Vol. 7, n. 1, aprile 2021
Distribuito sotto Licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0TEORIA DELLA FORMAZIONE: CONTESTI SCOLASTICI
La logica del ragionamento morale1
Berta Martini2 e Monica Tombolato3
Sommario
Il lavoro discute il problema della logica del ragionamento morale da un punto di vista didattico. La coltivazione della capacità di ragionare su questioni morali è interpretata come una delle direzioni dell’educazione etico-sociale. Si discutono potenzialità e limiti dell’approccio logico-formale al ragionamento morale. L’articolo è suddiviso in tre parti. Nella prima parte si chiarisce la relazione tra logica e ragionamento. Successivamente, si affronta il problema di individuare le logiche che possono supportare il ragionamento morale (logica deontica ed etica formale). Infine, si discutono alcune implicazioni che riguardano i saperi di insegnamento.
Parole chiave
Educazione al ragionamento morale, Logica deontica, Etica Formale, Saperi di insegnamento.
Educational theories: school contexts
The logic of moral reasoning4
Berta Martini5 and Monica Tombolato6
Abstract
The paper deals with the problem of the logic of moral reasoning from an educational perspective. Training the ability to reason about moral issues is interpreted as one of the directions of ethical-social education. Potentials and limitations of the logical-formal approach to moral reasoning are discussed. The article is divided into three parts. In the first part, the relationship between logic and reasoning is clarified. Next, the problem of identifying logics that can support moral reasoning (deontic logic and formal ethics) is addressed. Finally, certain implications that affect knowledge to be taught are discussed.
Keywords
Moral reasoning education, Deontic logic, Formal ethics, Knowledge to be taught.
Introduzione
L’articolo discute il problema della logica del ragionamento morale. Inquadriamo il problema all’interno di una prospettiva che interpreta la capacità di ragionamento morale come una delle forme in cui si esplica la riflessione morale. Tale riflessione interviene ogni qualvolta, per esempio, ci si domanda se sia giusto agire in un modo o in un altro, o quando siamo chiamati a giustificare, a noi stessi o agli altri, i nostri giudizi morali. In questa prospettiva, la coltivazione della capacità di ragionare su questioni morali costituisce una delle direzioni generali dell’educazione etico-sociale.7
Individuare il processo formativo (coltivare la capacità di ragionamento morale) che realizza una certa finalità educativa (l’educazione etico-sociale) implica interrogarsi sul suo oggetto (il ragionamento morale), sui suoi presupposti (la logica sottostante) e sulle condizioni necessarie a realizzarlo nel contesto scolastico (contenuti e principi curricolari). Pertanto, discuteremo il problema in tre passi. In primo luogo, cercheremo di chiarire la relazione tra logica e ragionamento. Successivamente, affronteremo il problema di individuare il tipo di logica che può supportare il ragionamento morale. Infine, discuteremo alcune implicazioni per l’insegnamento.
Logica e ragionamento
Che la logica abbia un ruolo nel ragionamento è un’affermazione condivisa, ma non per questo meno problematica. Essa richiede, pertanto, un chiarimento preliminare.
Uno dei modi in cui si è soliti pensare a questo binomio è nei termini della relazione tra una facoltà del pensiero (il ragionamento) e le regole in base alle quali supponiamo esso debba procedere (la logica). L’idea è che esistano delle «leggi del pensiero» che è necessario conoscere e di cui è necessario saper valutare l’uso che ne facciamo all’interno dei nostri ragionamenti ordinari. In altri termini, uno dei significati che attribuiamo a questa relazione è che la logica fornisce le regole per ragionare bene.
D’altra parte, è altrettanto naturale ritenere che anche nel caso in cui siamo digiuni di logica, riconosciamo come valida un’inferenza le cui conclusioni sono vere se sono vere le premesse, così come riconosciamo come fallace un’inferenza ogni qual volta riusciamo a trovare un controesempio che la smentisce. In altri termini, è senz’altro vero che tutti abbiano una certa capacità di pensare razionalmente. Ad ogni modo, ciò non equivale a sostenere che tutti siamo in grado di compiere certe inferenze o che non compiamo errori nel farlo. Si tratta di capire se e come il ricorso alla logica può migliorare questa nostra capacità.
Supporre che esistano «leggi del pensiero» a cui occorre conformarsi rinvia alla tradizione logico-filosofica: dalle leggi della sillogistica di Aristotele fino alla logica di Frege, quando il dibattito sullo statuto delle leggi del pensiero diviene pienamente consapevole e complesso (Coliva e Lalumera, 2006). Logica e filosofia sono interessate al pensiero da un punto di vista normativo, ossia in riferimento alla individuazione delle regole che determinano come dobbiamo ragionare se vogliamo ragionare correttamente. Diverso è, invece, essere interessati al pensiero da un punto di vista descrittivo, come fanno la psicologia e la neurofisiologia, ossia a come ragioniamo, alla descrizione dei processi che costituiscono la nostra attività di pensiero.
