Vol. 20, n. 3, settembre 2021

PRECURSORI

Rompete le righe!

L’innovazione pedagogica di Margherita Zoebeli nell’Italia del dopoguerra

Alessandra M. Straniero1

Sommario

In questo contributo si affrontano la vita e l’opera di Margherita Zoebeli con particolare riferimento al suo lavoro in Italia all’indomani della Seconda guerra mondiale. Ideatrice di un sistema educativo «pensato sul campo» della distruzione bellica, ha operato per infrangere le geometrie statiche dell’insegnamento frontale a vantaggio di una nuova idea di educazione, di comunità, lavorando per l’inclusione di bambini con disabilità nella scuola, nonché onorando l’adulto già in nuce nel bambino, anticipando di 25 anni le sperimentazioni che in materia di pedagogia sarebbero seguite. L’esperienza del Centro educativo italo-svizzero (CEIS) di Rimini, nato nel 1946 e tutt’ora attivo, progettato insieme all’architetto Felix Schwarz, vede nell’architettura e nell’organizzazione dello spazio un principio educativo e il superamento di una pedagogia direttiva e autoritaria. La sua è la visione lucida di una collettività, in cui la cooperazione e il senso di responsabilità trasversale di tutti gli individui che ne fanno parte esprime i prodromi di un modello di inclusione la cui eredità è per noi un dovere cogliere per instaurare una pedagogia che superi le più radicate barriere sociali.

Parole chiave

Margherita Zoebeli, CEIS, Inclusione, Comunità, Differenza.

PIONEERS

Break the lines!

Pedagogical innovation by Margherita Zoebeli in Italy in the post-war era

Alessandra M. Straniero2

Abstract

This article addresses the life and work of Margherita Zoebeli with particular reference to her work in Italy in the aftermath of World War II. Creator of an educational system «designed in the field» of the ravages of war, she worked to shutter the static geometries of frontal teaching for the benefit of a new idea of education and of community, working towards the inclusion of children with disabilities at school, as well as honouring the embryonic adult in the child, thus anticipating the experiments that would follow in the field of pedagogy by 25 years. The experience of the Italian-Swiss Educational Centre (CEIS) in Rimini, which was designed together with the architect Felix Schwarz in 1946 and is still active today, shows in its architecture and organization of space an educational principle and the transcending of directive and authoritarian pedagogy. Hers is the lucid vision of a community in which cooperation and the transversal sense of responsibility of all the individuals who are part of it express the prodromes of a model of inclusion whose legacy is for us a duty to follow up on in order to establish a pedagogical approach capable of overcoming the most deeply rooted social barriers.

Keywords

Margherita Zoebeli, CEIS, Inclusion, Community, Difference.

Mi piace sentir dire che il CEIS, soprattutto perché genitori e bambini vi si fermano volentieri oltre il dovuto, non sembra una scuola! Non ho mai auspicato un ambiente chiuso e statico ma una comunità aperta al territorio basata sulla partecipazione. […] Se essa è una comunità non lo è solo perché diverse persone stanno insieme ma perché c’è un progetto comune che va continuamente chiarito, discusso, modificato: questo è il valore ultimo della comunità-scuola.

Margherita Zoebeli in Colloquio con Raffaele Laporta (Castiglioni, 1991, p. 30)

Premessa

Quando ho letto il primo articolo di questa rubrica curata da Fabio Bocci, il cui titolo Precursori rimanda a un tempo futuro del passato, il cui attraversamento e recupero appare imprescindibile per chi vive il tempo presente della pedagogia e della didattica, ho pensato immediatamente a Margherita Zoebeli. Il caso ha voluto che mi imbattessi nell’articolo di Bocci (2021) proprio nei giorni in cui cadeva il venticinquesimo anniversario della morte di Zoebeli, avvenuto il 25 febbraio di quest’anno.

I motivi per cui Zoebeli possa essere considerata di diritto una precorritrice nel campo pedagogico e didattico sono presto detti: per primo va menzionato «il suo rifiuto di un insegnamento direttivo e frontale, che inquadrasse i bambini in attività uniformi e collettive, nell’ambito di uno spazio organizzato come “blocco unico”» (De Maria, 2015, p. 19); in secondo luogo, la necessità di rifondare le basi dell’insegnamento, fino a quel momento radicate in una scuola di stampo autoritario ereditata dal fascismo, disciplinata sulla base delle idee di uniformità e obbedienza. Il suo progetto educativo è stato, quindi, particolarmente innovativo e pioneristico, proprio per un Paese come l’Italia che era appena uscito dal secondo conflitto mondiale e dal ventennio fascista (Pironi, 2012; Trentanove, 2012).

