Vol. 7, n. 2, ottobre 2021

TEORIA DELLA FORMAZIONE

Riflessioni pedagogiche di una scuola al bivio1

Tra contraddizioni, spinte ideologiche, tensioni innovatrici

Giorgio Crescenza2 e Maria Grazia Riva3

Sommario

L’ipotesi sottesa al presente contributo intende mettere in luce come, nella storia delle complesse vicende che hanno riguardato il sistema formativo italiano dagli anni Sessanta del Novecento fino a oggi, sia stata operante una contraddizione di fondo. Essa si è espressa in un dualismo tra gli ideali di uguaglianza e democrazia sanciti e garantiti dall’entrata in vigore della nuova carta repubblicana del 1948 e il permanere, negli apparati amministrativi, nelle mentalità diffuse nel corpo docente e in genere nella società, di concezioni arretrate culturalmente e ispirate da tracce di una visione gerarchica dei rapporti sociali. L’istruzione di qualità per tutti e per ciascuno, che ha animato il meglio della scuola degli anni Sessanta, rischia talvolta di sembrare un’illusione, un abbaglio ideologico, un sogno dell’egualitarismo velleitario. La scuola ha bisogno di rimettersi in movimento, di riacquistare il suo carattere di traino per lo sviluppo della società e di opportunità di mobilità per i giovani. Domande che oggi non sono scontate, per nessuna ipotesi di riforma, e che richiederebbero uno sforzo convergente di tutta la società civile e politica, a partire da un forte investimento sulla formazione dei docenti e dei dirigenti scolastici.

Parole chiave

Scuola, Riforme, Competenze, Pandemia, Formazione, Educazione permanente.

THEORY OF TRAINING

Pedagogical ideas for schools at a crossroads4

Between contradictions, ideological pressures and innovative trends

Giorgio Crescenza5 and Maria Grazia Riva6

Abstract

The hypothesis underlying this contribution aims to highlight how, in the history of the complex events concerning the Italian educational system from the 1960s to the present day, there has been a basic contradiction in operation. This was expressed in a dualism between the ideals of equality and democracy decreed and guaranteed by the new 1948 Constitution coming into force and the continuation, in the administrative apparatus and in the mentality of teachers and society in general, of culturally backward concepts inspired by traces of a hierarchical vision of social relations. Quality education for all and for each child, which motivated the best of schooling in the 1960s, risks at times seeming an illusion, an ideological blunder, a dream of unrealistic egalitarianism. Schools need to get back into motion, to regain their driving character for the development of society and opportunity of mobility for youth. Questions that today are not taken for granted, due to no hypothesis of reform, and that would require a convergent effort by the whole of civil and political society, starting from a strong investment in the training of teachers and head teachers.

Keywords

School, Reforms, Competences, Pandemic, Training, Life-long Learning.