Il carattere normativo presuppone che le leggi siano universali, cioè che valgano ovunque, indipendentemente dal contenuto delle proposizioni alle quali vengono applicate. In questo caso, il ragionamento consisterebbe in un sistema di regole operanti sulla forma delle premesse. Pertanto, la logica tratta i pensieri in quanto veri o falsi e in quanto possibili premesse e conclusioni di inferenze, la cui validità è universale.
Il carattere descrittivo tiene invece conto del fatto che l’interpretazione degli enunciati dipende dal contesto, dalle nostre conoscenze e dalle nostre credenze. In questo caso, il ragionamento è influenzato dal contenuto anche quando questo è espresso dalla stessa forma logica. Pertanto, la psicologia è interessata a comprendere quel che facciamo quando ragioniamo e in che modo riusciamo a farlo. Per esempio, in che modo le persone traggono «certe» conclusioni valide, e non qualunque conclusione valida, benché logicamente ammissibile, ma inutile o stupida.
Aggiungiamo, come osserva Johnson-Laird (2008, pp. 23-34), che accanto a molti logici che nel passato hanno creduto che le regole formali della logica fossero le leggi del pensiero — si pensi al matematico David Hilbert (1928) o al logico George Boole (1854) —, ci sono psicologi, come Inhelder e Piaget (1966), che hanno elaborato teorie secondo le quali ragioniamo usando regole di inferenza formali. Descrivere quel che il pensiero fa, tuttavia, è diverso dal descrivere come lo fa. Il modo con cui il pensiero agisce è qualcosa che sfugge alla sola riflessione teorica e che ha bisogno di indagini sperimentali. Queste ultime conducono Johnson-Laird (1988) ad affermare la teoria dei modelli di stati possibili: costruiamo modelli mentali delle situazioni come modelli di stati possibili e li usiamo per rappresentare ciò che è possibile.
Dal nostro punto di vista, possiamo concludere che logica e ragionamento sono distinti e tuttavia, benché la logica non possa essere ritenuta una teoria psicologica del ragionamento, essa è per quest’ultimo uno strumento essenziale.
Le logiche che supportano il ragionamento morale
All’interno dell’approccio normativo, i vincoli formali che si pongono a garanzia della correttezza del ragionamento costituiscono l’oggetto di studio della logica, disciplina che in considerazione degli sviluppi degli ultimi decenni sarebbe più opportuno declinare al plurale. Per sopperire ai limiti dei sistemi di logica classica,8 i quali, focalizzandosi sull’attività deduttiva, intercettano solo un settore limitato — per quanto fondamentale — del complesso dei ragionamenti umani, nel secolo scorso sono stati messi a punto svariati sistemi logici finalizzati all’analisi formale dei differenti ambiti dell’attività inferenziale. In particolare, il comportamento logico dei quattro operatori non vero-funzionali di «obbligatorio» (O), «permesso» (P), «vietato» e «facoltativo» (indifferente) che indicano il valore obbligante o non obbligante di enunciati di tipo prescrittivo come quelli morali, viene formalizzato da sistemi deontici9 in cui valgono i seguenti bicondizionali (Palladino e Palladino, 2014, p. 60):
PA ↔ ⁓ O ⁓ A (è permesso A se e solo se non è obbligatorio non A)
OA ↔ ⁓ P ⁓ A (è obbligatorio A se e solo se non è permesso non A)
Si può suppore, infatti, che i due operatori O (obbligatorio) e P (permesso) siano interdefinibili, mentre, come rivela una semplice analisi linguistica, non occorrono simboli specifici per indicare gli altri due operatori: «è vietato A» equivale a «non è permesso che A» (formalizzabile con ⁓ PA) oppure a «è obbligatorio non A» (O ⁓ A); «A è facoltativo (indifferente)» equivale invece a «Sono permessi sia A che non A» (PA ∧ ⁓ PA) oppure «A non è né vietato né obbligatorio» (⁓ O ⁓A ∧ ⁓ OA).
Costruendo il quadrato delle opposizioni, si rendono espliciti i diversi modi in cui ciascuna delle quattro proposizioni deontiche è logicamente correlata (opposta) alle altre (Pizzo, 2011).
1) OA (A è obbligatorio) |
2) O ⁓ A (non A è obbligatorio = A è vietato) |
3) ⁓ O ⁓ A (non è obbligatorio non A = A è permesso) |
4) ⁓ OA (non è obbligatorio A = non A è permesso = A è facoltativo) |
Due enunciati che abbiano rispettivamente la forma 1) e 2) si dicono contrari poiché dalla verità del primo segue la falsità del secondo e viceversa. Le proposizioni contrarie non possono essere entrambe vere ma possono, invece, essere entrambe false. Non è infatti logicamente possibile che A sia contemporaneamente obbligatorio e vietato, tuttavia può non essere né obbligatorio né vietato (A potrebbe essere semplicemente permesso/facoltativo).