Ho approfondito per la prima volta la figura di Zoebeli quando mi sono occupata del pensiero pedagogico di Gramsci e delle convergenze con l’epistemologia della Pedagogia Speciale (Straniero, 2019), intesa come una pedagogia militante (Caldin, 2015). L’attività svolta nel Centro Educativo italo-svizzero (CEIS) di Rimini, fondato da Margherita Zoebeli nel 1946 e tutt’ora attivo, rappresenta una delle esperienze più avanzate nel nostro Paese dell’attivismo e pragmatismo pedagogico di stampo deweiano. In quel contributo ho provato a delineare il legame tra il pensiero di Dewey e quello di Gramsci (del resto già rinvenuto da altri studiosi, si veda ad esempio Siciliani de Cumis, 1978; Martinez, 2014), mostrando quanto l’ideale pedagogico che muoveva Zoebeli abbia più di un punto di contatto con il pensiero gramsciano. A sostegno di questa interpretazione viene un colloquio fra Raffaele Laporta e Zoebeli che si conclude con queste parole di Laporta: «Non ci potrebbe essere un miglior gemellaggio fra la Svizzera di Pestalozzi e di Piaget e l’Italia di Gobetti e Gramsci di quello che ogni giorno si celebra nelle aule, negli spazi, fra gli alberi del Villaggio [del CEIS di Rimini]» (Colloquio fra Margherita Zoebeli e Raffaele Laporta, in Castiglioni, 1991, p. 45).

Biografia di Zoebeli e legame con le lotte operaie in Svizzera

L’opera di Margherita Zoebeli non è particolarmente viva nella mente di chi in Italia si occupa di pedagogia e di educazione. Fino a qualche anno fa mancavano anche volumi che ne ricostruissero la biografia e l’attività educativa. Come ricorda Carlo De Maria (2015, p. 11), le tracce di Margherita e del Centro educativo italo-svizzero di Rimini nei libri di storia della pedagogia e della scuola italiana sono davvero pochissime, mentre risulta pressoché assente dai libri che si occupano di pratica educativa. Eppure, Zoebeli può essere considerata una delle figure più influenti nel nostro Paese della pedagogia, in particolare della pedagogia praticata in contesti di crisi.

Margrit Zöbeli (italianizzato in Margherita Zoebeli, versione che lei stessa preferì adottare durante la sua lunga attività in Italia) nasce a Zurigo nel 1912 in una famiglia del ceto medio progressista. Il padre, Ernst, era impegnato nel Partito socialista svizzero e attivo nel sindacato e nel mondo della cooperazione. I suoi studi non furono immediatamente orientati verso la pedagogia, alla quale arrivò tramite l’impegno politico nella Gioventù operaia socialista svizzera, nella quale si occupava del lavoro di comunità e dell’organizzazione dei campeggi, rivolti in particolare ai figli dei disoccupati. Proprio l’attività del campeggio, in quanto pratica di autogestione e di partecipazione, attualizzava alcuni dei principi del socialismo, soprattutto del socialismo «altro» rispetto a quello marxista, libertario e antidogmatico, che metteva l’accento sulla comunità, sull’autonomia dei singoli e dei gruppi, sulla fraternità, piuttosto che sullo Stato e sulla conquista del potere. Da qui è nata la convinzione di Zoebeli rispetto all’inscindibilità dei termini «individuo» e «società» e al fatto che la vita di comunità si fondasse sulle «attività che permettono l’apporto dell’iniziativa e della responsabilità individuale» (Zoebeli, La struttura della colonia, cit. in De Maria, 2015, p. 31). Ci sono alcuni aspetti dell’impostazione pedagogica di Zoebeli che sono rimasti inalterati nel corso degli anni e che sono profondamente determinati dalla teoria socialista: «l’importanza dell’educazione per arrivare a una nuova società; l’impossibilità di disgiungere teoria e pratica, pensiero e azione; la coerenza tra fini e mezzi — la democrazia come fine e come mezzo, e dunque l’importanza dell’organizzazione democratica dell’ambiente educativo; la centralità dei valori della solidarietà e della cooperazione; il primato dato alla pedagogia della comunità; rispetto dell’altro e valorizzazione di ogni membro del gruppo, ruolo attivo verso gli altri, atteggiamento di fiducia; infine, l’amore per la natura e per l’ambiente» (Zoebeli, Appunti presi in vista dei corsi di formazione per educatori di comunità tenutisi nel 1991 e nel 1993, cit. in De Maria, 2015, pp. 31-32).