Contraddizioni del sistema educativo

L’ipotesi sottesa al presente contributo intende mettere in luce come, nella storia delle complesse vicende che hanno riguardato il sistema formativo italiano dagli anni Sessanta del Novecento fino a oggi, sia stata operante una contraddizione di fondo. Essa si è espressa in un dualismo tra gli ideali di uguaglianza e democrazia sanciti e garantiti dall’entrata in vigore della nuova carta repubblicana del 1948 — la cui attuazione in parte produsse una stagione di progettualità riformatrici di ispirazione democratica — e il permanere, negli apparati amministrativi, nelle mentalità diffuse nel corpo docente, sotto traccia, di concezioni arretrate culturalmente e ispirate da una visione gerarchica dei rapporti sociali. Di essa si erano fatte portatrici le élites borghesi, artefici dell’edificazione dello Stato unitario nella seconda metà dell’Ottocento, che, sul piano scolastico, mantenevano di fatto una certa visione della società caratterizzata da distinzioni di classi sociali. La Pandemia in atto ha rivelato con prepotenza questa e altre contraddizioni di un sistema d’istruzione che si ripercorrerà storicamente in alcune delle sue tappe. Non si può non fare riferimento alla testimonianza dirompente e atipica di Don Lorenzo Milani e alla Lettera a una Professoressa scritta dai ragazzi di Barbiana nel 1967, soprattutto perché, al di là della possibile condivisione dei suoi contenuti, quel testo rappresenta ancora oggi un documento di contestazione radicale di un sistema scolastico destinato a veicolare le diseguaglianze sociali e i valori delle classi dominanti (Meda, 2020, pp. 87-101). Una denuncia che ha messo in rilievo lo scarto esistente fra le conquiste legislative e la prassi educativa reale, fra le mentalità tradizionali e le nuove esigenze della scuola di massa. Permane la tendenza a privilegiare metodi e modelli di insegnamento-apprendimento fondati prevalentemente sul paradigma della trasmissione unilaterale del sapere, trascurando così i bisogni dei soggetti che apprendono, i loro saperi impliciti, soprattutto i loro ambienti e contesti di vita, il loro essere comunque portatori di esperienze uniche e originali che meriterebbero di essere accolte e valorizzate (Affinati, 2019). L’impatto della pandemia e della reclusione ha provocato forte stress agli insegnanti e disorientamento negli studenti e nelle studentesse, al tempo stesso mostrando in tutta evidenza la necessità di ripensare le condizioni per l’apprendimento nei sistemi di istruzione (nelle scuole e nelle rispettive comunità). Ha rappresentato a livello mondiale, e sta tuttora rappresentando, una sfida senza precedenti, con un impatto importante sulla salute non solo fisica ma anche psico-sociale di adulti e bambini (Pfefferbaum e North, 2020). Di fronte al bivio tra democrazia e mercato (Baldacci, 2019) il mondo della scuola deve scegliere se continuare a concepire l’essere umano come «fine» oppure se accettare di considerarlo un «mezzo»: nel secondo caso, secondo l’autore la strada è già spianata sui binari dell’individualismo, della prestazione, della competizione. Nel primo caso, certamente, la strada è tutta in salita, ma non può essere altro che quella di un’alleanza tra tutte le forze veramente laiche, democratiche e aperte al superamento dei condizionamenti socio-economici e culturali attuali, ripensando anche la formazione dei docenti.