Una coppia di enunciati che abbiano rispettivamente la forma 1) e 4) — oppure 2) e 3) — si dicono contradditori poiché rappresentano uno la negazione dell’altro. Non è logicamente possibile che A sia allo stesso tempo obbligatorio e non obbligatorio (facoltativo) oppure vietato e permesso. Ne consegue come tali proposizioni non possano essere entrambe vere o entrambe false.
Una coppia di enunciati che abbiano rispettivamente la forma 3) e 4) si dicono subcontrari poiché possono essere entrambi veri ma non entrambi falsi. Può essere permesso A e anche non A, ma non può non essere permesso né A (A è vietato) né non A (non A è vietato = A è obbligatorio). Dalla prima negazione deriverebbe che A è vietato e dalla seconda che non A è vietato ovvero che A è obbligatorio. Dalla negazione delle due proposizioni subcontrarie deriverebbe pertanto che A è contemporaneamente vietato e obbligatorio, il che non è logicamente possibile.
La logica deontica, formulata per la prima volta in maniera compiuta nel 1951 da Georg Henrik von Wright (Pizzo, 2011), rappresenta un’estensione della logica classica (estensionale) e come le altre logiche modali (logica modale aletica, logica modale epistemica)10 viene qualificata intensionale poiché studia il comportamento di operatori e connettivi non vero-funzionali. Sebbene alcuni sviluppi sintattici delle logiche modali abbiano radici remote, solamente nel secolo scorso, grazie al fecondo lavoro del filosofo e logico statunitense Saul Kripke, è stato possibile dotarle di un’adeguata semantica formale basata sul concetto di mondi possibili11 — che rinvia alla necessità di considerare stati di cose alternativi a quello del mondo attuale — e sulla relazione di accessibilità tra mondi.
La logica deontica, nell’interpretazione che ha reso possibile l’elaborazione dei calcoli logici,12 viene utilizzata per saggiare la coerenza di un sistema di norme: essa stabilisce che un’azione necessaria per compiere un dovere non può essere vietata, pena l’incoerenza del sistema. L’utilità di questo tipo di logica modale, al di là di alcune difficoltà concettuali e dell’insorgere di tipici paradossi (ad esempio, il paradosso di Ross o il paradosso della libera scelta),13 è stata fortemente rivendicata da Von Wright, a cui si deve il seguente esempio finalizzato a metterne in evidenza alcuni importanti risvolti applicativi. Ci riferiamo, in particolare, alla formula dimostrabile nei calcoli della logica deontica denominata da Von Wright teorema di Jefte:
O(A→B) ∧ O ⁓ B → O ⁓ A
Questo teorema — secondo cui se è obbligatorio che A implica B (O(A→B)) e B è vietato14 (O ⁓ B), allora anche A è vietato (O ⁓ A) — può aiutarci a risolvere quei dilemmi morali (Bagnoli, 2006) che si presentano sotto forma di conflitto di doveri, di cui le pagine dell’Antico Testamento offrono un chiaro esempio. Si tratta della promessa fatta da Jefte a Jahvé di sacrificare il primo essere vivente che avesse incontrato dopo la battaglia, in caso di vittoria. Per mantenere fede alla promessa fatta, Jefte, tuttavia, avrebbe dovuto uccidere la propria figlia, il primo essere vivente incontrato durante il rientro a casa, a battaglia vinta. Il conflitto nasce evidentemente dal fatto che è doveroso sia mantenere le promesse sia proteggere (e quindi non uccidere) i propri figli, due obblighi morali che nella situazione descritta non possono essere contemporaneamente osservati. Parafrasando il teorema illustrato, possiamo logicamente concludere che «una promessa che obbliga un soggetto a fare qualcosa di proibito è essa stessa proibita: quindi non si devono formulare promesse il cui adempimento può costringerci a violare altri doveri (morali o giuridici)» (Palladino e Palladino, 2014, p. 66).
In sintesi, alla luce di quanto detto, possiamo concludere che lo studio della validità di inferenze contenenti operatori deontici rappresenta una condizione necessaria per coltivare la capacità di ragionare correttamente su questioni etiche, in quanto ci supporta nel valutare la coerenza di discorsi prescrittivi, inclusi quelli di natura morale. Tuttavia, esso non è sufficiente in quanto tale capacità richiede, a nostro avviso, di essere coltivata anche lungo una direzione dominio-specifica, seppur all’interno di un approccio logico-formale. La declinazione dominio-specifica ci consente, infatti, di rendere apprezzabile la specificità delle premesse e delle conclusioni tipiche dell’ambito morale.
In questo quadro si rivela particolarmente fertile la riflessione del filosofo Harry J. Gensler che nel suo volume Formal Ethics indaga la razionalità morale utilizzando gli strumenti della logica simbolica, senza tuttavia sconfinare in considerazioni riduzionistiche, ma riconoscendo la complementarità di aspetti formali e non formali ai fini della formulazione di criteri oggettivi per la discussione razionale in ambito etico (Gensler, 1996, cap. 7 «Moral Rationality»).