Nei primi anni Trenta, e cioè fin dagli albori della sua fondazione, Zoebeli prese parte al Soccorso operario svizzero, un’organizzazione di solidarietà dell’Unione sindacale svizzera e del Partito socialista, nel quale operò come assistente sociale e educatrice. Fu in quell’ambiente che Zoebeli ricevette, assieme agli altri operatori sociali che lavoravano per il Soccorso operario, una formazione in ambito psicologico (che guardava in particolare agli studi di Adler) e pedagogico (determinante l’apporto del pensiero di Maria Montessori), che saranno poi centrali nell’impostazione educativa del CEIS di Rimini. Grazie a questa esperienza formativa e professionale, Zoebeli si convinse che fare politica per lei significasse agire nel campo dell’educazione. Dopo una «missione» in Spagna nel 1938 per conto del movimento socialista svizzero, durante la quale organizzò l’espatrio di un centinaio di bambini e la loro sistemazione in luogo sicuro in Francia, e dove incontrò per la prima volta Célestin Freinet (che assieme ai CEMEA – Centres d’entraînement aux méthodes d’éducation active hanno rappresentato una alternativa alla diffusione delle pedagogie totalitarie) (Fofi, 1999), Zoebeli tornò a Zurigo, dove si abilitò all’insegnamento nella scuola dell’obbligo e seguì un corso di approfondimento in pedagogia differenziale (allora detta «curativa»).

L’arrivo a Rimini

Alla fine del conflitto mondiale, Rimini era «Un mare di mozziconi di case» (Fellini, 1987): 396 bombardamenti subiti in 11 mesi, 607 vittime civili, 4.189 edifici rasi al suolo, 3.155 gravemente danneggiati, 1.997 lesionati, con un coefficiente di distruzione superiore all’82% (Delucca, 1996; Pivato, 1996). Il sindaco della città, il socialista Arturo Clari, cercò di mobilitare la solidarietà nazionale e internazionale. A rispondere prontamente e con grande slancio fu il Soccorso operaio svizzero, che nel 1945 inviò a Rimini una propria delegazione per valutare le azioni da intraprendere assieme alle autorità locali. Queste ultime spinsero in particolare per la costruzione di una scuola materna. Racconta Zoebeli: «Pensavano a un centro sociale che, oltre alla scuola materna, comprendesse dei laboratori, una biblioteca, degli ambienti che favorissero l’aggregazione, poiché nella città non esisteva più niente. Serviva urgentemente una doccia pubblica […]».3 Nei mesi seguenti, in Svizzera, venne elaborato il progetto esecutivo; per la sua stesura vennero incaricati Margherita Zoebeli e l’architetto Felix Schwarz. Il piano prevedeva da un lato una distribuzione di abiti, generi alimentari e strumenti di lavoro, dall’altro la creazione dell’asilo infantile per ospitare bambini dai 3 ai 6 anni e di una comunità residenziale per bambini con difficoltà socio-familiari quali 20 orfani di guerra, chiamata fin da subito «casina», perché, nelle parole di Vreni Thalmann (la prima operatrice alla quale venne affidata la cura dei bambini orfani), «il nome orfanotrofio mi pareva orrendo» (testimonianza raccolta in Dubach et al., 2012, p. 31).

Il 17 dicembre 1945 Zoebeli arrivò a Rimini, aveva 33 anni. Il 16 gennaio 1946 giunsero nella città romagnola i primi trenta carri ferroviari provenienti dalla Svizzera contenenti quintali di legno (utili all’assemblaggio di 13 baracche dell’esercito svizzero) per la costruzione di un centro sociale e di un asilo per l’infanzia, e i «pacchi mobili», vale a dire un imballo che conteneva, smontati, due letti, quattro sedie, un tavolo, un armadio e utensili per la cucina, il minimo indispensabile destinato alle famiglie che, a causa della guerra, avevano perso tutto (si veda la Relazione relativa alla distribuzione delle AERMO-mobili Forniture a Rimini, in De Luigi e Pivato, 1996, pp. 40-43).

Costruzione del Villaggio: lo spazio come progetto politico

La costruzione della prima baracca in legno che andrà a formare il Centro educativo italo-svizzero iniziò il 28 gennaio 1946 sul terreno di ciò che restava (praticamente nulla) dell’anfiteatro romano di Rimini. Novemila metri quadrati sui quali collocare 13 padiglioni di legno e un piano di Centro sociale comprendente la scuola materna (successivamente venne costruita anche una scuola elementare).

