Vol. 1, n. 2, ottobre 2024

Sguardi sul futuro: anche l’homo posthumanus non è un’isola1

Stefano Bonometti, Letizia Ferri, Elena Ferioli e Silvia Siano2

Sommario

L’articolo presenta alcune riflessioni a partire da quanto emerso dal percorso interdisciplinare Uno sguardo verso il futuro: in cammino nella complessità contemporanea, condotto dal Centro di Etica Clinica (CREC) e dal Teaching and Learning Center (TLC) dell’Università dell’Insubria L’ipotesi di una società post umana, nella quale l’ipercomplessità riconfigura gli ambiti della vita individuale, sociale e professionale, costituisce un’impellente e rilevante questione per il contesto accademico e il suo impegno formativo nei confronti delle generazioni emergenti. Nell’ambito della centralità della dimensione comunitaria per le università, sono stati organizzati quattro incontri, svoltisi mediante il metodo del dibattito, tra febbraio e marzo 2024. Questi momenti seminariali hanno visto la partecipazione di esperti di vari ambiti, coinvolti in un dialogo con studenti e educatori del territorio varesino.

Attraverso un’analisi della letteratura condotta da Affinati, si è evidenziata la resilienza della forma letteraria nel favorire relazioni interpersonali e intergenerazionali. Magatti ha introdotto il concetto di noosfera, sottolineando l’interdipendenza e la nuova concezione di libertà da essa derivante. Castelli ha affrontato il tema della retorica bellicista e delle conseguenze sociali, culturali e civili di un’opzione bellica. Infine, Benasayag ha esplorato la relazione tra uomo e intelligenza artificiale, proponendo un nuovo paradigma basato sull’interconnessione.

Le conclusioni del seminario hanno posto al centro delle riflessioni le sfide che si intravedono all’orizzonte e il valore della creazione di spazi che incentivino le relazioni, abbracciando l’interdipendenza consapevole come fondamento per affrontare le sfide dell’era postumana.

Parole chiave

Futuro, homo posthumanus, interdipendenza, relazioni umane, complessità.

Looking to the future: even homo posthumanus is not an island

Stefano Bonometti, Letizia Ferri, Elena Ferioli and Silvia Siano3

Abstract

The article presents some reflections based on the findings of the interdisciplinary journey «A Glimpse into the Future: Walking in Contemporary Complexity», conducted by the Clinical Ethics Center (Crec) and the Teaching and Learning Center (TLC) of the University of Insubria. The hypothesis of a post-human society, in which hypercomplexity reconfigures the realms of individual, social, and professional life, constitutes an urgent and relevant issue for the academic context and its educational commitment to emerging generations. Within the framework of the centrality of the communal dimension for universities, four meetings were organized, conducted through the debate method, between February and March 2024. These seminar sessions saw the participation of experts from various fields engaged in a dialogue with students and educators from the Varese area.

Through an analysis of literature conducted by Affinati, the resilience of literary form in fostering interpersonal and intergenerational relationships was highlighted. Magatti introduced the concept of nousphere, emphasizing interdependence and a new conception of freedom. Castelli addressed the theme of future peace and individual and collective responsibility. Finally, M. Benasayag explored the relationship between humans and artificial intelligence, proposing a new paradigm based on interconnectedness.

The conclusions of the seminar have placed at the center of reflections the challenges that are looming on the horizon and the value of creating spaces that encourage relationships, embracing conscious interdependence as a foundation for addressing the challenges of the post-human era.

Keywords

Future, homo posthumanus, interdependence, human relationships, complexity.

Introduzione: un nuovo umanesimo Posthumanus?

In un’epoca caratterizzata dalla complessità e dalla rapida evoluzione tecnologica, è necessario ripensare al significato della dimensione umana all’interno dei nuovi contesti di vita. L’ipotesi di una società postumana (Dominici, 2016; Grion, 2021), in cui l’ipercomplessità riconfigura la vita personale, sociale e professionale, rappresenta un’istanza forte e incalzante per il mondo accademico e la sua finalità educativa e formativa rivolta alle nuove generazioni.

Il periodo dell’umanesimo italiano, momento storico di grande fervore culturale, che ebbe radici nella Grecia antica esaltava la dignità umana, la libertà e il pensiero critico attraverso la diffusione della cultura (Motta, 2008); uno degli obiettivi principali dell’umanesimo era di educare l’essere umano affinché potesse esprimere al meglio il suo potenziale, sviluppando capacità intellettuali, formare persone che contribuissero in modo responsabile e consapevole al progresso della società in cui erano inserite. L’umanesimo si basava sulla fiducia incondizionata nelle capacità dell’uomo (Garin, 1994); questo ottimismo, che ha radici profonde nell’Umanesimo e si è protratto per tutto il Rinascimento (Vagni, 2015), trovando conferma nel razionalismo sette e ottocentesco, ha subito un brusco contraccolpo nel XX secolo a causa delle due guerre mondiali, durante le quali l’uomo, ritenuto il nuovo dio, è stato spodestato dalle proprie azioni. Questi eventi storici hanno generato un diffuso smarrimento culturale in Europa e nel mondo. La moderna società ha sviluppato una profonda angoscia di fronte alla complessità del significato esistenziale e una disperazione etica derivante dall’incapacità di raggiungere una coerenza morale interna. Le conseguenze antropologiche di questo atteggiamento includono una diminuzione del piacere nel vivere, una ricerca frenetica di significato all’interno di sistemi di pensiero e ideologie, la perdita di senso del tempo, la solitudine, il rifiuto di stabilire relazioni significative e il tentativo affannoso di trovare un senso esistenziale nel volontarismo stoico (Daniel-Rops, 1955).