Riforme tra accelerazioni, rallentamenti e frenate

L’istruzione di qualità per tutti e per ciascuno, che ha animato il meglio della scuola degli anni Sessanta, rischia talvolta di sembrare un’illusione, un abbaglio ideologico, un sogno dell’egualitarismo velleitario. Si pensi come Lorenzo Milani sia spesso richiamato ma poi abbandonato: tenere tutti a scuola, con lo stesso obiettivo, non è risultato facile. Ad esempio, si può ricordare la tesi di chi sottolineava che il compito della scuola fosse quello di selezionare, ai diversi livelli, la classe dirigente, i quadri produttivi intermedi, tralasciando la funzione della scuola come tempo e luogo dell’emancipazione e del rimescolamento sociale (Scotto di Luzio, 2014). Fino agli anni Cinquanta la scuola elementare era per lo più ritenuta sufficiente come scuola comune nel percorso e negli obiettivi (De Fort, 1996; Pruneri, 2019). A queste argomentazioni si sono aggiunte negli ultimi anni quelle di chi ritiene che la differenziazione dei percorsi rappresenti la condizione necessaria per attuare l’innalzamento dell’istruzione per tutti (Chiesa, 2006, pp. 1-15). Il sogno illuministico della scuola unica/unitaria per tutti, oltre la prima alfabetizzazione, sarebbe già stato sconfitto dai fatti (Cavallera, 2017, pp. 189-192; Sani, 2019). La scuola progressivamente e illusoriamente estesa a tutti non costituisce, secondo diversi autori, che uno strumento funzionale al capitalismo avanzato. La generalizzazione della scolarizzazione non sarebbe altro che una modalità più avanzata rispetto alle strategie del vetero-capitalismo attraverso cui si perpetuerebbe comunque inalterato il potere del ceto dominante su quelli subalterni. Questo processo si svolgerebbe attraverso un duplice e sofisticato congegno di riproduzione culturale e sociale. Nel corso degli anni Sessanta del Novecento avviene un passaggio che si traduce, nella scuola, nel tentativo di attuare un modello scolastico alternativo a quello precedente: antiautoritario, aperto a una cultura non solo «alta», ma anche di estrazione popolare, democratico sul piano gestionale e organizzativo, conflittuale in termini sociali (Chiosso, 2012). Quest’idea di scuola, legata a un’Italia nella quale l’istruzione costituisce per i ceti piccolo borghesi e operai un’occasione di investimento e di ascesa sociale, viene radicalmente posta in discussione a partire dalla metà degli anni Sessanta dalle teorie socio-politiche conflittualiste, che evidenziarono come essa costituisse un ulteriore strumento di omologazione di massa. Queste analisi, infatti, sono messe a punto da studiosi destinati a diventare icone della contestazione della scuola tradizionale come Althusser, Bernstein, Bourdieu, Passeron (Villamizar Acevedo, 2020, pp. 83-90) e, in Italia, Barbagli, Dei e il gruppo del «Manifesto».7 Ma nonostante gli sforzi dell’anticapitalismo scolastico e le accese discussioni che si svolgono nelle scuole tra gli anni Sessanta e Settanta sulla «politicità» o meno della scuola e della pedagogia, non è da questa parte che scaturiscono un nuovo modello scolastico e nuove prassi didattiche. Lo scenario della nostra scuola a partire dagli anni Sessanta comincia a essere permeato dal modello che gli anglosassoni hanno definito della «scuola efficace» (school effectiviness).8 Si tratta di un’idea di scuola alquanto diversa e sotto molti aspetti alternativa. Essa si costituisce intorno a un incrocio di teorie socioeconomiche, statistiche, docimologiche e didattiche che si propongono in sostanza di assicurare ai sistemi scolastici la massima efficienza ed efficacia possibili. Lo sguardo passa dalla centralità assegnata a chi apprende a quella attribuita al sistema che produce apprendimento e alle procedure che quantificano la capacità «produttiva» della scuola. Nel paradigma (forse il mito) della cosiddetta «scuola efficace» il modello scolastico e didattico che si costruisce nell’ultimo quarto di secolo del Novecento è principalmente affidato a una scuola capace di razionalizzazione e di autocomprensione dei processi di insegnamento e apprendimento, esperta nell’applicazione delle metodologie di programmazione, pronta a ripensarsi sulla progettazione, sulla riduzione degli errori, segnata da un certo disimpegno rispetto alla competizione tra sistemi di significato e con un posizionamento in un’area ideologicamente neutra o al massimo coerente con la teoria dei cosiddetti «valori comuni» (Acone, Bertagna e Chiosso, 1992). La scuola dell’emancipazione rimane tuttavia una sfida importante da non abbandonare (Ambrosoli, 1987; Pazzaglia e Sani, 1997; Borruso, 2020, pp. 7-20). Non ci sono soluzioni facili, miracolistiche, però è possibile avviare e sostenere un processo fruttuoso di innovazione, senza prendere false scorciatoie e senza pensare per slogan. Si devono individuare e considerare nel loro insieme le variabili correlate con il miglioramento dei risultati di apprendimento: la qualità culturale del curricolo, la qualità delle relazioni umane, la qualità dell’ambiente di apprendimento. Sul piano didattico, si tratta invece di specifiche e concrete procedure d’insegnamento, dirette a differenziare l’intervento didattico in funzione delle caratteristiche specifiche degli scolari. Si tratta di rilanciare, alla società nel suo insieme, la proposta di un’impresa straordinaria, paragonabile a quella che venne affrontata tra i secoli XIX e XX con l’estensione dell’alfabetizzazione (Vigo, 1971). Allora si trattò di pensare e costruire una teoria e una prassi della scuola per l’infanzia; fu un’azione collettiva che coinvolse straordinari intellettuali, la politica, l’opinione pubblica, che si radicò nell’immaginario collettivo (Dal Toso, 2017, pp. 313-328). Non si è ripetuta nel costruire la scuola per la preadolescenza e per la prima adolescenza: in tali casi si è piuttosto scelto di estendere a tutti la scuola per consentire di acquisire avanzamenti sociali. Proprio da questa contraddizione ha preso le mosse la scuola di Barbiana e hanno preso spunto le sferzate di Pasolini. La scuola deve essere messa in condizione di potersi assumere le proprie responsabilità, ma da sola non può farcela. Serve un’impresa collettiva straordinaria che porti con sé risorse, ricerca, prassi consapevole, memoria attiva, condivisione. La Lettera dei ragazzi di Barbiana divenne uno strumento in mano alla contestazione studentesca (Canettieri, 1975), che si scatenò in quello stesso anno, producendo come effetto immediato, tra l’altro, il moltiplicarsi di leggi e decreti leggi. Essi intendevano tamponare alcune falle e introdurre ritocchi nella legislazione vigente, venendo presentati come transitori e anticipatori di future riforme di più ampio respiro. Si ricordino il decreto legge del febbraio 1969, che modificò l’Esame di Stato conclusivo degli studenti secondari; la legge del settembre dello stesso anno, che introdusse la sperimentazione negli istituti professionali; quella del dicembre, sempre del 1969, che sbloccò e aprì per tutte le scuole superiori quinquennali gli accessi all’università e liberalizzò i piani di studio universitari (Susi, 2012; Santamaita, 2021). Nel 1977 furono soppresse le classi differenziali e si dispose l’inserimento dei diversamente abili9 in classi normali, ma con un numero ridotto di allievi, benché non esistesse un personale a ciò preparato. Sempre nel 1969 fu messo a punto un nuovo progetto di riforma dell’università (disegno di legge n. 612) che stava per essere approvato, se la fine anticipata della legislatura non ne avesse chiuso il dibattito — ormai a Montecitorio — nel gennaio del 1972. Rispetto al precedente progetto di Gui introduceva alcune novità di rilievo: la centralità del dipartimento universitario, la figura del docente unico — pur affiancato da ruoli di secondo piano —, l’introduzione del tempo pieno per i docenti. Il tutto però era già stato sensibilmente modificato e in parte svuotato di vigore lungo la discussione, mediante una normativa assai minuta e ricca di deroghe. La storia dell’istruzione di base di fatto, in Italia, ha segnato un percorso con accelerazioni, rallentamenti e anche brusche frenate; ha dato vita nella storia civile nazionale a diversi momenti di confronto costruttivo, come durante il periodo della Costituente10 (Chiosso, 1988), ma anche a momenti di scontro, come accadde ad esempio durante il periodo liberale sulla questione dell’insegnamento religioso e dell’avocazione allo Stato della scuola elementare (Di Pol, 1996). Molti dei problemi che hanno caratterizzato l’istruzione di base nel corso dei due precedenti secoli appaiono ancora oggi irrisolti e di attualità, collegati per lo più a dimensioni e retroterra politico-ideologici differenti. Se rimangono ancora aperti il problema dell’istruzione religiosa e quello del rapporto tra scuola statale e scuola non statale, verso la fine del secolo scorso sembra abbia trovato una soluzione la scelta dei modelli gestionali nella dialettica tra centro e periferia, mentre resta ancora aperto il problema della scelta di un modello formativo degli insegnanti, così come la questione del loro reclutamento e del trattamento giuridico-economico. D’altra parte, pur persistendo ancora alcune sacche di evasione scolastica, la battaglia contro l’analfabetismo che caratterizzò l’impegno della politica scolastica fino alla metà del secolo XX (Fornaca, 1972) è stata quasi vinta, seppure con la Pandemia attuale si rischi un forte arretramento. Grazie alle trasformazioni sociali e all’avanzamento del dibattito progressista politico-sociale, pedagogico e didattico, l’intervento a favore dell’istruzione di base ha potuto puntare sullo sviluppo della qualità dell’insegnamento e dell’inclusione scolastica, a cominciare da quella riguardante i diversamente abili.