La figura dell’architetto Schwarz permette di affrontare un aspetto molto importante per comprendere in profondità l’attività del CEIS, vale a dire il rapporto tra organizzazione dello spazio e pedagogia. In un articolo apparso sul giornale locale Città nuova Schwarz scrisse: «L’architettura è l’espressione più chiara della volontà, delle intenzioni politiche dell’umanità. L’uomo servendosi direttamente dell’architettura, ne è direttamente influenzato. Fedeli alle nostre concezioni socialiste, tentiamo di organizzare il materiale da costruzione di cui disponiamo in modo da favorire attraverso le forme ambientali la libera educazione dei nostri bambini» (Schwarz, 1946). Animati da questi principi, gli spazi interni e quelli esterni del Centro vennero organizzati in modo da «allargare l’orizzonte pedagogico» come scrive De Maria (2015, p. 86). Gli interni delle aule, le baracche in legno del Soccorso operaio svizzero, erano organizzate in modo tale che potessero essere modulate all’occorrenza in spazi più intimi, grazie alla presenza di alcune lavagne mobili. La convinzione, infatti, era che i bambini potessero esprimere la propria individualità, avendo la possibilità di starsene da soli, o esprimere scelte soggettive creando piccoli gruppi di gioco (Zoebeli, 1973). Gli sgabelli erano stati concepiti in modo da trasformarsi in grandi cubi da costruzione. Era assente la cattedra, proprio per non riprodurre rapporti autoritari, mentre vi erano gruppi di tavoli per il lavoro cooperativo. Lo spazio esterno presentò non pochi problemi di organizzazione. Dovendo allestire, oltre alle aule scolastiche la doccia pubblica, la sala riunione, la biblioteca, i laboratori, la cucina con lo spazio mensa, l’idea guida di Zoebeli e Schwarz era quella di evitare forme rigide o simmetriche e dunque non collocare le 13 baracche militari in linee parallele, né a quadrato, con un cortile al centro. L’esperienza dei campi di concentramento era troppo viva per poter anche solo pensare di riprodurne la geometria.4 Zoebeli, invece, «cercava un “ordine organico” che corrispondesse ai bisogni di una comunità educativa: libertà, scoperta, compagnia. Autonomia di ogni gruppo e, nello stesso tempo, possibilità di incontro» (De Maria, 2012, p. 19). Erano baracche nate per un uso militare, ma il progetto ideato da Zoebeli e dall’architetto Schwarz non ne risentì, anzi, «in un certo senso l’estrema semplicità e flessibilità delle strutture ci ha aiutati in un primo momento a dar vita a un vero villaggio articolato e ricco di ambienti, in seguito poi, ci ha permesso di modificare gli spazi con facilità a seconda delle esigenze didattiche e organizzative» (Colloquio fra Margherita Zoebeli e Raffaele Laporta, in Castiglioni, 1991, p. 21). È come se la natura modulare del materiale utilizzato per costruire i diversi ambienti del Centro, senza l’ausilio del cemento, pesante e immodificabile, avesse reso plasmabile e plastico l’intero progetto. I padiglioni, poi, sono stati collocati a mo’ di villaggio, con una piazzetta comune e collegati fra di loro da vialetti non asfaltati. Zoebeli ricorda così il momento in cui si decise come organizzare spazialmente il Centro: «Abbiamo infine deciso di collocare queste baracche militari in modo che formassero un villaggio, dove ogni padiglione avesse una sua autonomia e un suo territorio intorno, con vialetti che dividessero e congiungessero le baracche e una piazzetta in mezzo dove la gente si potesse incontrare spontaneamente o in situazioni organizzate» (Zoebeli, 1985, p. 180). Come ha scritto Pironi, è la categoria di «apertura», in antitesi alla «chiusura» delle istituzioni dei regimi totalitari, a contraddistinguere il CEIS fin dalla sua ideazione e costruzione (2012, p. 75; Pironi, 2017). Nulla doveva rimandare a un’organizzazione nella quale uno si sarebbe imposto sui più, dove avrebbero prevalso la sopraffazione e la restrizione della libertà: dalla scelta di non chiamare «orfanotrofio» la struttura dei bambini rimasti soli, alla disposizione delle uscite degli alunni, mai in «fila» ma in gruppo, «sempre libero, piccolo, instabile» (Pescioli e Zoebeli, 1965).

Significativa la data di inaugurazione del Centro, il 1° maggio 1946. Così si espresse Felix Schwarz in un annuncio dell’imminente inaugurazione: «Ci mettiamo pertanto a lavoro con coraggio, perché i nostri figli, usciti dal giardino d’infanzia, possano entrare in abitazioni nuove e perché possano vivere e prosperare in una società che non abbia solo l’illusione di essere socialista ma socialista lo sia realmente» (Schwarz, 1946).

Una pedagogia attiva della partecipazione

Il Centro Educativo italo-svizzero iniziò la propria opera in un contesto profondamente segnato dai drammi della guerra. Non solo gli edifici scolastici della città erano stati quasi completamente distrutti, ma il livello di scolarizzazione era piuttosto basso, tanto che ancora nel 1951 un censimento rilevò un tasso di analfabetismo dell’8,43% sul solo territorio comunale (Pivato, 1996).

