Vol. 20, n. 3, settembre 2021 — pp. 154-156

Rubrica

Recensione

Gergen K.J. e Gill S.R. (2020), Beyond the tyranny of testing. Relational evaluation in education, New York, NY, Oxford University Press.

«Everything begins with dialogue. Dialogue is the initial step in the creation of value, dialogue is the starting point and unifying force in all human relationships». Questa citazione del filosofo giapponese Daisaku Ikeda offre da subito la possibilità di mettere al centro una parola che resterà fondamentale nel corso dell’intero libro di Kenneth J. Gergen e Scherto R. Gill. Dialogo è infatti la parola alla base dell’approccio relazionale che l’autore e l’autrice desiderano proporre, un approccio alla valutazione ma in senso ancora più ampio, all’educazione.

Si tratta di una riflessione che si inscrive all’interno del movimento socio-costruzionista1 (Gergen, 1994; 2009), con radici profonde nel pensiero di Dewey (educazione come processo sociale), di Vygotskij (l’importanza della dimensione relazionale per la crescita cognitiva) così come di Bruner (la concezione dei sistemi educativi come forme di vita culturale in cui i partecipanti sono legati da «shared understandings»). Proprio quest’ultimo richiamo appare interessante per mettere a fuoco la metafora che Gergen e Gill propongono come chiave di lettura dell’intero volume nonché come conditio sine qua non per giungere all’idea di educazione e di valutazione come processi relazionali. La metafora proposta riguarda la scuola e si tratta di superare l’idea della factory per raggiungere quella della conversation. Restando all’interno dell’idea di scuola come factory, assume valore il concetto di produttività, strettamente connesso alla performance individuale: se uno studente «fallisce», la responsabilità è da attribuire al singolo individuo e più precisamente alla sua pigrizia, negligenza, scarso interesse, scarsa motivazione allo studio e altre cause che attengono alla sfera individuale, così come, sul versante docente, un insuccesso nel processo di apprendimento è allo stesso modo imputabile a responsabilità «interne» al docente, come limitate competenze didattiche o scarso impegno. Nell’ambito di tale visione che potremmo definire lineare e focalizzata sul singolo, non c’è spazio per il contesto, per tutto ciò che ruota intorno allo studente e al docente, per le relazioni, per la complessità di elementi in rete che invece contraddistinguono qualsiasi realtà scolastica. Il processo alla base dell’idea di scuola come factory è il manufacturing, in cui è la prestazione di ogni individuo che concorre al risultato di una «buona educazione» quasi come una somma di singole prestazioni di successo.

Il co-creating è invece il processo alla base dell’altra metafora, quella della scuola come conversation. In questa visione è il connettersi l’un l’altro tramite la conversazione che dà vita alla conoscenza e quindi sono le relazioni che si instaurano tra gli individui ad essere generative di ulteriori relazioni e di impegno per l’apprendimento. Il flusso delle conversazioni (molteplici nello spazio e nel tempo, «myriad conversations in motion», p. 15) rende possibile la generazione di significati condivisi, significati di ciò che si fa, di ciò che si dice, delle stesse discipline (che sono conversazioni all’interno di comunità professionali), del mondo che si abita. Diventa evidente come siano la collaborazione e il dialogo ad essere centrali in questo tipo di pensiero, allo stesso tempo motore del processo e fine del processo stesso: l’educazione si muove grazie e dentro a queste conversazioni co-create ed è il loro arricchimento il fine stesso del processo educativo.

È qui che entra in gioco la valutazione. Spostarsi da una visione relazionale dell’educazione a una visione altrettanto relazionale del processo valutativo significa interrogarsi sul senso che quest’ultimo debba assumere e sul modo in cui possa concorrere alla promozione dell’apprendimento e del processo relazionale stesso. Gergen e Gill provano a chiamare questa prospettiva valutativa «relationally informed evaluation» sottolineando anche la scelta di utilizzare il termine «evaluation» e non «assessment» per mettere in luce la radice della parola che rimanda all’idea non solo di dare valore ma anche di rinforzare, arricchire, mobilizzare… opportunità e potenzialità di crescita e ben-essere per un relational flourishing (p. 241). Perché ciò possa accadere, diventa necessario promuovere culture valutative che prendano le distanze da situazioni in cui «a person or a group sits in judgment on voiceless others» (p. 15) per avvicinarsi a situazioni in cui la valutazione assume forme di «ricerca collaborativa» intenzionalmente realizzata per sostenere i processi di apprendimento, di ben-essere e di relazione.

Debora Aquario


1 Si veda Gergen K.J. (1994), Reality and relationships. Soundings in social construction, Cambridge, Harvard University Press e Gergen K.J. (2009), Relational being, Oxford, Oxford University Press.

 

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