Vecchie e nuove patologie della scuola

Il panorama della nostra scuola conosce da un paio di decenni, soprattutto sul fronte delle pratiche didattiche e educative, alcuni cambiamenti pensati in risposta sia ai fenomeni della scolarizzazione di massa e dei movimenti migratori sia alle sfide delle rivoluzioni scientifiche e delle nuove tecnologie che connotano la nostra epoca. Si è avvertita in modo diffuso una più acuta sensibilità verso la necessità di una visione pedagogica del processo educativo e formativo. Ne sono segni, ad esempio, nella vita di molte scuole, una maggiore attenzione ai temi dell’orientamento, gli spazi di ascolto e sostegno pedagogico e psicologico per gli studenti, una più diffusa cultura del recupero scolastico, una ricerca di rapporti con spazi, enti e centri del territorio con cui interagire, l’avvio di stage ed esperienze di scuola-lavoro (alle superiori). Molte professionalità si sviluppano e si ridefiniscono arricchendosi su questi terreni. Non determinano cambiamenti in profondità, ma immettono funzioni nuove che, tuttavia, non bastano a rigenerare in maniera diffusa e pervasiva il corpo della scuola (Ferrari e Morandi, 2020). Non cambia cioè la cultura prevalente tra gli insegnanti, se non per un numero circoscritto che comunque non riesce a diventare «massa critica». Un panorama quindi con ombre e luci. In questo quadro, va sottolineata la persistenza di una certa scarsa consapevolezza della portata dei grandi cambiamenti planetari (globalizzazione, rivoluzione scientifiche e tecnologiche). In tal senso quindi l’educazione deve dunque affrontare il problema di come si impara a vivere insieme, di come favorire la capacità di «mettersi nei panni degli altri», di come imparare a progettare insieme, prevenire e trasformare i conflitti elaborando una cultura dell’accoglienza e della convivenza (Fiorucci, 2020).