Prima però di passare all’analisi dell’approccio educativo del CEIS, e per comprenderne appieno la portata, va detto che esso si andava a collocare in un quadro di iniziative per l’educazione dell’infanzia che emerse in tutto il Paese all’indomani del secondo conflitto, probabilmente anche per far fronte alle carenze e ai ritardi delle amministrazioni pubbliche e statali. Negli stessi anni nascono anche, ad esempio, i «villaggi del fanciullo» o «repubbliche dei ragazzi» in alcune città del centro nord; i Centri di orientamento sociale (Cos) promossi a Perugia da Aldo Capitini; i convitti «Rinascita», che ebbero tra i principali promotori Antonio Banfi; la Scuola-città Pestolazzi fondata a Firenze da Ernesto Codignola (Tomasi, 1976). Sono tutte esperienze generalmente ispirate all’attivismo pedagogico, che hanno posto al centro l’autogoverno, l’insegnamento individualizzato, il lavoro di gruppo e un nuovo rapporto fra maestro e discente e che hanno raccolto non poche critiche dai contemporanei, soprattutto dalle forze cattoliche e conservatrici, cosa che d’altro canto colpì anche il CEIS e l’opera di Zoebeli a Rimini.

L’esperienza del Centro educativo italo-svizzero, quindi, va inquadrata all’interno di questo generale fermento educativo che interessò l’Italia all’indomani della caduta del fascismo. E proprio il Centro riminese diede vita, tra il 1946 e il 1947, a una serie di dibattiti con relatori eccellenti, nazionali e internazionali, che discussero sui problemi psico-pedagogici e educativi: da Carleton Washburne, responsabile della Pubblica istruzione nel Governo militare alleato, profondo conoscitore del metodo deweiano, a Jean Piaget, a Pierre Naville, a Ernesto Codignola, la cui esperienza della Scuola-città Pestolazzi di Firenze viaggiò in parallelo con quella di Zoebeli a Rimini e con la quale ebbe in comune una serie di problemi educativi, primo fra tutti la necessità di dover rieducare gli insegnanti, annichiliti e umiliati dal Ventennio fascista.

Come ha affermato Enrico Bottero in un’intervista ad Andrea Canevaro del 7 dicembre 2020,5 «il CEIS nel secondo dopoguerra è stato il crocevia della pedagogia italiana più innovativa. Il CTS [Cooperativa della tipografia a scuola], poi diventato il Movimento di cooperazione educativa [MCE], fece il suo primo congresso nel 1952 ospitato proprio da Margherita. I CEMEA hanno avuto lì la loro sede».

Fecondo fu l’incontro con Carlo Doglio e Tonino Scalorbi che permise a Margherita Zoebeli e al CEIS di avvicinarsi agli ambienti olivettiani. Doglio, assieme ad altri giovani intellettuali come Franco Ferrarotti e Bruno Zevi, fin dal 1950 collaborò con le Edizioni di Comunità e al progetto culturale di Adriano Olivetti, che vide la traduzione e la diffusione di tutte quelle opere straniere che il fascismo aveva escluso dal nostro Paese. Scalorbi, a partire dal 1952, grazie all’aiuto di Doglio, trovò lavoro allo stabilimento dell’Olivetti a Ivrea. Le mogli di Doglio e Scalorbi lavorarono per diversi anni al CEIS di Rimini e i lori figli frequentarono la scuola nel Villaggio. Come ricorda De Maria, «Erano gli anni in cui la realtà della Olivetti, con la promozione di servizi sociali per i dipendenti, e per tutto il territorio, assai avanzati nel contesto italiano, si poneva come una alternativa del fare impresa rispetto alla FIAT dei reparti confino e della repressione contro i socialisti e comunisti» (2015, p. 102; sul confronto Olivetti/FIAT si veda Zucchini Scalorbi, 2000). Olivetti, inoltre, nel periodo dell’occupazione tedesca, si era rifugiato nella Svizzera italiana, dove entrò in contatto con il Partito socialista ticinese e con la sezione luganese del Soccorso operaio svizzero. Queste connessioni portarono Zoebeli a scrivere per la prima volta a Olivetti nel gennaio 1949 quando cercava fondi per l’ampliamento della Casina. Non si conoscevano di persona, ma diversi amici e colleghi avevano suggerito a Margherita di rivolgersi a lui, viste le difficoltà economiche nelle quali versava il CEIS. Dopo una settimana dall’invio della lettera, Olivetti rispose con un assegno di 50 mila lire e la disponibilità a inviare macchine per scrivere. I lavori di ampliamento della Casina vennero fatti con fondi svizzeri e completati grazie al contributo dell’UNRRA-CASAS (Comitato Amministrativo Soccorso Ai Senzatetto), per i quali spinse molto Olivetti che all’epoca faceva parte del consiglio di amministrazione del comitato di soccorso.

