l’apprendimento (Clarck e Lyons, 2010). Inoltre, come osserva Landriscina (2011, p. 64), la teoria del carico cognitivo definisce in modo più circostanziato il principio di multimedialità, limitandone la validità al caso in cui le informazioni visiva e testuale si riferiscano l’una all’altra e non siano comprensibili separatamente.

Sebbene i modelli descritti forniscano un valido orientamento generale per la progettazione didattica, la quale deve comunque tenere conto di variabili di contesto specifiche, essi sono interessanti soprattutto in quanto è possibile, a partire da questi, definire le condizioni di una didattica digitale fondata su una descrizione teorica del funzionamento della mente e su evidenze empiriche di ricerca. Ciò ci pare essenziale se vogliamo, come pedagogisti, avere le idee più chiare su come e quando un artefatto tecnologico, assunto a supporto dell’apprendimento, possa risultare efficace. Se gli artefatti tecnologici cambiano il modo di pensare e di agire di chi insegna e di chi apprende, allora la sfida pedagogica è comprendere criticamente come possiamo approfittare di questo cambiamento. E ciò spetta a tutti, non solo ai pedagogisti studiosi di Instructional Design o di Media education.

Per troppo tempo nel dibattito pedagogico questo tema è rimasto imbrigliato nelle riflessioni sull’uso degli artefatti in sé, ad esempio chiedendosi se l’apprendere con il computer sia migliore dell’apprendere con il libro. Su questo, come era prevedibile, la ricerca non ha prodotto alcun consenso (Mayer, 2003, p. 130), mentre ha prodotto risultati che ci informano sui principi elementari di apprendimento digitale (inteso in un senso ampio, come costrutto che convoca a sé sia i principi di apprendimento elettronico sia quelli di apprendimento multimediale). Di questi risultati dovremmo allora servirci per l’analisi e la progettazione di ambienti didattici adeguati ai tempi che viviamo. Sappiamo bene che gli artefatti digitali non sono la causa dell’apprendimento degli studenti, ma lo sono i processi cognitivi che essi rendono possibili sotto opportune condizioni. Ciò significa che gli artefatti digitali trattengono un potenziale cognitivo e didattico che può essere fatto agire in modo coerente con le teorie che prendiamo a supporto per spiegare come funziona l’apprendimento digitale e con i corrispondenti risultati della ricerca. Questa, a nostro avviso, è la direzione lungo la quale occorre indirizzare la scuola e la formazione degli insegnanti. In quanto variabile costitutiva del nostro tempo, la pervasività dei media digitali eserciterà comunque il suo potere trasformativo: possiamo subirlo, arrancando faticosamente nella ricerca di un adeguamento continuo, o possiamo cercare di comprenderlo, assumendolo con consapevolezza e atteggiamento critico per dirigerlo verso i traguardi via via auspicati.

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[1] http://hilt.harvard.edu/event/richard-e-mayer-uc-santa-barbara: 5 maggio 2014;

http://hilt.harvard.edu/files/hilt/files/mayerslides.pdf

 

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