Ancora oggi i valori dell’umanesimo, sebbene promulgati da diverse parti in differenti modalità e forse con diverse sfaccettature e accezioni di fondo, seppur si riferiscano al medesimo termine, continuano ad essere considerati quelli fondamentali per il rispetto della dignità umana, la promozione della libertà individuale e la costruzione della società, anche se per ognuno di questi termini, usati da più parti, spesso le definizioni non sono condivise e unanimi, come non lo sono i riferimenti a quali fossero effettivamente i fondamenti del primo umanesimo. Il richiamo a costruire un Nuovo Umanesimo è supportato da documenti di rilevanza mondiale come il Rapporto Unesco 2018, che invita a ripensare l’educazione verso un bene comune globale, e il White paper del World Economic Forum (2023), che promuove un nuovo approccio umanistico e sistemico per migliorare l’educazione in vista dell’occupabilità e anche dalla Chiesa, i cui Pontefici si sono espressi già da molto tempo e ripetutamente sulla necessità di un nuovo umanesimo, inteso come: «lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere autentico sviluppo, deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo. Ciò che conta per noi è l’uomo, ogni uomo, ogni gruppo d’uomini, fino a comprendere l’umanità intera» (Paolo VI, 1967, p. 3).

In questo bisogna anche sottolineare che spesso umanesimo e antropocentrismo si sono sovrapposti, ad esempio un insigne filosofo del secolo scorso affermava: «Che il pensiero sia senza voli iperurani […] che l’uomo è il centro e il signore del mondo, ma a condizione […] di dar corpo e consistenza a quel libero signoreggiare» (Garin, 1955, p. 529), portando l’uomo a sentirsi autorizzato a decidere le sorti di tutto ciò che si trovava ad avere intorno e a distruggerlo, come è infatti successo per esempio con l’ambiente.

Anche il tema della solitudine e dell’individualismo non è nuovo nella nostra società, già nel 1936 Salvatore Quasimodo scriveva:

Ognuno sta solo sul cuor della terra

trafitto da un raggio di sole:

ed è subito sera.

Eppure, dopo la pandemia globale e con l’avvento della tecnologia la situazione sembra essere notevolmente peggiorata.

Aspetti che dal secondo dopoguerra sono presenti nella nostra civiltà e nella nostra cultura si trovano ora a un momento di sviluppo cruciale, accelerato dalle nuove tecnologie; si è a un bivio evolutivo in cui gli uomini, ogni singolo uomo, non può più rimandare le proprie scelte etiche e pratiche; per far questo è necessario che esso sia messo però davanti alla realtà dei fatti, perché, come veniva sostenuto nel XX secolo da più voci, ogni decisione autenticamente libera deve essere compiuta, con consapevolezza del bene e della possibilità della sua negazione (Berdjaev, 1945), oggi forse si potrebbe dire che ogni decisione autenticamente libera ha bisogno di riguadagnare prima della scelta vera e propria il senso o i significati della parola bene e dei suoi opposti. In questo senso l’Università non può sottrarsi al suo ruolo educativo e aprire un dibattito su questi temi, almeno per far comprendere quali siano i termini, non semplici e oggi non unilaterali, in quanto non condivisi culturalmente e socialmente, delle questioni.

Un contributo a queste e altre riflessioni sono emerse dal percorso proposto dal CREC (Centro di Ricerca in etica clinica) e dal TLC (Teaching and Learning Center) dell’Università dell’Insubria di Varese, intitolato Uno sguardo verso il futuro: in cammino nella complessità contemporanea che ha proposto a studenti, docenti e educatori del territorio varesino, un percorso di riflessione interdisciplinare in bioetica, scienze umane e educazione, con l’obiettivo di aiutare le persone a orientarsi nel panorama attuale e a confrontarsi con esso.

Nel solco della centralità della dimensione comunitaria della vita accademica si è voluto attivare quattro incontri basati sul metodo del dibattito tra febbraio e marzo 2024, con il coinvolgimento di esperti, in dialogo con studenti e educatori del territorio varesino.

Il tentativo del presente articolo è di far luce sulle linee di sviluppo e di continuità transdisciplinari, mettere in evidenza se ci siano stati degli elementi ricorrenti nei diversi interventi che abbiano effettivamente tracciato dei solchi su cui gli studenti e la comunità educante universitaria possa costruire strade e traiettorie epistemologiche per il suo divenire, la sua mission educativa interna e nei confronti del territorio in cui è inserita e chiamata ad esserne lievito vivificante.

Il futuro della letteratura

Eraldo Affinati ha enfatizzato l’importanza della parola nell’epoca contemporanea, utilizzando come punto di partenza le pagine del suo ultimo libro Delfini, vessilli e cannonate (titolo ricavato da un verso di Giorgos Seferis). Il libro di Eraldo Affinati costituisce una riflessione profonda sull’esistenza umana, contemporaneamente offrendo un’analisi del significato attuale attribuito alla lettura e alla scrittura; organizzato in ventuno sezioni tematiche, l’opera mira a rispondere a una serie di interrogativi universali che rappresentano tappe significative nel percorso spirituale dell’individuo. Questo intento è supportato da spunti e citazioni tratti da grandi romanzieri, poeti classici e contemporanei, presenti all’interno delle pagine del libro.

Nell’incontro di esordio del seminario insubre, Affinati ha mescolato letteratura e autobiografia, riflettendo insieme agli studenti sull’importanza delle relazioni e dell’educazione, alla luce di quelle che potremmo identificare come alcune parole chiave della sua poetica, lette alla luce del rapporto dell’uomo con il futuro: realismo, responsabilità e tradizione (Zinato, 2015).

Nel panorama letterario degli anni Novanta e Zero, Eraldo Affinati emerge con opere caratterizzate dall’ibridismo di genere, unendo fiction e non-fiction (Donnarumma, 2011), secondo una modalità ricorrente tra gli autori di questo periodo. Nei suoi testi, che fondono saggio, autobiografia e diario di viaggio, la tradizione viene reinterpretata in modo sostanziale, ma accolta e valorizzata. Affinati adotta un tipo di realismo distaccato dagli aspetti formali, concentrandosi sull’impegno civile che deve avere l’autore e sul recupero della tradizione come strumento di conoscenza della realtà.