L’etica formale, sostiene il filosofo, consiste nella formulazione e nell’analisi di principi etici formali universalmente condivisi, che possano offrire uno spazio comune di confronto tra i sostenitori di differenti teorie morali, a prescindere dal dissenso in merito al loro significato e alla loro giustificazione. In questo senso, l’attributo formale, che qualifica suddetti principi15 come adattabili a una pluralità di contenuti, deve essere inteso in opposizione all’attributo materiale e spiegato attraverso un richiamo alla logica simbolica su cui è di fatto modellata l’etica formale.
Scopo della logica, come abbiamo precedentemente sottolineato, non è fornire una descrizione di come di fatto pensiamo, bensì individuare tutte e sole le inferenze valide ovvero quelle in cui la conclusione è conseguenza logica delle premesse. La natura formale della logica (o meglio delle varie logiche) risiede nel fatto che la correttezza delle inferenze non dipende dai particolari contenuti delle proposizioni coinvolte — che infatti vengono espresse ricorrendo a simboli —, ma dalla loro struttura sintattica. In altri termini, la correttezza formale del ragionamento garantisce il trasferimento della potenziale verità delle premesse alla conclusione. La verità di quest’ultima è vincolata, pertanto, sia alla validità delle regole di inferenza (o principi logici)16 sia alla bontà e alla solidità delle assunzioni da cui sviluppiamo il processo inferenziale, la valutazione delle quali rientra nell’insieme di condizioni non-formali (si veda il paragrafo Ragionamento morale e saperi curricolari del presente contributo), complementari a quelle di ordine squisitamente logico, a cui deve essere assoggettata la discussione razionale in ambito morale (ma non solo).
La teoria formale dell’etica costruita da Gensler si configura come un sistema assiomatico-deduttivo composto dagli assiomi della logica classica e della logica modale (inclusi quelli della logica deontica), unitamente ad altri quattro assiomi tendenzialmente accettati come non controversi dalle differenti teorie morali, che in linguaggio naturale possiamo esprimere come segue:
- Assioma della Prescrittività (P): «Se dovete fare A, allora fate A. Se vi è permesso fare A, allora potete fare A».
- Assioma della Universalizzabilità (U): «Se l’atto A deve essere fatto (è permesso), allora c’è una qualche congiunzione F di proprietà universali tale che: 1) l’atto A è F; 2) in ogni caso reale o ipotetico ogni atto che è F dovrà essere fatto (sarà permesso).17
- Assioma della Razionalità (R): «Si deve pensare e vivere coerentemente con la logica e gli altri assiomi dell’etica formale».18
- Assioma Fini-Mezzi (E): «Conseguite il fine E» implica «Se adottare il mezzo M è causalmente necessario per conseguire il fine E, allora adottate il mezzo M».
Da questi quattro assiomi (il cui acronimo è PURE) è possibile derivare una serie di teoremi (principi), espressi mediante variabili e costanti logiche,19 classificabili in cinque distinti gruppi (il cui acronimo è LOGIC): Logicità (Logicality), Omni-prospettiva o Legge Universale (Omni-perspective), Regola d’oro (Golden Rule), Imparzialità (Impartiality), Coscienziosità (Conscientiousness).20
Come in un qualsiasi sistema assiomatico organizzato deduttivamente, anche nella formal ethics la nozione di coerenza (consistency) riveste un ruolo fondamentale, sebbene subisca un ampliamento semantico rispetto al significato di non-contraddittorietà logica tradizionalmente attribuitole. La razionalità morale richiede, infatti, non solo di rispettare i principi di logicità21 rigettando credenze tra loro contraddittorie, ma, come attestano gli assiomi da cui derivano i principi etico-formali, anche di coordinare coerentemente fini e mezzi, di agire in armonia con le proprie credenze morali, di effettuare valutazioni simili in circostanze simili, a prescindere dalle persone coinvolte, e soprattutto di trattare il prossimo come vorremmo essere trattati noi stessi (Gensler, 1996, p. 138).
Un discorso analogo vale per la definizione di inferenza valida (valid argument) — ovvero tale per cui se le premesse sono vere lo deve essere necessariamente anche la conclusione — che si adatta perfettamente agli enunciati assertivi di cui si occupa la logica, mentre perde di senso se riferita agli enunciati imperativi (né veri né falsi)22 di cui constano assiomi e principi etici. Per le inferenze dove compaiono forme imperative viene quindi riformulato il concetto di validità, prescindendo dal riferimento alla verità e alla falsità delle proposizioni coinvolte: nel sistema assiomatico-deduttivo sviluppato da Gensler un’inferenza è valida quando la congiunzione delle premesse con la contraddizione della conclusione risulta incoerente. Nelle parole di Gensler (1996, p. 41): «A valid argument is one in which the conjunction of the premises with the contradictory of the conclusion is inconsistent». All’interno della prospettiva delineata dal filosofo, sostenere che un’inferenza è «valida» significa riconoscere l’incoerenza, ad esempio, della seguente combinazione tra premesse e conclusione:
[Premise 1] When the cocoa is boiling, remove it from the heat.