Alla base dell’idea pedagogica di Zoebeli e del Centro vi era la precisa volontà di «offrire ai bambini le condizioni perché divenissero capaci di collaborare al proprio processo educativo» (Zoebeli, 1985, cit. in De Maria, 2015, p. 180). Da qui scaturì «la necessità di contribuire allo studio e alla sperimentazione di nuove metodologie pedagogiche, basate sulle esigenze di una società democratica» (Zoebeli, 1985, cit. in De Maria, 2015, p. 180).

Il CEIS ha interpretato l’attivismo pedagogico in una sua maniera originale, che si rinviene soprattutto nell’integrazione dell’azione educativa nel servizio sociale. Questa integrazione non è una mera questione amministrativa, se è vero che «scuola e casa — vale a dire il luogo in cui venivano accolti i bambini che necessitavano di un supporto affettivo e educativo — sono organizzate come comunità in cui si svolge una ricca vita relazionale, prima all’interno del singolo gruppo (nei vari settori), poi tra i vari gruppi (ad es. della scuola) e infine estesa a tutti coloro che vivono il CEIS, in un clima stimolante e rassicurante» (Zoebeli, cit. in Tassinari, 1996, p. 60). Come ha ricordato Andrea Canevaro nell’intervista di Enrico Bottero già richiamata, al CEIS le cuoche, il manutentore, cioè coloro che svolgevano mansioni pratiche, avevano un ruolo educativo nei confronti dei bambini, coinvolgendoli, proprio perché tutti all’interno del CEIS erano parte di una comunità educante. Queste figure mettevano in atto un tipo di apprendimento per affiancamento, diverso dall’apprendimento per trasmissione frontale. È un apprendimento attivo, perché immediatamente situato nel reale. Sempre Canevaro ha parlato dell’attività di Zoebeli come di una «pedagogia attiva della partecipazione» (Canevaro, 1998, p. 162). Il modo di operare della pedagogista svizzera ha fatto sì che nei casi di estremo bisogno educativo/affettivo/materiale si evitasse di cadere nelle maglie pericolose dell’assistenzialismo, che troppo spesso genera dinamiche di potere e di dominio di chi presta assistenza su coloro che la ricevono, privilegiando invece una pedagogia cooperativa (Pironi, 2012). Cooperazione il cui campo d’azione è direttamente correlato al circostante e ai luoghi. Ecco perché fu rilevante l’intuizione di una maggiore considerazione dell’organizzazione fisica e spaziale del Centro, utile a rinsaldare e stimolare la vita di comunità: ogni luogo è stato progettato e realizzato per facilitare l’incontro fra persone e gruppi da un lato, e il raccoglimento e il lavoro individuale quando viene avvertito come necessario, dall’altro (Castiglioni, 1991). Il giardino del CEIS venne creato con l’obiettivo di collegare armoniosamente le diverse strutture; l’ambiente e le aree verdi «rendono vivo il senso della comunità e fanno apprezzare l’ambiente naturale sotto il profilo conoscitivo ed estetico, ma anche nel suo significato sociale, come un bene comune» (Tassinari, 1996, p. 60).