«Io credo che la letteratura sia sempre autobiografica, ma dobbiamo intenderci sul vero significato di tale concetto. Io prendo spunto dalle mie avventure ma le stilizzo. Se non avessi esperienze, non potrei scrivere. Se raccontassi quello che mi è successo così, nudo e crudo, sarei un semplice cronista. Per fare in modo che il lettore s’immedesimi in ciò che narro, devo cercare di raggiungere una certa universalità, una dimensione spirituale che riguardi tutti, anche se non direttamente. Lo scrittore quindi deforma, amplifica, riduce, seleziona. Crea uno specchio illusorio della sua vita. Io interpreto la letteratura quale conoscenza, più che invenzione, sistema di valori da presentare agli altri. Mi baso su ciò che mi accade ma con una autobiografia stilizzata» (Cappelletto e Togni, 2000, p. 7).

La sua produzione letteraria cerca di generare senso critico e riflessione, non limitandosi a una mera rappresentazione della realtà, ma aspirando a un significato universale. Questa aspirazione verso l’universale nella letteratura è definita da Casadei come Erlebnis (Casadei, 2007, cit. p. 123); nelle opere di Eraldo Affinati, la ricerca della verità si orienta verso un ambito universale e la componente finzionale non è autoreferenziale, ma mira piuttosto a stimolare il senso critico e la riflessione.

La responsabilità sociale della letteratura e il suo potenziale per contribuire al bene della società sono concetti centrali nel pensiero di Affinati, che vede la letteratura come un’opportunità per condividere valori e conoscenze con gli altri. Affinati rappresenta con la sua vita il concetto che se oggi «la parola letteraria può ancora avere un peso» è perché ha «il potere di cambiare la realtà» (Donnarumma, 2011, cit. p. 49-50), produrre un discorso che possa essere degno di fede e che, insieme, ricordi le regole cui soggiace ogni forma letteraria.

L’autore, tuttavia, non potrebbe sostenere l’importanza fondamentale del concetto di responsabilità se avesse ceduto al nichilismo; per questo motivo, è evidente in Affinati una profonda fiducia nel ruolo sociale della letteratura come strumento di conoscenza integrale e la possibilità di essa. Tale fiducia nella possibilità di un impatto positivo sulla storia si è sviluppata gradualmente nel corso degli anni all’interno della produzione letteraria dello scrittore. Il percorso intellettuale di Affinati è descritto come un’evoluzione dalla condizione anarchica dell’individualismo all’adozione di una solidarietà che include il recupero della storia come eredità comune e condivisibile, in quest’ottica va letto il romanzo presentato dunque, ma non tutte le opere dello scrittore, in particolari le prime, documentando ancora una volta la connessione ermeneutica tra il percorso autobiografico e quello letterario.

Per Affinati, la responsabilità non è un concetto limitato all’individuo, ma è universale, coinvolgendo ogni persona nella responsabilità verso gli altri. Il recupero della tradizione, centrale nelle opere di Affinati, è evidente nella sua rilettura dei testi tradizionali per interpretare e comprendere il presente. Questi concetti di tradizione e responsabilità si manifestano nell’opera e nella vita dello scrittore romano in tre aspetti principali: l’educazione scolastica, il viaggio e la ricerca delle radici (Zinato, 2015).

Nei libri di Affinati, si rispecchia l’atteggiamento degli autori contemporanei nei confronti degli ultimi, mostrando rispetto verso gli studenti stranieri e riconoscendo la reciproca considerazione tra insegnante e studente come fondamento del rapporto educativo, riflesso poi anche nel rispetto del lettore verso le storie narrate.

Lo scrittore ha dunque dimostrato, attraverso una rilettura autobiografica della propria esistenza attraverso le opere letterarie a lui care quanto l’esistenza stessa della forma letteraria e il suo perdurare nei secoli dimostra una resilienza della possibilità di relazionarsi tra uomini in tutte le epoche e in tutti gli spazi (Affinati, 2023).

Questa attenzione dell’autore per questo tema è stata sottolineata anche dallo spazio da lui riservato nel corso dell’incontro al racconto dell’esperienza della scuola fondata con la moglie, la «Penny Wirton» (Pierangeli, 2019), il cui scopo è quello di insegnare, attraverso l’aiuto di docenti, studenti, pensionati volontari, l’italiano agli stranieri.

La scuola «Penny Wirton», istituita da Eraldo Affinati, emerge come un esempio tangibile dell’idea che la creazione di reti di relazioni educative universali rappresenti la chiave per un’educazione inclusiva e accessibile a tutti, sia ai residenti locali che agli immigrati. Per lo scrittore, la sua scuola è un esempio incarnato di come la collaborazione e l’inclusione possano essere le sole speranze per un futuro educativo equo e sostenibile e come le relazioni siano possibili in termini di spazio (interculturalità) e di tempo (tradizione letteraria) perché basate su aspetti universali. L’incontro si è concluso infatti con l’invito di Affinati a tutti i presenti a diventare volontari della scuola «Penny Wirton», questo ha rappresentato un appello concreto per l’impegno attivo nel promuovere un interesse collettivo per il futuro, inteso non solo in prospettiva individuale, ma come destino condiviso dell’intero sistema umano. Tale chiamata all’azione sottolinea l’importanza dell’empowerment individuale e della partecipazione civica nell’ottica di un progresso sociale e culturale condiviso, ma soprattutto di una responsabilità interconnessa.