Ma nelle nostre aule poco è cambiato veramente. È mancata e per alcuni versi manca ancora, oppure è insufficiente, la percezione ad ampio raggio della natura rivoluzionaria e pervasiva dei fenomeni che hanno caratterizzato il panorama sociale, culturale ed economico dei decenni precedenti. Non è scattata quella consapevolezza da cui potesse generarsi una riconsiderazione dei compiti istituzionali e delle pratiche professionali. Di fatto, nella nostra scuola, il modello di riferimento organizzativo e didattico è rimasto più o meno quello degli anni antecedenti ai fenomeni considerati. Molte cose non hanno funzionato e continuano a non funzionare.

La crisi della scuola italiana, che quasi tutti gli studiosi e la maggior parte della pubblica opinione ormai riconoscono o ammettono, ha cause che sono state più volte rievocate.

Sicché, nell’Italia del Duemila, la nostra scuola è ancora quella disegnata nel 1923 da Giovanni Gentile, anche con tutte le modifiche e gli aggiustamenti apportati durante il regime fascista per attenuare gli aspetti più rigorosi del progetto idealistico e lo spirito selettivo che aveva guidato il filosofo siciliano (Genovesi, 1996).

Nello specifico, la riforma Gentile aveva recepito molte delle istanze venute nell’età giolittiana da pedagogisti e studiosi di diverso orientamento — a cominciare dallo storico democratico Gaetano Salvemini (1914) — e mostrava una sua innegabile coerenza (Tognon, 1990). Va tuttavia evidenziato come la società di cui era espressione fosse ferma a una visione fortemente elitaria del processo di apprendimento e di selezione della classe dirigente; non teneva conto del formarsi e del consolidarsi già allora in corso di una società di massa. Inoltre, nasceva da una visione esclusivamente umanistica che tagliava fuori, o considerava subordinato, il sapere tecnico e scientifico.

Ebbene, questi principi hanno continuato inevitabilmente a informare programmi, contenuti e mentalità della scuola italiana, malgrado la retorica postfascista e i costanti propositi di innovare, espressi ma mai del tutto osservati.

È accaduto, in altri termini, nella scuola quel che è accaduto in un altro campo essenziale della politica italiana, quello della giustizia, dove ancora oggi il codice penale porta la firma di Alfredo Rocco e riflette nella sua concezione e in parti essenziali una visione autoritaria del rapporto tra i cittadini e lo Stato.

Ma non si è trattato soltanto di questo nella storia della scuola italiana degli ultimi settant’anni. Giacché, al permanere di una concezione generale che ci riporta a un’Italia agraria, fortemente gerarchica e autoritaria, si è aggiunta da parte dei governi che si sono succeduti dal 1945 una pratica di governo che all’istruzione dell’obbligo, come a quella superiore, ha dedicato una quantità di risorse insufficienti (Barausse e D’Alessio, 2018); collocandosi così sempre agli ultimi posti nella classifica europea e occidentale. Nello stesso tempo ci si sarebbe dovuti far carico maggiormente di fenomeni di straordinario peso a livello nazionale come la dispersione scolastica, l’analfabetismo di ritorno, la carenza crescente di strutture edilizie e didattiche, l’assenza di una politica adeguata per la formazione e l’aggiornamento degli insegnanti. Va rilevato che le più avanzate riforme e la crescita quantitativa dell’istruzione di base hanno sempre coinciso con i momenti storici di progresso politico, di innovazione e di sviluppo economico, mentre nei momenti di «riflusso istituzionale» la stessa scuola ha dovuto subire pesanti condizionamenti recessivi, sia qualitativi sia quantitativi.

Tuttavia, conviene prendere atto che il tentativo di attuare la riforma della scuola in Italia ha contrassegnato innumerevoli sforzi di governi e parlamenti, negli ultimi tre decenni di storia repubblicana. È emblematico che in pochi anni siano stati approvati ampi disegni di riforma degli ordinamenti scolastici (la legge 30/2000, cosiddetta Riforma Berlinguer, e la legge 53/2003, ovvero la Riforma Moratti e infine la legge 133/2008, proseguita con la legge 169/2008, provvedimenti che si indentificano con la Riforma Gelmini), anche se i processi di attuazione si sono rivelati più complessi di quanto previsto dai legislatori, tanto da mettere a rischio la stessa possibilità di realizzare le nuove proposte (Bandini, 2009, pp. 99-101).