La necessità di creare una comunità si è posta fin dall’inizio; essa avrebbe influito positivamente sul processo educativo dei bambini, andando a stimolare tanto l’iniziativa individuale quanto la partecipazione, così come voleva l’educazione attiva. Si trattava, però, anche di una necessità situata in un tempo specifico, quello della fine del secondo conflitto mondiale, che richiedeva un rinsaldamento della vita comunitaria, che stimolasse un’educazione alla pace e alla tolleranza. È in quest’ottica che il Centro ha da sempre incluso bambini che venivano percepiti come diversi, o rifiutati dalle scuole statali; il CEIS, infatti, rappresenta uno dei primi esempi di integrazione dei bambini con disabilità o con problematiche comportamentali, o dei bambini stranieri, in netto anticipo sui tempi delle prime sperimentazioni (Canevaro, 1996; 2012). Questo spirito profondamente orientato a quella che noi oggi chiamiamo inclusione aveva un preciso scopo, sicuramente connesso al tempo devastato che l’Italia stava attraversando: ci riferiamo alla convinzione che i bambini dovessero essere in grado di dare un contributo, di partecipare attivamente alla crescita della comunità allargata. Insomma, si guardava al futuro cittadino adulto già insito nel bambino. Questa visione è stata facilitata proprio dalla compresenza dell’attività del centro sociale, che ha consentito di rendere fluidi i rapporti fra scuola e ambiente: «ad esempio — raccontava Zoebeli — la necessità di una nuova professionalità medica è stata avvertita prima di tutto all’interno, ma questo era anche un bisogno della comunità. Così il servizio medico-psico-pedagogico che abbiamo creato è diventato in seguito servizio per la città; e ancora, l’esperienza stessa del Centro al quale affluiscono tanti bambini segnalati per difficoltà di apprendimento, fa nascere un altro servizio, quello per la prevenzione e il recupero della dislessia e comunque a vantaggio di bambini che manifestano difficoltà non legate a carenze intellettive; anche questa struttura si apre in città» (Colloquio fra Margherita Zoebeli e Raffaele Laporta, in Castiglioni, 1991, p. 35). Il servizio medico psico-pedagogico viene istituto al CEIS a partire dall’anno scolastico 1953/1954; fu una delle prime esperienze di servizio di questo genere in Italia. Lo scopo era quello di aiutare i bambini colpiti dal trauma della guerra e ospitati nella Casina, che all’epoca venivano definiti «difficili», rifiutati dalle scuole pubbliche e che solo al CEIS trovavano accoglienza. Era convinzione di Zoebeli «che le comunità scolastiche debbano integrare anche quei bambini che per disturbi psico-fisici vengono attualmente allontanati e relegati in classi speciali» (cit. in De Maria, 2015, p. 163). Ricorda Marisa Scoccianti, medico pediatra impegnato nel servizio psico-pedagogico del Centro: «Già l’ambiente del CEIS, così pregnante e suggestivo, rendeva possibile una risposta ai bisogni del bambino e al suo benessere psichico: il villaggio dava sicurezza, dava la possibilità di esperienze organizzate e spontanee, di attività di scoperta, ludiche e didattiche insieme, non affrontando il disagio settorialmente, ma nell’interazione tra ambiente-atteggiamento degli adulti — trattamento medico psico-pedagogico» (Scoccianti, 1996, p. 54). Ed è così che il Centro medico-psico-pedagogico attivato nel CEIS agli inizi degli anni Cinquanta ha iniziato quel lavoro di équipe e osservazione ben 25 anni prima rispetto alle esperienze nate nel resto del Paese. Rappresentò, dunque, una vera e propria operazione d’avanguardia. Basti pensare che l’istituzione di un Centro medico-psico-pedagogico venne presa in considerazione in un luogo di eccellenza quale fu l’Olivetti di Ivrea soltanto alla fine degli anni Cinquanta.

Tra l’orientamento adleriano, secondo il quale tutti i bambini hanno propensioni, desideri e attitudini che vanno stimolati opportunamente, e sulla scorta dell’attivismo pedagogico di Freinet, che vedeva il rinnovamento della comunità scolastica strettamente correlato a quello della comunità sociale, va collocato l’impegno dei CEIS nei confronti dell’integrazione dei bambini e delle bambine con disabilità. In questo senso, il CEIS ha lavorato come una vera e propria comunità di sostegno, poiché in esso si è realizzata un’assunzione di compiti da parte dell’intera comunità scolastica. Come ha descritto Gianfranco Jacobucci (direttore del CEIS dal 1978 al 1986) nella sua relazione al convegno L’educazione attiva oggi: un bilancio critico organizzato presso il CEIS dal 25 al 27 maggio 1979, il Centro educativo italo-svizzero ha lavorato con la disabilità in modo davvero innovativo, realizzando il superamento della delega al solo insegnante di sostegno, «delega che si traduce nella maggior parte dei casi in un doppio isolamento (del bambino e dell’insegnante). È per tale motivo che il CEIS preferisce parlare di “comunità di sostegno”» (Jacobucci, 1984, p. 72). La scuola, allora, è una comunità inserita in una comunità più grande, qual è la società: «se si operasse per una integrazione sociale della scuola, avremmo risolto molti problemi dell’integrazione nella scuola. Personalmente non credo, tuttavia, che la scuola, come oggi si configura storicamente, rappresenti un “corpo separato”, ma che anzi sia strettamente inserita nei modi e nelle esigenze di questa società» (Jacobucci, 1984, p. 75).