Il futuro della società

Nel secondo episodio Magatti ha introdotto il termine chiave di Supersocietà (Giaccardi, Magatti, 2022), identificando così la condizione contemporanea, caratterizzata dall’intreccio delle sfere della tecnosfera, biosfera e noosfera.4 Queste tre dimensioni si intersecano e co-determinano a livello planetario, dando luogo a una configurazione inedita che pone nuove questioni sul piano ambientale, tecnico e socioculturale. Di fatto, l’idea di libertà che avrebbe guidato la modernità e la postmodernità, ossia l’aumentare le possibilità di vita umana per miliardi di singoli individui, evidenzia ormai i suoi effetti contraddittori, che si concretizzano nei rischi dell’aumento della conflittualità e della verticalizzazione sociale. Magatti propone perciò una visione della libertà determinata dal principio generativo, che riconosce tanto la costitutività imprescindibile del legame relazionale intersoggettivo e sociale quanto la capacità del vivente – e in particolare dell’umanità — di non essere determinato dal contingente, ma di poter sempre agire diversamente, anche a fronte delle inevitabili influenze tecno scientifiche e socioculturali contemporanee.

Magatti sottolinea pertanto l’interdipendenza costitutiva del reale e la nuova idea di libertà generativa che ne deriva, delineando una prospettiva in cui la libertà individuale è strettamente connessa alla libertà collettiva perché ha bisogno di essere transitiva, cioè necessita di essere condivisa con altri.

Secondo Magatti, la dimensione generativa, antropologicamente autentica quanto il fabbricare e il consumare, può indicare nuove vie di composizione tra organizzazione sociale, biosfera e libertà personale in quanto la generatività riesce a esprimere la particolarità della relazione tra libertà e legami: essere capaci non solo di afferrare più opportunità possibili per sé (libertà e autonomia individuale), ma di far esistere, con e per gli altri, qualcosa di unico e inedito che arricchisce il mondo e intesse un rinnovato e più autentico legame sociale e ambientale.

Nella logica del principio generativo, pertanto, la libertà così intesa può guidare alla realizzazione di una società umanamente più desiderabile, in cui il legame sociale circoli consapevolmente e in cui, attraverso la libera iniziativa degli uomini, ci si «liberi» a vicenda (Giaccardi e Magatti, 2024).

Magatti a riguardo presenta opportunamente la metafora dell’orchestra, quale immagine esemplificativa di questa configurazione di vita generativa e libertà dinamica verso cui tendere per creare luoghi di esistenza in cui l’individuazione in senso relazionale, transgenerazionale ed ecologica possa realizzarsi, quale alternativa possibile alla perversa alleanza tra individualizzazione e totalizzazione, che la supersocietà, come struttura contemporanea, sembra pronta a incarnare pienamente.

«In un mondo sempre più segnato dall’interdipendenza c’è bisogno che tutti si possano sentire orchestrali. Artisti/autori educati e formati, accomunati dalla stessa dignità, che desiderano essere riconosciuti per il proprio talento, originale e unico. Ma che suonano sempre con, per, e grazie agli altri. […] In questo contesto, organizzato eppure capace di improvvisare creativamente, il principio generativo ricompone in modo nuovo le dimensioni dello spazio e del tempo, della coesistenza e della intergenerazionalità, intrecciandole in una configurazione inedita: molteplicità nell’unità (nello spazio, nel presente) e cambiamento nella continuità (nel tempo) non sono più alternative, ma forme trasduttive e paradossali, generative di un avvenire umanamente sostenibile.» (Giaccardi e Magatti, 2024, p.162).

Il futuro della politica

Nel terzo episodio Castelli, ha affrontato il tema della situazione bellica attuale e sviluppato una riflessione sulle condizioni per un futuro di pace e le responsabilità necessarie nel contesto odierno.

Il punto di partenza della sua riflessione sui contesti bellici attuali e sul dilagare della violenza parte da una domanda: quale atteggiamento possiamo assumere di fronte ai conflitti in atto che in apparenza non riguardano direttamente e non coinvolge personalmente ognuno di noi. Quello russo/ucraino o quello israelo-palestinese sono un esempio.

Un contributo importante nella ricerca di questa risposta è dato, secondo Castelli, dal lavoro degli studiosi e dei ricercatori che possono essere raggruppati in due ambiti, il primo, relativo a coloro che intendono spiegare cosa succede: è il lavoro degli storici, dei sociologi, dei politologi. Il secondo riguarda le considerazioni e le decisioni su cosa si dovrebbe fare e cosa non si dovrebbe fare: è il lavoro dei filosofi.

Per l’autore, il mondo delle tifoserie, di chi si schiera senza se e senza ma, di coloro che sono convinti di avere la verità in tasca sono estranei ai compiti prima indicati, il loro è il mondo degli uomini e delle donne «di fede», di chi è convinto di avere la verità in tasca e vuole affermarla nel mondo. Le persone dedite allo studio devono essere uomini/donne di ragione, pieni di dubbi, ma anche capaci di arrivare al fondo delle cose, di vedere più lontano.

La domanda che Castelli pone è «che cosa devono fare allora questi uomini e queste donne che provano a vedere più lontano di fronte alla guerra?». Non è possibile dare una risposta complessiva. Presentando la propria esperienza di studioso, Castelli descrive un attento lavoro di ricerca per smontare la retorica bellicista, come quella nel caso russo-ucraino, di chi crede che sostenere la guerra del governo ucraino contro quello russo sia giusto (giusto implica una valutazione morale). Per esempio, Castelli evidenzia l’intento di spiegare che se l’occupazione russa sarebbe un disastro per gli ucraini, anche la guerra lo è. Che la guerra non è la strada per un’Europa pacifica, solo il negoziato lo è.

Si è invece sostenuto, nella retorica bellicista, che alimentare la guerra rappresenti un aiuto vero, un supporto opportuno da offrire al popolo ucraino. Oltre all’atrocità delle innumerevoli persone che perdono o hanno perso la vita in ogni guerra, è necessario porre l’attenzione su tutte le conseguenze che seguono il favorire una risposta bellica. Castelli mette in luce quattro conseguenze alle quali è dovuta in particolare attenzione.