A questo punto si potrebbe pensare che i diversi soggetti istituzionali e sociali decidessero insieme una moratoria delle riforme, per acquisire elementi di consenso più ampio, a partire da un’analisi seria dello stato di salute della scuola e delle ragioni dei cambiamenti da apportare al sistema scolastico, per esempio attraverso un percorso sperimentale concordato tra tutti i soggetti in causa. Dunque, occorre partire dai nodi irrisolti del sistema scolastico italiano, con particolare evidenza per la fascia di età dell’adolescenza, perché è lì che si manifestano le maggiori problematiche: insufficiente numero di diplomati; un correlato elevato livello di dispersione; un’insufficiente propensione a intraprendere studi nella filiera scientifica, tecnologica e professionale; una crescente disaffezione degli studenti nei confronti degli impegni scolastici.

Ma il sistema scolastico è per certi aspetti ormai ingessato, ha perso il carattere dinamico che aveva ancora negli anni Settanta-Ottanta, rischia di non intercettare più le nuove domande della società e dei ragazzi. In effetti, la scuola ha bisogno di rimettersi in movimento, di riacquistare il suo carattere di traino per lo sviluppo della società e di opportunità di mobilità per i giovani. Domande che oggi non sono scontate, per nessuna ipotesi di riforma, e che richiederebbero uno sforzo convergente di tutta la società civile e politica.

Gli insegnanti: consapevolezze e competenze di una professione che cambia

È necessario costruire le condizioni per l’attivazione di politiche adeguate sul personale riguardo a selezione e reclutamento, formazione, valutazione e sviluppo professionale e di carriera, status sociale e riconoscimento della qualità del lavoro e della rilevanza sociale della sua funzione; per la riscoperta, da parte degli insegnanti, di sé come protagonisti di ogni processo di trasformazione della scuola e quindi per la consapevolezza di un’autoriforma come passo ineludibile; per la valorizzazione, come leve e soggetti motore, di quanti ruotano intorno al pianeta scuola o che con esso hanno legami forti (le molte e variegate associazioni professionali, i sindacati della scuola, l’editoria scolastica, l’università e l’associazionismo scientifico-accademico, ma anche il mondo della cultura e del lavoro che più interagisce, in questa fase, con le scuole).

A partire dalla consapevolezza di fondo che il pianeta scuola dovrebbe assumere relativamente all’importanza sociale del proprio ruolo, all’idea che i cambiamenti veri e profondi per una riforma efficace del fare scuola dipendono molto dagli insegnanti (Baldacci, Nigris e Riva, 2020).