[Premise 2] The cocoa is boiling now.
[Conclusion] But don’t remove it from the heat now (p. 41).
Utilizzando l’assioma R alla luce di questa nuova accezione di validità si può quindi derivare il seguente teorema:
You ought not to combine (1) accepting «When the cocoa is boiling remove it from the heat», (2) accepting «The cocoa is boiling now» and (3) not accepting «Remove it from the heat now».
Tale teorema esprime un concetto di consistenza ampliato che include l’agire coerentemente con le proprie credenze e con i propri desideri, come mette in luce questa sua riformulazione:
You ought to combine (1) wanting to remove the cocoa from the heat when it’s boiling, (2) believing that the cocoa is boiling now, and (3) not acting to remove it from the heat (p. 42).
Questi correttivi apportati dall’autore — a cui abbiamo potuto solo sinteticamente accennare — servono a garantire un’adeguata formulazione dei principi etico-formali affinché possano supportarci nel ragionare in modo più razionale su questioni morali e limitare la possibilità di giungere a conclusioni fallaci e pericolose. Di seguito ne riportiamo alcuni esempi paradigmatici, tra cui segnaliamo «la regola d’oro» (n. 6), considerato dal Gensler il principio etico per eccellenza per le conseguenze a cui vincola chi lo accetta:
- Siate logicamente coerenti nelle vostre credenze: «Se A e B sono incoerenti e accettate A, allora non accettate B».
- Se desiderate raggiungere un fine, allora utilizzate i mezzi necessari: «Se volete fare E e credete che fare M sia necessario per fare E, allora fate M».
- Seguite la vostra coscienza: «Se credi di dover fare A, allora fai A».
- Fate valutazioni simili su casi simili: «Se ritenete che X debba fare A nella situazione S, allora ritenete che chiunque altro debba fare A nella situazione S».
- Agite solo sulla base di una massima che potreste desiderare essere una legge universale: «Se desiderate che nessuno faccia A, allora non fate A nemmeno voi».
- Trattate gli altri come voi desiderate essere trattati: «Se volete che X faccia A a voi, allora fate A a X».
Questi principi, che all’interno di una prospettiva didattica possono essere interpretati come regole di condotta estremamente utili, se assunti nel loro significato letterale possono tuttavia condurre a delle assurdità. Compito dell’etica formale è formulare tali principi in modo chiaro ed esplicito al fine di testarne la coerenza attraverso la ricerca di conseguenze fallaci. Se, infatti, le forme in cui vengono espressi non sono corrette, essi conducono in genere a evidenti assurdità e contraddizioni. Allo scopo di rendere più perspicuo quanto appena sostenuto, proponiamo un esempio, facendo riferimento alla seguente formulazione del Principio di Coscienziosità (C): «Se credete di dover fare A, allora fate A».
Questo principio, così com’è formulato, può indurre a commettere azioni malvagie (così come azioni contraddittorie).
Supponiamo — spiega Gensler (1985, pp. 156 e sgg.) — che crediate di dover commettere un omicidio di massa:
(Premessa 1): Credete di dover commettere un omicidio di massa.
(Premessa 2): Se credete di dover commettere un omicidio di massa, allora commettete un omicidio di massa. (Da C)
………………………………………………………………………………………………….…..
(Conclusione): Commette un omicidio di massa.
Il principio C può inoltre legittimare azioni contraddittorie. Supponiamo, che, oltre alla suddetta convinzione di commettere un omicidio di massa, si creda anche di dover fare tutto ciò che la propria madre desidera — e la propria madre desidera che non si commetta un omicidio di massa. Ne deriva la seguente contraddizione:
(Premessa 1): Credete di dover fare tutto ciò che vostra madre desidera.
(Premessa 2): Se credete di dover fare tutto ciò che vostra madre desidera, allora fate tutto ciò che vostra madre desidera. (Da C)
………………………………………………………………………………………………………..
(Conclusione): Fate ciò che vostra madre desidera.
(Ulteriore premessa): Vostra madre desidera che voi non commettiate un omicidio di massa.
………………………………………………………………………………………………………..
(Conclusione) Non commettete un omicidio di massa.