  1. Il potere si accentra nelle mani del capo e diventa opaco. Si attiva un immediato processo di centralizzazione delle decisioni, da qui la guerra, dunque, è nemica della democrazia, intesa come sistema per prendere decisioni in modo condiviso, trasparente e rispettoso dell’autonomia individuale e delle minoranze.
  2. Una conseguenza immediata nei contesti di guerra è la repressione dei dissenzienti, dovuta al fatto che la libera circolazione delle idee rappresenta un ostacolo per il funzionamento del meccanismo bellico.
  3. La diffusione del nazionalismo e di altre ideologie aggressive. Nei Paesi in guerra, molto spesso, si crea una sorta di sindrome da accerchiamento, una mentalità di chiusura e di paura che tende a permanere anche dopo il termine del conflitto.
  4. Un’ulteriore conseguenza è l’abitudine alla violenza, all’obbedienza cieca e alla demagogia più volgare.

Castelli dichiara con forza che chi studia e scrive dovrebbe impiegare la sua saggezza e le sue conoscenze, in primo luogo, per fermare il massacro, per convincere le classi politiche a diffidare della possibilità di usare la guerra per scopi di progresso sociale o politico. E in secondo luogo, dovrebbe comportarsi come il tafano socratico, incaricato di «stare appresso» ai potenti, «tutto il giorno e dovunque» per stimolarli, convincerli e rimproverarli.

In un contributo del 2020, Castelli sostiene che una guerra, di qualunque natura e per qualsiasi scopo, produce tali e inevitabili conseguenze devastanti che affermarne la coerenza con la garanzia dei diritti umani può apparire a buon diritto una contraddizione di termini. Ancora, è stato sostenuto che la guerra, soprattutto quella che si combatte oggi fatta di armi di sterminio di massa, è la negazione dei diritti e del diritto; implica in modo automatico la distruzione della civiltà e la regressione a uno stato selvaggio in cui gli istinti umani più egoisti e violenti non trovano ostacoli e danno vita a ogni più terribile nefandezza (Castelli, 2020).

Infine, Castelli ha sottolineato l’importanza di coinvolgere gli altri nella costruzione di un processo di presa di consapevolezza e di pensiero critico, basato sull’autenticità della persona e sulla ricerca di giustizia, mancando nella società attuale criteri universali predefiniti per la definizione e l’attuazione della pace (Castelli, 2015).

Il futuro della tecnica

Infine, nel quarto episodio del seminario, Benasayag, sulla base delle ricerche condotte sul rapporto uomo/macchina (Benasayag e Pennisi, 2024), ha esplorato il rapporto tra l’uomo e l’intelligenza artificiale, sostenendo che la domanda stessa su questa relazione sia errata, in quanto basata sulla tesi dell’esistenza della continuità lineare tra l’intelligenza organica e quella artificiale/algoritmica. Gli esseri umani occidentali si misurano infatti con una condizione terribile, nel tempo dell’attuale: da un lato si rendono conto che sono stati scolpiti per agire, impadronirsi, programmare, controllare e modificare il reale, dall’altra si trovano improvvisamente davanti al fatto «oggettivo» (non un’idea), che il mondo non è padroneggiabile con il loro agire-pensare. Ciò che il produrre tecnico umano provoca, si sottrae in larga misura al controllo dell’uomo stesso, il quale ha una coscienza sempre più dilaniata dall’impossibilità di controllare, padroneggiare, prevedere il risultato dei propri atti (Benasayag, 2022).

L’equiparazione tra la natura del vivente e quella del digitale/informatico è la condizione che attualmente consente la sussunzione dell’individuo da parte della macchina, da cui derivano il possibile rischio della delega di funzioni cerebrali in termini di loro atrofizzazione e, a livello psicosociale, l’emergere come pervasivo del fenomeno della colonizzazione digitale (con i suoi tratti caratteristici di efficienza, funzionalità, velocizzazione del tempo) su tutti gli ambiti dell’esistenza, con la conseguente perdita di quelle dimensioni di fragilità, che costituiscono invece delle caratteristiche specifiche della natura umana (Benasayag e Pennisi 2024).

Benasayag, rivendica invece la necessità di un pensiero e di pratiche in favore del mantenimento della singolarità del vivente (e quindi dell’umano) non modellizzabile secondo i criteri del paradigma tecnico/algoritmico, invitando a elaborare un modello di ibridazione tra tecnica e organismi viventi che non si riduca a una completa assimilazione.

Benasayag, sulla base degli studi Rodolfo Kusch (1998), padre della filosofia de-coloniale, ha pertanto proposto un paradigma interpretativo dell’epoca della complessità contemporanea in cui l’uomo, identificato strutturalmente come nodo di legami, si rapporta alla realtà biologica e sociale consapevole di essere un elemento del sistema mondo, non il suo dominatore. Benasayag evidenzia perciò l’importanza di valorizzare l’interconnessione tra gli esseri umani e l’ambiente circostante come fondamento per affrontare le sfide dell’era postumana, promuovendo l’impegno a condividere, sul piano personale e sociale, l’assunzione della strutturale fragilità della condizione umana e l’attitudine all’intranquillità (Benasayag e Cohen, 2023), quale spinta a sostenere il desiderio di vita, di gioia, di solidarietà in quanto elementi propri dell’esistenza.

La sfida di assumere l’intranquillità, sostiene Benasayag, rappresenta quella svolta che può trasformarsi in attitudine esistenziale, creativa e comune, che spinga gli esseri umani all’azione, a creare nuove forme di agire condiviso, assumendo il presente situazionale come dimensione reale in cui rendersi presenti al presente, rifiutando le illusorie e facili proposte di sicurezza definitiva come soluzioni di un’epoca caotica e ricca di sfide come quella attuale.

Entrare in amicizia con il divenire significa rifiutare come illusorie le facili (e attrattive) proposte di sicurezza definitiva come soluzione di un’epoca caotica e minacciosa: accettare le fragilità significa non rifuggire dai corpi singolari, sofferenti, imperfetti, pulsanti che siamo, preferendo il funzionamento esatto delle macchine, delegando a loro la nostra vita che vogliamo sia ‘gestita’ efficientemente. All’ingiunzione di «stare tranquilli» […] rispondiamo con un elogio dell’intranquillità, con la necessità, soprattutto in un’epoca così ricca di sfide, di capire quali siano le lotte centrali da affrontare, oggi, per difendere la vita a cui partecipiamo (Benasayag e Cohen p. 140).