Per assicurare al nostro sistema scolastico una formazione rinnovata e competitiva è necessaria una formazione continua in servizio del docente e un suo costante sviluppo professionale, in modo da assumere responsabilmente il proprio ruolo professionale nell’ottica di una preparazione dei giovani su più fronti: dalla crescita personale e sociale alla gestione delle proprie professionalità future e alla pratica della propria cittadinanza in ambito locale, nazionale, europeo e mondiale. La costruzione di un pensiero europeo è una questione di scuola e quindi di trasmissione culturale tra le generazioni. La domanda che segue è: quali competenze di cittadinanza deve possedere il docente, dal momento che le stesse devono essere trasmesse all’allievo, aiutandolo a costruirsele nel gruppo dei compagni e degli altri attori scolastici? Tra le innumerevoli competenze ci sono sicuramente quella di progettare e comunicare. È a partire da una nuova idea di apprendimento che la nuova figura del docente dovrà far propria la competenza della progettazione, ovvero quella di saper elaborare e realizzare progetti riguardanti lo sviluppo delle proprie attività di studio e di lavoro utilizzando le conoscenze apprese per stabilire obiettivi significativi e realistici. Un buon docente ha il compito di pianificare il proprio intervento sempre sulla base del dato reale, a partire da ciò che esiste ma per preparare il futuro; progettare obiettivi realistici ma non acriticamente appiattiti sullo status quo significa, dunque, saperli rendere coerenti e applicabili ai tempi, agli spazi, ai rapporti con l’esterno, alle risorse professionali, e così via. La cultura della progettazione è direttamente collegata alla legge sull’autonomia scolastica (DPR 275/1999), in cui all’articolo 1 si afferma che «l’autonomia delle istituzioni scolastiche è garanzia di libertà di insegnamento e di pluralismo culturale e si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della persona umana, adeguati ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti, al fine di garantire loro il successo formativo, coerentemente con le finalità e gli obiettivi generali del sistema di istruzione e con l’esigenza di migliorare l’efficacia del processo di insegnamento e di apprendimento». Quella dell’autonomia è una sfida lanciata al docente chiamato a progettare continuamente percorsi formativi innovativi, consolidati attraverso la metodologia della ricerca/azione, che non possono prescindere dal rapporto con gli altri docenti e con le comunità locali. Progettare per il nuovo docente significa saper costruire reti culturali,11 che integrino i diversi linguaggi per interpretare la realtà: si ricordino le procedure logico-matematiche per affrontare problematiche quotidiane, la corrispondenza della tecnologia a problemi concreti con soluzioni appropriate e infine la partecipazione responsabile — come persona e come cittadino — alla vita sociale. In tal modo si ampliano gli orizzonti culturali nella consapevolezza dell’identità storico-personale e nella comprensione dei valori dell’inclusione e dell’integrazione. La comunicazione, afferma Watzlawick (1971), è una conditio sine qua non della vita umana e dell’ordinamento sociale. Comunicare sviluppa un processo di interazione in grado di modificare il comportamento umano; un buon oratore, un buon docente, deve essere in grado di cogliere gli effetti pragmatici della comunicazione e il complesso processo di acquisizione delle regole della stessa. Il docente è chiamato non solo a saper comprendere i messaggi di natura diversa che provengono dai suoi allievi e dall’ambiente circostante ma, altresì, a comunicare in forma orale e scritta nelle diverse situazioni comunicative per sorvegliare e adattare la propria comunicazione in base al contesto. Il docente del nuovo millennio è chiamato a ricercare, raccogliere ed elaborare le diverse e molteplici informazioni per aprire a un colloquio critico in cui analizzare le realtà a partire anche dai problemi comunicativi posti dalla realtà stessa. Tra le attitudini essenziali richieste all’insegnante vi è la consapevolezza dell’impatto del linguaggio sugli altri e la capacità di usare la lingua positivamente e in modo responsabile. Il linguaggio «fa competenza» ma fa anche «cittadinanza» nella misura in cui si promuovono competenze linguistiche plurali e una coscienza critica del loro uso così da accedere, anche linguisticamente, a una frontiera di meta-conoscenza (Cambi, 2010). Padroneggiare gli strumenti espressivi e argomentativi significa saper gestire un’interazione comunicativa nei contesti di formazione, scambiando responsabilmente informazioni e idee in grado di esprimere il proprio punto di vista e individuando, al tempo stesso, quello degli altri (Martini, 2018, pp. 50-67). Saper comunicare significa, allora, per il docente saper costruire e/o modificare quello che Watzlawick (1971) definisce l’ambiente di un dato sistema «costituito dall’insieme di tutti i soggetti e gli oggetti che comunicando si influenzano tra loro e producono un cambiamento» (p. 111). Poiché di tale cambiamento l’insegnante è un importante artefice, risulta necessario che sia preparato riguardo alle regole di una buona ed efficace comunicazione. Tuttavia, una attenzione particolare va posta sull’idea della formazione dei docenti più in generale (Riva, 2018, pp. 87-100), che va individuata come una priorità in modo che la qualità della formazione degli insegnanti contribuisca all’innovazione della scuola e allo sviluppo del Paese. La Conferenza universitaria nazionale dei Dipartimenti e delle Facoltà di Scienze della formazione ha lavorato molto su questo tema, producendo un documento che delinea chiaramente le linee di indirizzo principali sulla questione.12 L’attuale percorso formativo dei 24 CFU, ad esempio per la formazione degli insegnanti di scuola secondaria, non è stato progettato come formazione iniziale degli insegnanti bensì come un segmento formativo propedeutico, pertanto risultando inadeguato a costituire l’unico momento formativo per prepararsi alla professione così complessa e delicata di insegnante (Cappa e D’Ascanio, 2019). È necessario ribadire che occorre salvaguardare la relazione costitutiva tra teoria e prassi, tra lezioni frontali, laboratori disciplinari e interdisciplinari, tirocini diretti e indiretti. Sono centrali il rapporto tra Scuola e Università, la valorizzazione delle diverse tipologie di attività, l’adozione di una metodologia riflessiva, che aiuti gli insegnanti a elaborare la propria esperienza nella direzione di uno sviluppo professionale costante, da proseguire, dopo la formazione iniziale, con l’anno di formazione e prova e una costante formazione continua. Nello stesso tempo, occorrono percorsi di formazione dei tutor scolastici che devono accompagnare i docenti nelle varie tappe del percorso di inserimento nel contesto scolastico. Si possono distinguere ad esempio le figure dell’insegnante in formazione iniziale, o pre-service teacher, del novice teacher, con poca consapevolezza del contesto e scarsa riflessività, dell’expert teacher o master teacher (Snow, Griffin e Burns, 2005). Le competenze dell’insegnante vanno chiaramente individuate, a partire dalle competenze culturali e disciplinari, storico-pedagogiche, pedagogiche, psicologiche, didattiche, tecnologiche, valutative e autovalutative, organizzative, relazionali, riflessive. E, soprattutto, la formazione dell’insegnante va appunto concepita alla luce del life-long learning, come chiaramente delineato nelle diverse linee di indirizzo europee,13 di un’educazione continua nell’ottica della formazione in servizio e del costante sviluppo professionale. La formazione in servizio rappresenta un dispositivo fondamentale dello sviluppo professionale degli insegnanti, in particolare se condotta in chiave riflessiva.