Conclusioni

Ancora sul legame fra il CEIS di Zoebeli e Adriano Olivetti, si evidenzia come entrambi fossero mossi da un progetto politico, oltre che educativo e produttivo. A Rimini Zoebeli ha dato vita a un’idea democratica e comunitaria dell’educazione e della scuola, dove convivevano senso di appartenenza e «libertà nella responsabilità» (Andrea Canevaro intervistato da Enrico Bottero, cit.); a Ivrea la fabbrica di Olivetti era un laboratorio di democrazia partecipativa, che si trasferiva sul territorio al livello comunale, dove gli amministratori venivano sollecitati, sostenuti e vigilati dalla comunità. Il Movimento di Comunità, esperimento ideato da Olivetti nel 1948, ha promosso iniziative socio-culturali che vanno ricondotte a un preciso impegno pedagogico, che trova conferma proprio nella reciproca collaborazione che si venne a creare tra il Villaggio italo-svizzero di Rimini e l’Asilo di Olivetti a Ivrea, dove si svolgevano corsi di aggiornamento per gli insegnanti di scuola materna ai quali partecipò la stessa Zoebeli, tenendovi delle lezioni sulla didattica e guidando le esercitazioni pratiche (De Maria, 2015, p. 115). Olivetti fu anche un grande sostenitore dell’attivismo pedagogico di Dewey; egli condivideva con il pensiero del pedagogista americano — abbracciato come visto anche da Zoebeli — l’idea che educare la persona e trasformare la comunità fossero compiti coincidenti e soprattutto possibili, a patto che si mobilitassero nel lavoro sociale risorse conoscitive, competenze tecniche e istanze etiche (Santamaita, 1987). Questa filosofia dell’educazione ancora oggi può riaffermare l’impegno sociale nel contrastare il diffondersi di atteggiamenti individualistici, la manifestazione di comportamenti discriminatori ed escludenti, lavorando, invece, sui valori di una convivenza civile. Il fatto che l’apprendimento sia partecipazione di tutti sottolinea il valore attivo rappresentato dalle relazioni interpersonali e dalla vita in comunità nella formazione individuale e nell’acquisizione di conoscenze.

Il ricorrere costante della parola «comunità» tanto in Zoebeli quanto in Olivetti — come, d’altro canto, in tanti intellettuali e attivisti dell’epoca (basti pensare alla riforma agraria voluta da Manlio Rossi-Doria; Rossi-Doria, 2011) — rimandava a un preciso obiettivo di fondo: ricostruire un senso di vita insieme, oltre che di spazio fisico condiviso. Le parole «comunità» e «sviluppo» non erano disgiunte: i singoli e la comunità crescono insieme.

Oggi, quando l’individualismo sembra vincere pesantemente sulla collettività intesa come progetto democratico, la riattualizzazione dei/delle pionieri/e in campo pedagogico e didattico appare davvero strategico; Margherita Zoebeli e Adriano Olivetti, Mario Lodi e Danilo Dolci, Antonio Gramsci e Ernesto Codignola, solo per citarne alcuni, possono arricchire di significati e di pratiche anche l’esperienza dell’inclusione scolastica e sociale, che rischia di perdere in forza ed efficacia se viene sganciata da un progetto di comunità democratica, dove tutti e tutte, con le proprie caratteristiche, possono e devono contribuire al progresso della società. Come ha scritto Fofi poggiandosi sull’opera pedagogica di Zoebeli, che cominciò nel 1945 in un momento di crisi quale quello post-bellico, anche noi oggi, che pure viviamo una crisi forse peggiore giacché non possediamo il conforto della necessità evidente di una ricostruzione, dobbiamo inventare una «pedagogia della sfida», che «è forse il lascito maggiore che possiamo attingere dai modelli di ieri. Il richiamo a un intervento sociale e pedagogico convinto e lucido, con una coscienza piena del disastro del mondo, ma anche con una volontà forte di reagire» (Fofi, 2012, p. 179).

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1 Università della Calabria.

2 Università della Calabria.

3 Relazione tenuta da M. Zoebeli a un seminario organizzato da Carlo Doglio, presso il Dipartimento di Sociologia dell’Università di Bologna, il 7 maggio 1985. Si veda la trascrizione parziale dell’intervento che le venne inviata da Doglio con una lettera del 26 settembre 1986 conservata nell’Archivio Zoebeli, Scritti e appunti, fasc. Minute e trascrizioni di interventi pubblici.

4 Questa stessa attenzione, purtroppo, non guida i nostri contemporanei progettisti e costruttori dei cosiddetti «campi» (già l’uso del termine dovrebbe farci saltare dalla sedia) destinati alle comunità rom sparsi in tante parti d’Italia, che fanno dell’organizzazione geometrica un pericoloso criterio spaziale e morale. Su questo punto si rimanda, ad esempio, a Brunello (1996) e Revelli (2000).

5 Il video dell’intervista è disponibile su Youtube all’indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=Bo35k2L8kzg (consultato il 1° settembre 2021).

Vol. 20, Issue 3, September 2021

 

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