Nuove sfide e prospettive a lungo termine

Parlare del futuro è un’impresa affascinante e complessa, soprattutto quando consideriamo il concetto di homo posthumanus e l’interdipendenza delle relazioni umane in un contesto di crescente complessità.

L’interdipendenza delle relazioni umane è una caratteristica fondamentale della nostra esistenza, viviamo in una rete intricata di connessioni sociali, economiche, culturali e ambientali che influenzano e sono influenzate dalle nostre azioni e scelte. Questa interdipendenza ci rende consapevoli del fatto che il nostro benessere individuale è legato al benessere degli altri e dell’ambiente che ci circonda. Nella condizione dell’homo posthumanus, potremmo vedere nuove forme di interdipendenza emergere, sia tra esseri umani e macchine che tra diverse forme di vita intelligente, se e quando queste dovessero svilupparsi.

Inoltre, la società, l’economia, l’ambiente e la tecnologia stanno diventando sempre più complessi, con una miriade di fattori che interagiscono in modi imprevedibili nel nostro mondo in evoluzione.

Infatti l’enorme sviluppo tecno-scientifico ha innegabilmente aumentato la capacità dell’uomo di poter arrecare danno ai suoi simili, dilatando tale possibilità nello spazio e nel tempo, con conseguenze gravi e complesse, estensibili nella dimensione globale (a tutti gli esseri umani, ma anche ad esseri animali, vegetali e all’ambiente in generale) e proiettabili alle generazioni future (la costruzione di armi per la distruzione di massa, le ingiustizie globali come la povertà, i genocidi e la schiavitù, la distruzione di risorse finite, il cambiamento climatico) (Palazzani, 2018).

Questo solleva una serie di domande etiche, sociali e filosofiche su ciò che significa essere umani e su come la nostra identità potrebbe cambiare nel corso del tempo.

Ad oggi siamo coscienti dei problemi, ma siamo sufficientemente motivati a risolverli? Siamo moralmente equipaggiati per preoccuparci dei problemi che la nostra società ci presenterà? Siamo quindi adatti al futuro o nascerà addirittura l’esigenza di un bio-potenziamento morale?

Il concetto del bio-potenziamento morale in una società complessa è una questione intrigante e dibattuta. I filosofi Ingmar Persson e Julian Savulescu, nel loro testo Inadatti al futuro sostengono che noi esseri umani non riusciremo a rispondere adeguatamente alle problematiche del nostro tempo, come il cambiamento climatico, le diseguaglianze sociali, o i profondi conflitti tra gli Stati (Persson e Savulescu, 2019).

Questa incapacità è dettata principalmente da alcuni bias cognitivi, come quello secondo cui tendiamo a sentirci sollevati se un evento spiacevole o dannoso, invece di accedere in un futuro prossimo, viene posticipato a un futuro più lontano.

Si percepisce che accanto all’enorme sviluppo tecnologico non si è parallelamente sviluppato un adeguato senso morale, limitato generalmente alla considerazione dell’esperienza presente e immediata, percependo la responsabilità solo di ciò che è causalmente connesso alle nostre azioni, con una assenza di coinvolgimento per eventi e azioni lontane nello spazio e nel tempo.

L’esigenza della dilatazione della morale spazio-temporale è già stata oggetto della riflessione della filosofia morale, infatti sin dalle origini della bioetica, negli anni ’70, Hans Jonas si rese conto che l’accelerazione del progresso tecno-scientifico esigeva la fondazione di una macro-etica della responsabilità sul piano sincronico allargata agli esseri non umani e diacronico dilatata alle generazioni future, prossime e remote (Portinaro, 2009).

Possiamo potenziare, pertanto, le nostre performance morali affinché le sfide che ci attendono possano essere affrontate concretamente?

Negli ultimi dieci anni si è sviluppato un effervescente dibattito sulla possibilità di avviare un percorso di bio-potenziamento morale (Savulescu e Persson, 2012). Tra le diverse forme di human enhancement, fisiche, estetiche, cognitive o dell’umore, oggi le speranze di molti ricercatori e il conseguente dibattito scientifico ed etico riguarda il cosiddetto moral enhancement, inteso come l’utilizzo di strumenti biomedici per incrementare la capacità umana di impegnarsi in comportamenti morali quali il senso di giustizia, simpatia, empatia, altruismo, cooperazione, attenuando aggressività, conflittualità e odio (Galletti, 2022).

Per molti ricercatori questo bio-potenziamento consentirebbe di accrescere le disposizioni morali, in modo più efficace rendendo possibile, in tempi più rapidi e in modo quantitativamente maggiore e qualitativamente migliore, ciò che non sarebbe acquisibile con le metodologie e gli strumenti tradizionali come educazione, istruzione e socializzazione.

Alcuni studi (Kosfeld et al., 2005) hanno mostrato come l’ossitocina riesca a potenziare alcune disposizioni pro-sociali come la fiducia, sebbene altri (De Dreu et al., 2011) abbiano mostrato che questi comportamenti si limitano a rivolgersi soltanto a persone appartenenti al proprio gruppo, soprattutto quello etnico. Un altro metodo potrebbe essere quello di somministrare degli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, ossia dei farmaci che solitamente vengono prescritti per soggetti con depressione o con disturbi d’ansia e alcuni studi (Tse e Bond, 2002) hanno dimostrato che l’assunzione di questi farmaci possa innalzare il senso di cooperazione che mostriamo nei confronti dei nostri simili.