1 L’articolo è stato concepito e sviluppato dagli Autori congiuntamente. Giorgio Crescenza ha scritto i primi tre paragrafi, Maria Grazia Riva ha scritto il quarto paragrafo.

2 Universidad de Alicante e Università degli Studi di Roma Tre.

3 Università di Milano-Bicocca.

4 The Authors are both responsible for the article. Giorgio Crescenza wrote the first three paragraph, Maria Grazia Riva wrote the fourth paragraph.

5 Universidad de Alicante e Università degli Studi di Roma Tre.

6 Università di Milano-Bicocca.

7 Il gruppo di intellettuali che fondò prima la rivista e poi il quotidiano «Il Manifesto» alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso. Fonte: https://www.treccani.it/enciclopedia/manifesto/, consultato il 20 giugno 2021.

8 Sul concetto di «scuola efficace», con relativa ricostruzione storica, si rinvia al saggio di Normand R. (2006), L’école efficace ou l’horizon du monde comme laboratoire, «Revue Française de pédagogie», n. 154, pp. 33-43.

9 La comunità scientifica pedagogica è oggi concorde con l’idea che la giusta dicitura con la quale riferirsi alla disabilità sia «persona con disabilità» (D’Alonzo, 2018). Tuttavia, in questo saggio si utilizzeranno anche altri termini usati in passato, e oggi desueti, per dar voce a una visione storica e per giustificare il lungo cammino che in ambito pedagogico, storico e legislativo si è percorso sinora.

10 È più che giustificato l’interesse dimostrato da numerosi storici della scuola per le discussioni e le scelte operate nell’ambito dell’Assemblea Costituente (eletta il 2 giugno 1946), anche per accertare le prese di posizione dei partiti e degli uomini che li rappresentarono nelle discussioni in sede di Commissione dei Settantacinque, dei Diciotto e dell’Assemblea generale, lo stato scolastico del Paese e l’effettiva condizione dell’educazione e dell’istruzione. È sintomatico che prima, durante e dopo la Costituente si sia parlato a più riprese di una «Costituente della scuola» per dare un nuovo assetto alle strutture dell’apparato scolastico. Il fatto che Guido Gonella, in qualità di dirigente della Democrazia cristiana e di Ministro della Pubblica istruzione potesse gestire dal 1947 al 1949 l’Inchiesta nazionale per la riforma della scuola è sintomatico della strategia di dilazione nel tempo di una riforma che doveva essere impostata prima e durante l’Assemblea Costituente, ma anche di una non completa informazione sui progetti di riforma.

11 Decreto ministeriale 139/2007, «Regolamento recante norme in materia di adempimento dell’obbligo di istruzione».

12 Per un approfondimento sul tema si veda: https://www.cunsf.it/wp-content/uploads/sites/24/2019/11/Formazione-Insegnanti-Completo-CUNSF_-nov2019.pdf, consultato il 20 giugno 2021.

13 Fonte: https://ec.europa.eu/education/education-in-the-eu/council-recommendation-on-key-competences-for-lifelong-learning_it, consultato il 20 giugno 2021.

Vol. 7, Issue 2, October 2021

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