Il Principio di Coscienziosità espresso attraverso la forma se … allora (if … then) conduce evidentemente a conseguenze inaccettabili: non solo legittima eventuali azioni malvagie così come azioni tra loro contraddittorie (ad es. commettere un omicidio di massa e allo stesso tempo non commettere un omicidio di massa), ma non contempla la possibilità di un errore di valutazione circa ciò che si ritiene essere un proprio dovere. In altri termini, tale principio, espresso nella forma dell’implicazione, ammette (impropriamente) che il credere che qualcosa sia il proprio dovere sia sufficiente a garantire che sia effettivamente il proprio dovere.23
Considerazioni analoghe possono essere estese anche agli altri principi, che necessitano, pertanto, di essere riformulati in modo tale da evitare di generare conseguenze inammissibili.
Allo scopo di cogliere più chiaramente le implicazioni della proposta avanzata da Gensler — che consiste nel sostituire alla forma «Se … allora» (if-then), la forma «non combinare … con …» (don’t combine … with …) — proponiamo una variante dell’esempio precedente (1985, p. 161) applicando la distinzione tra forma errata (bad form) e forma corretta (good form):
- bad form 1: Se credete che A sia sbagliato, allora non fate A;
- bad form 2: Se fate A, allora non credete che A sia sbagliato;
- good form: Non combinate il credere che A sia sbagliato con il fare A.
In riferimento alla convinzione che A sia o non sia sbagliato e al fare o non fare A, si presentano quattro possibilità.
- Credo che A sia sbagliato e, nonostante ciò, faccio A (Violazione del Principio di Coscienziosità).
- Credo che A sia sbagliato e non faccio A.
- Faccio A e non credo che A sia sbagliato.
- Non credo che A sia sbagliato e non faccio A.
La formulazione corretta — a differenza delle due scorrete — vieta semplicemente la combinazione che viola il Principio di Coscienziosità (ovvero compiere un’azione che si crede sbagliata), suggerendo implicitamente di vagliare adeguatamente i due punti di vista in funzione di una loro conciliazione, attraverso analisi e valutazioni che non sono di pertinenza della logica formale (1985, p. 162). In altri termini, la formulazione «don’t combine … with …» non si esprime su quale sia la scelta migliore — se cambiare le proprie credenze oppure le proprie azioni — poiché ciò dipende dal contesto, ma vincola il ragionamento al raggiungimento di un’armonia tra il pensiero e l’agire (1985, p. 163).
Le numerose esemplificazioni fornite dall’autore, che per ragioni di spazio non possiamo riportare, ci consentono, pertanto, di chiarire, in modo proficuo e pertinente, potenzialità e limiti dell’approccio logico-formale al campo dell’etica. Da un lato, infatti, ci permettono di sottolineare il ruolo imprescindibile che la forma logica dell’argomentazione gioca nella costruzione di ragionamenti morali corretti, dall’altro includono criteri extra-formali che ampliano le condizioni di razionalità del ragionamento in questo specifico ambito.
Ragionamento morale e saperi curricolari
Resta ora da connettere il ragionamento morale alla concreta esperienza scolastica. L’ipotesi di lavoro che avanziamo è che i saperi del curricolo si danno come campi di esercizio della capacità di ragionamento morale e che è possibile «controllare» la correttezza dei ragionamenti sulla base di schemi pragmatici coerenti con gli assiomi e i principi etico-formali.
Il ragionamento morale è, prima di tutto, un ragionamento e, come tale, implica un uso disciplinato del pensiero e delle forme linguistiche nelle quali è espresso. Il disciplinamento del pensiero, però, può essere di tipo diverso.
Chiunque sarebbe disposto a sostenere che ragionare in modo corretto sia una competenza trasversale fondamentale. Solo alcuni, tuttavia, sarebbero d’accordo nell’affermare che questa competenza dipenda direttamente dall’insegnamento di elementi di logica classica. Più probabilmente, la maggior parte delle persone sarebbe comunque propensa a riconoscere che essa sia legata alla capacità di usare termini e proposizioni, di compiere inferenze valide o riconoscere inferenze fallaci saggiando le premesse e valutando le conclusioni.
La ragione è che quando pensiamo alla capacità di ragionare in chiave formativa, dobbiamo distinguere tra diversi tipi di ragionamento o, se si preferisce, tra più modi di compiere inferenze. Se esse muovono da premesse vere, o presupposte vere e l’inferenza è un’inferenza deduttiva valida e necessaria, allora il ragionamento è una dimostrazione. Se invece una delle premesse non può essere presunta vera (perché non lo è, o non lo è per tutti), allora, anche se l’inferenza è valida, il ragionamento non è una dimostrazione, ma un ragionamento argomentativo. Un ulteriore caso che rientra in questa tipologia è un ragionamento in cui le premesse sono vere, ma l’inferenza è discutibile, cioè è non logicamente necessaria, nel qual caso anche la conclusione non ha carattere di necessità (Boniolo e Vidali, 2016). Dunque, nel ragionamento dimostrativo, non c’è spazio per la discussione. Chiunque accetti le premesse accetta necessariamente anche la conclusione. In un ragionamento argomentativo, invece, possono essere discusse sia le premesse sia il processo inferenziale.