Possiamo quindi potenziare le nostre azioni morali con la medicina? in realtà, esistono delle prospettive di bio-potenziamento morale, anche se finora non è stato scoperto nessun mezzo biomedico di potenziamento morale con effetti sufficientemente precisi e forse non lo sarà mai (Persson e Savulescu 2019, p. 144). Prima di parlare di potenziamento morale bisognerebbe verificare e dimostrare l’esistenza di farmaci o tecnologie sicure ed efficaci a tale scopo, mediante una sperimentazione che mostri sicurezza (prevalenza di benefici su danni, o almeno proporzione tra benefici e rischi) ed efficacia (realizzabilità concreta con risultati effettivi). Una somministrazione di massa di pillole o tecnologie della bontà, ammesso che fosse possibile oltre che sicuro ed efficace, potrebbe non tradursi in un miglioramento morale globale, e al tempo stesso, comprimerebbe la libertà umana.

La questione di potenziare le capacità morali attraverso interventi biomedici solleva inoltre domande profonde sulla natura umana, l’autonomia individuale, l’equità sociale e il significato della giustizia.

Ma è davvero possibile immaginare, in estremo, un mondo dove cattiveria e ingiustizia vengano eliminate attraverso, per esempio, una cura farmacologica? Cosa dobbiamo potenziare? Il sentimento o la ragione? Le capacità o le persone? L’uomo sottoposto a tali cure avrà ancora libero arbitrio? Quanto dovrà essere invasivo l’intervento biomedico sulle capacità morali? Chi stabilirebbe i criteri per decidere quali comportamenti devono essere corretti o potenziati? Esiste il rischio che i valori e le priorità di chi detiene il potere influenzino la definizione di ciò che è moralmente desiderabile? Potrebbe cambiare il modo in cui concepiamo la responsabilità personale, la punizione e il concetto di giustizia? (Primiceri, 2021).

L’aumento della moralità individuale produrrebbe un incremento della moralità collettiva? Per rispondere a questi interrogativi è indispensabile riflettere su alcuni elementi di filosofia morale (Pessina, 2017) e di filosofia del diritto (D’Avack, 2015).

La morale non è atomizzabile, manipolabile o ingegnerizzabile, ma è una dimensione antropologica complessa che rimanda a una interazione tra dimensione interna fisico-psichica (in cui l’aspetto fisico, ormonale, neurologico, genetico si intersecano con l’aspetto psichico, articolato in percezione, sentimento, pensiero, intuizione, riflessione, decisione e comportamento) e dimensione esterna ambientale e socio-culturale. La complessità morale deriva dall’interazione tra diversi livelli: il livello fisico con il livello psichico, ed entrambi con il livello ambientale.

Prima di considerare seriamente tali interventi di bio-potenziamento, sarebbe essenziale condurre una riflessione approfondita sull’educazione e la formazione come potente mezzo per il potenziamento morale, lo sviluppo delle capacità critiche, l’empatia, i valori condivisi e il dialogo etico.

Da sempre gli esseri umani hanno utilizzato diversi metodi per diventare moralmente più buoni, più giusti e più altruisti, come hanno insegnato Socrate, Gesù e Gandhi attraverso l’educazione, l’autodisciplina, le letture edificanti, la conoscenza. In futuro, la genetica, le neuroscienze e la farmacologia potrebbero consentirci di intervenire sulla natura biologica degli esseri umani, potenziando le disposizioni morali perché agiscano con maggiore generosità, compassione, altruismo, empatia, certezze.

Lo human enhancement è divenuto uno dei maggiori temi nell’ambito dell’etica applicata (Marazziti et al., 2021), non sempre però la ricerca pedagogica ha posto un’adeguata attenzione a questa tematica, soprattutto se paragonata all’influenza che tali pratiche hanno o potrebbero avere nei processi educativi, in particolare rispetto all’educazione etica vista nella prospettiva della formazione del carattere e delle virtù (Ghoshal, 2023; Khvastunova, 2020).

Parlare oggi di virtù significa interrogarsi con forza sul significato antropologico dell’eccellenza umana. In prospettiva pedagogica, questo invito si fa sempre più urgente, poiché si confronta apertamente con alcuni snodi educativi fondamentali per la crescita come la formazione del carattere, il valore della testimonianza e il senso della vita buona per l’uomo. La virtù, inoltre, non si esaurisce nel possesso di particolari abilità o specifiche competenze, ma vivifica l’incontro, sempre imprevedibile, fra educatore ed educando. Alcuni autori offrono riferimenti teorici e strumenti operativi per lo svolgimento della funzione tutoriale da parte degli insegnanti, con particolare riferimento alla conoscenza del temperamento degli alunni e alla formazione del carattere, considerando l’educazione etica come una direzione essenziale del processo educativo (La Marca, 2005; Mortari e Mazzoni, 2014; Balduzzi, 2015).

Gli strumenti tradizionali come educazione, istruzione e socializzazione saranno integrati o addirittura sostituiti dalle pratiche di potenziamento biologico? (Fabiano, 2020).

Entrambi gli approcci hanno i loro meriti e limiti, mentre il bio-potenziamento morale potrebbe offrire risultati immediati nel cambiare alcuni comportamenti, l’educazione morale mira a promuovere cambiamenti più profondi e duraturi nelle persone rappresentando un’opzione più sostenibile e rispettosa dell’autonomia individuale. L’educazione offre strumenti per affrontare in modo autonomo le sfide morali e per sviluppare una comprensione più approfondita dei valori e delle responsabilità.

In una società complessa, l’istruzione non dovrebbe limitarsi alla trasmissione di conoscenze accademiche, ma dovrebbe anche includere una forte componente etica e morale. Le scuole e le istituzioni educative possono svolgere un ruolo cruciale nell’insegnare ai cittadini i valori fondamentali come l’onestà, la giustizia, il rispetto per gli altri e la responsabilità sociale. Il potenziamento morale può essere favorito attraverso l’enciclopedia sociale e la consapevolezza delle implicazioni delle proprie azioni sugli altri e sull’ambiente. Questo richiede la promozione di una cultura di empatia, comprensione e solidarietà tra individui di diverse origini, culture e contesti. Nelle società complesse, è essenziale promuovere la partecipazione attiva dei cittadini nella vita pubblica e nel processo decisionale. Il coinvolgimento civico può contribuire al potenziamento morale fornendo agli individui l’opportunità di esercitare la loro voce, difendere i loro valori e agire per il bene comune. Gli individui dovrebbero impegnarsi nel continuo sviluppo personale, riflettendo sui propri valori, praticando la virtù e prendendo decisioni consapevoli che rispettino gli altri e il mondo che li circonda.