Per ciò che riguarda l’esperienza scolastica, la dimostrazione è il ragionamento tipico dei saperi formali, come la matematica, la fisica teorica o la logica — ambiti nei quali è possibile l’accordo sulla verità delle premesse e dove si applicano inferenze formalmente codificate — mentre l’argomentazione è il ragionamento tipico dei saperi non formali, come la storia, la letteratura o la filosofia, ambiti nei quali la verità delle premesse non è riconosciuta e le inferenze possono essere non necessarie, ma dove, tuttavia, la discussione tra posizioni diverse deve essere comunque condotta rispettando principi logici e dove la conclusione, sebbene non possa dirsi definitiva, deve essere raggiunta razionalmente e giustificata. In questo quadro, si può ritenere che i saperi curricolari offrano un sistema di contenuti-pretesto che possono essere selezionati secondo un criterio di prossimità al dominio morale. Per esempio, si possono individuare testi letterari, fatti storici o scoperte scientifiche che stimolano la riflessione e la discussione morale in relazione al loro contenuto. I saperi curricolari divengono pertanto la sede ove guadagnare una prospettiva morale sul mondo, formulare giudizi morali e discuterne le implicazioni.
In questa prospettiva si muove anche il Critical Thinking, un ambito di studi orientato alla didattica, che assume a proprio oggetto la capacità di ragionare bene (Hitchcock, 2017). Secondo questo approccio, un «abile ragionatore» non solo padroneggia le regole del corretto ragionare da un punto di vista formale, ma possiede un sistema più ampio di capacità che non dipendono strettamente dalla logica. Tra queste, saper analizzare gli argomenti di un ragionamento, saper cercare e valutare le evidenze disponibili, avere l’attitudine all’autocorrezione e ad assumere un atteggiamento antidogmatico (Pastore, Dell’Antonio e Job, 2019).
Tutto ciò chiama in causa anche i saperi di insegnamento. La comprensione o la produzione di un ragionamento ha infatti a che fare con la possibilità di valutare il processo inferenziale che supporta una certa conclusione (e ciò riguarda la conoscenza logica), ma anche gli argomenti di cui si compone (e ciò riguarda la conoscenza dei saperi): il giudizio sulla validità delle premesse, infatti, non è indipendente dalla conoscenza in esse espressa.
Come fanno notare Pastore, Dell’Antonio e Job (2019, p. 881) «la valutazione della verità o falsità delle premesse costituisce un passaggio particolarmente delicato della comprensione degli argomenti, poiché pone un problema epistemologico che non ha una soluzione univoca e immediata: cosa è ammissibile come evidenza a favore o contro una premessa?» La risposta a questa domanda cambia, evidentemente, al variare del tipo di ambito conoscitivo considerato. Nel caso dell’insegnamento della storia, per esempio, se immaginiamo di strutturare una situazione di apprendimento sulla ricostruzione (di un’epoca, di un evento, di una trasformazione, di una civiltà, ecc.) a partire dalla ricerca e dalla classificazione delle fonti documentarie, allora l’ammissibilità di un’evidenza a favore o contro una premessa si pone nei termini della rilevanza delle fonti e delle informazioni in esse contenute rispetto all’obiettivo della ricostruzione storica. Diversamente, nel caso dell’insegnamento delle scienze, la questione investe i criteri di indagine e di validità della prova, ossia quella che Schwab (1971) chiama la «sintassi della scoperta» di ciascun sapere e che individua come una delle strutture della conoscenza su cui articolare il curricolo.
Ci sembra, tuttavia, che stimolare la riflessione e la discussione morale in relazione al contenuto dei saperi (guadagnare una prospettiva morale sul mondo), così come promuovere il sistema di capacità del critical thinking non contribuisca in maniera specifica alla coltivazione della capacità di ragionamento morale più di quanto non contribuisca alla capacità di ragionamento in generale, a meno di vincolare il controllo razionale della discussione a principi logici formali pertinenti a questo ambito. La nostra opzione, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, è a vantaggio dei principi etico formali. Essi vincolano il ragionamento morale alla validità delle regole di inferenza logica e consentono la valutazione delle premesse in base a condizioni complementari non formali. I saperi del curricolo divengono pertanto la sede per l’esercizio della capacità di ragionamento morale se promuovono l’uso di questi principi come strumenti formali per accrescere la razionalità con cui pensiamo i problemi morali.
Bibliografia
Bagnoli C. (2006), Dilemmi Morali, Genova, De Ferrari.
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1 L’articolo è stato concepito e sviluppato dalle Autrici congiuntamente. Berta Martini ha scritto il primo e il terzo paragrafo, Monica Tombolato ha scritto l’introduzione e il secondo paragrafo.
2 Professore Ordinario di Didattica e Pedagogia speciale, Dipartimento di Studi Umanistici, Università degli Studi di Urbino «Carlo Bo».
3 Assegnista di ricerca in Didattica generale, Dipartimento di Studi Umanistici, Università degli Studi di Urbino «Carlo Bo».
4 The article was devised and developed by both authors. Berta Martini wrote the first and third paragraph, Monica Tombolato wrote the introduction and the second paragraph.
5 Full Professor of Didactics and Special Pedagogy, Department of Humanistic Studies, University of Urbino «Carlo Bo».
6 Research fellow in General Didactics, Department of Humanistic Studies, University of Urbino «Carlo Bo».
7 Si rinvia al saggio di Massimo Baldacci in questo numero della Rivista.
8 La logica classica prende in considerazione enunciati dichiarativi, generalmente espressi al tempo indicativo, che possono assumere un solo valore di verità (vero o falso). Essa è pertanto caratterizzata dal principio di bivalenza e dal fatto di impiegare, nella costruzione di proposizioni composte, solamente connettivi vero-funzionali — non (⁓), e (∧), o (∨), se… allora (→), se e solo se (↔) — ovvero tali per cui il valore di verità delle proposizioni composte mediante quei connettivi dipende unicamente dai valori di verità delle proposizioni componenti. Per un’introduzione alla logica classica si rinvia a Palladino (2010).
9 I sistemi deontici sono costruiti ampliando il linguaggio della logica proposizionale classica con i due operatori O (obbligatorio) e P (Permesso), dove OA significa «A è obbligatorio» mentre PA «A è permesso». Per un’introduzione alle logiche deontiche si rinvia a Palladino e Palladino (2014).
10 Operatori modali aletici sono «è necessario che» ed «è possibile che», mentre «un soggetto crede che» e «un soggetto sa che» sono operatori epistemici.
11 L’espressione «mondo possibile» è utilizzata in senso metaforico e può essere inteso, sulla scia del Wittgenstein del Tractatus Logico-Philosophicus (1921), come l’insieme delle proposizioni vere in una data situazione: «Se, pertanto, una stessa proposizione è vera in una data situazione e falsa in un’altra allora si può concludere che esse appartengono a due mondi diversi». Per approfondimenti si rinvia a Palladino e Palladino (2014, pp. 25 e sgg.).
12 Le perplessità avanzate da molti studiosi circa la possibilità di costruire una logica delle norme o degli imperativi — proposizioni che, a differenza degli enunciati dichiarativi della logica classica, non sono né vere né false — sono state in larga misura aggirate da Von Wright grazie alla distinzione tra norme e proposizioni normative. Se, infatti, alle norme non può corrispondere un valore di verità («è vietato uccidere» oppure «è obbligatorio fermarsi allo stop» — intese come norme che vietano qualcosa o impongono un dovere — non sono né vere né false), lo stesso non vale se le si interpreta come proposizioni normative che asseriscono l’esistenza di norme in tal senso (Palladino e Palladino, 2014, pp. 65-66). Per approfondire tale delicata questione si rinvia a Pizzo (2011).
13 Per una discussione più estesa sui paradossi deontici che esula dai limiti di questo saggio si rinvia a Palladino e Palladino (2014, pp. 67-71); Pizzo (2009).
14 Ricordiamo che possiamo tradurre «B è vietato» come «è obbligatorio non B» ovvero O ⁓ B.
15 Un esempio di principio etico formale è «Segui la tua coscienza» mentre un esempio di principio etico materiale, ovvero un principio etico che implica un agire specifico, è «Non rubare».
16 Ad esempio il modus tollens: [(A →B ) ∧ ⁓B] ⊢ ⁓ A.
17 Una formulazione meno rigorosa ma più intuitiva è la seguente: «Se l’atto A dovesse essere fatto (fosse permesso), allora, in qualsiasi caso reale o ipotetico, dovrebbe essere fatto (sarebbe permesso) anche qualsiasi atto che sia esattamente o significativamente simile nelle sue proprietà universali» (Gensler, 1996, p. 66).
18 Come sostiene lo stesso Gensler, tale assioma è equivalente al principio di coerenza formulato da Lewis (1946, p. 481): «Siate coerenti nella valutazione, nel pensiero e nell’azione».
19 Al contrario, i principi etici materiali, in virtù della loro specificità di contenuto, non sono passibili di formalizzazione.
20 In sintesi, l’etica formale è quindi basata sulla PURE LOGIC (Gensler, 1996, p. 42).
21 La logica ci impone di essere coerenti nelle nostre convinzioni. Rispettare i principi di logicità implica sia non accettare credenze incompatibili tra loro sia non accettare una credenza senza accettarne anche le conseguenze logiche. I vincoli imposti dai principi di logicità, sostiene Gensler (1996, p. 14), contribuiscono a una migliore gestione delle controversie.
22 Questo problema è emerso anche all’interno della logica deontica, come spiega sinteticamente la nota 6.
23 Nell’implicazione se A allora B (A→B), il verificarsi di A è condizione sufficiente per il verificarsi di B.
Vol. 7, Issue 1, April 2021