In sintesi, il potenziamento morale nella società complessa richiede un approccio integrato che coinvolga istituzioni educative, autorità pubbliche, imprese, organizzazioni della società civile e individui stessi. Solo attraverso uno sforzo collettivo e un impegno continuo per promuovere valori etici e morali fondamentali, una società può sperare di affrontare le sfide complesse e costruire un futuro più giusto e sostenibile.

Conclusioni: l’Università come luogo noetico per il dialogo sulla complessità contemporanea

Il filone comune emerso dagli interventi del seminario riflette un chiaro sguardo verso il futuro, ponendo al centro delle discussioni le relazioni: tra uomini, con l’ambiente e con le tecnologie emergenti. Questi interventi hanno tracciato una prospettiva che supera l’antropocentrismo tradizionale, per abbracciare l’idea fondamentale dell’interdipendenza libera e consapevole, non solo in termini di contenuti, ma anche sul piano della realizzazione di momenti seminariali, luoghi di incontro, approfondimento, interscambio, come quello presentato.

Cercare di costruire degli spazi di confronto interdisciplinari, di dialogo e di discussione di principi fondanti della società rimane forse in se stessa una delle possibili strade con cui tutelare la libertà umana attraverso l’interdipendenza e il contributo che i luoghi educativi, in particolar modo l’Università, possono dare in questo momento storico.

L’università dovrebbe essere uno spazio in cui gli individui possono incontrarsi, discutere e approfondire le complessità della società contemporanea. Questo include non solo argomenti accademici, ma anche questioni sociali, politiche, culturali ed etiche che caratterizzano il mondo in cui viviamo.

La complessità contemporanea richiede un approccio interdisciplinare, il riconoscimento e una comprensione approfondita delle molteplici sfaccettature dei problemi globali. Le università sono ideali per facilitare questo tipo di dialogo e collaborazione, poiché riuniscono persone con interessi diversi ma complementari disponendo di risorse, expertise e spazi di ricerca ideali per esplorare i problemi più urgenti e rilevanti della nostra epoca.

Inoltre, le università dovrebbero incoraggiare una comunicazione aperta e inclusiva, consentendo a studenti, docenti e ricercatori di condividere idee, progetti e soluzioni innovative.

Comunicare la complessità contemporanea è altrettanto importante. Le università devono essere ponti tra la ricerca accademica e la società più ampia, traducendo conoscenze complesse in formati accessibili e comprensibili per il pubblico generale. Questo può avvenire attraverso pubblicazioni accademiche, divulgazione scientifica, eventi pubblici, media e altro ancora.

L’ambiente accademico deve dunque assumere un ruolo attivo nel riconoscere, studiare e diffondere gli strumenti culturali e critici più idonei per analizzare e comunicare la complessità contemporanea in una varietà di settori, al fine di contribuire a una comprensione più approfondita dei problemi e delle opportunità che caratterizzano il mondo moderno in modo da equipaggiare ciascuno (specie i più giovani) con gli strumenti più idonei per affrontare le sfide del futuro dell’ipermodernità e permettere così di essere in grado di orientare le proprie scelte di vita in modo autentico e consapevole.

Emerge l’idea e l’intento, quindi, di rivalutare e fare dell’Università non il luogo dell’accademia, ma una vera organizzazione noetica, promotrice e costruttrice di reale formazione permanente, un luogo in cui si opera sulla capacità di integrare dentro e intorno a sé i contributi offerti da una pluralità di soggetti competenti, con le loro diverse visioni, per favorire l’apprendimento continuo dei propri membri e della rete sociale di riferimento, coltivandone l’esercizio della capacità critica e stimolandone la partecipazione attiva, quale parte integrante dei suoi stessi obiettivi organizzativi. Un luogo, pertanto, che possa diventare un reale laboratorio di conoscenza, nel tempo della complessità, che sappia intercettare le questioni etiche, sociali, tecno-scientifiche emergenti, per supportare la consapevolezza e l’azione dei singoli, della società, delle istituzioni e dei contesti territoriali, mettendo in campo risposte creative, innovative, generative di nuovo valore sociale.

In futuro promuovere un approccio in cui le università abbiano una voce significativa e creare sempre più spazi di discussione, come già sperimentato attraverso i nostri quattro seminari, potrebbe essere cruciale per questo obiettivo.

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1 Il presente articolo rappresenta il prodotto di un lavoro condiviso. L’effettiva stesura dei paragrafi è avvenuta secondo le seguenti attribuzioni: Ferri ha scritto il paragrafo «Introduzione» con Bonometti e il secondo paragrafo; Bonometti il quarto paragrafo; Siano i paragrafi terzo e quinto; Ferioli il sesto; Siano e Ferioli le «Conclusioni». Il seminario è stato realizzato sotto la supervisione del Direttore del CREC Mario Picozzi e del TLC Stefano Bonometti.

2 Università degli Studi dell’Insubria di Varese e Como.

3 Università degli Studi dell’Insubria di Varese e Como.

4 Per noosfera si intende l’insieme degli ambiti e delle pratiche in cui il pensiero nella sua integralità viene elaborato e fatto circolare nella vita sociale. Il problema è che nell’epoca della supersocietà la tecnosfera tende a colonizzare sia la biosfera che la noosfera, e la razionalità rischia di ridursi alla dimensione strumentale e computazionale (Giaccardi e Magatti, 2022).

Vol. 1, Issue 1, October 2024

 

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