Vol. 1, n. 2, ottobre 2024 — pp. 5-10

EDITORIALE

Perché non possiamo ancora concederci un umanesimo digitale?

La prospettiva di un umanesimo digitale sembra allettante, potendo dare una via di uscita al dibattito contemporaneo su quale debba essere la direzione che il genere umano è chiamato a intraprendere rispetto la tecnica, la principale e più complessa delle sue produzioni culturali. E potrebbe fornire una risposta sul rapporto che dovremmo assumere rispetto a uno dei prodotti più innovativi, potenti e, recentemente, più controversi della tecnica: la tecnologia digitale.

Eppure, concesso che la nascita di un umanesimo digitale possa essere un punto di svolta nel complesso processo dell’evoluzione culturale, non ritengo che le società contemporanee siano pronte per questo eventuale passaggio. In primis, perché non abbiamo ancora messo completamente a fuoco che cosa intendiamo per umanesimo digitale. Nel confronto culturale che si è sviluppato questo tema sembrerebbe strattonato tra due estremi che provo brevemente a riassumere. Un primo, che potremmo definire come umanesimo fuori dal digitale, che tende a rappresentare la speranza di diversi osservatori dei processi culturali e sociali di disgiungere le attività dell’uomo, la sua vera essenza, la sua raison d’être, dalla tecnica. Da una parte l’uomo e dall’altra la tecnica, con questa seconda messa su un piano ontologico distante dall’umano, disgiunta: la tecnica serve l’uomo, restituisce i prodotti di cui ha bisogno — la tecnologia, ad esempio, o il digitale — ma non entra nell’umano, deve rimanere un corpo estraneo. L’evoluzione dell’uomo e lo sviluppo della tecnica procedono in parallelo, senza contaminarsi, con l’uomo che dispone della tecnica senza venirne influenzato, per lo meno nella sua essenza umana. Una prospettiva, in sintesi, che vorrebbe una tecnica neutra, al servizio dell’umanità, eppure lontano da essa, resa inerme nella sua capacità di modificare la natura umana.

Sul fronte opposto si trova la seconda prospettiva, che si distingue dalla prima, e che potrebbe in qualche modo essere definita come un umanesimo digitalizzato. I fautori di questa posizione ritengono possibile da parte dell’uomo un pieno possesso e controllo dei prodotti della tecnica. Del resto, se l’uomo è il demiurgo creatore che ha dato origine allo sviluppo tecnologico, e se ogni prodotto della tecnica, per quanto complesso e articolato, è sempre e comunque un artefatto umano, da dove dovrebbe originarsi questo «salto di specie» della tecnica che la mette fuori dal controllo dell’uomo? Tanto che si teme che la tecnica possa impossessarsi dell’uomo e non viceversa? Con un umanesimo digitalizzato si pensa di poter superare questi timori e avere un’umanità in pieno possesso e consapevole delle potenti spinte evolutive, culturali e sociali che sono oggigiorno in atto, giungendo a governarle.

Sono due posizioni interessanti, ma nessuna delle due sembra confarsi adeguatamente con l’idea, per ora tutta teorica, di un umanesimo digitale, cioè di un processo che porti l’umanità a proseguire lungo il percorso evolutivo della propria specie che è fatto di adattamenti e aggiustamenti, personali e collettivi, che agiscono in risposta agli stimoli ambientali. Stimoli che sono certamente naturali, cioè dipendenti dalla piccola porzione di universo in cui è situata la specie umana, ma che lungo il percorso evolutivo umano hanno sempre più assunto la forma di un circuito chiuso, proprio alimentato dalla tecnica: l’uomo sviluppa la tecnica, con la quale interviene sul mondo, che a sua volta viene modificato — geograficamente, culturalmente, socialmente, ecc. — e che in questa evoluzione restituisce all’uomo nuove spinte evolutive che lo indurranno a adattarsi. Con l’atto di adattamento verrà sviluppata ulteriore tecnica che continuerà ad alimentare il processo di co-azione. Nel tempo, l’uomo è dunque diventato egli stesso il principale fattore evolutivo della sua specie, agendo molto più potentemente rispetto alla natura.

Ed è proprio lungo il limitare di questi ragionamenti che ancora non ravvedo la possibilità di poter imboccare la via di un umanesimo digitale, che per ora rimane solo concettualizzata e, in parte, male interpretata dalle due posizioni che ho grossolanamente presentato. Dall’avvento del digitale disponibile su larga scala sono passati pochi decenni. Anche se le applicazioni tecniche sono già state numerose, siamo davvero agli albori dello sviluppo di questa tecnica. Dal primo video caricato sulla piattaforma YouTube (2005), alle possibilità che offre l’intelligenza artificiale generativa non sono ancora passati due decenni. Ma in questo breve volgere di tempo, più breve di una generazione, l’uomo è stato completamente inserito nel digitale. Ogni aspetto della vita, che sia la comunicazione o la relazione con l’altro, o anche il lavoro e il tempo libero, sono stati proiettati in questa nuova dimensione esistenziale. La vita si è fatta digitale, soprattutto per quelle generazioni che, nate orientativamente dal 2010 in poi, vivono e agiscono dentro un mondo completamente digitalizzato.

Ma se la vita degli individui si è digitalizzata, se ha fatto proprio l’utilizzo del digitale per i propri scopi, lo stesso non può dirsi della sua umanità. Nei tratti caratteristici che riconosciamo all’uomo come specie, nel suo essere un animale sociale, nella sua sfera emotiva, sentimentale, relazionale, anche se è possibile notare delle tracce evidenti dell’influenza della tecnica digitale, non sembra essersi ancora compiuto un passaggio evolutivo definitivo. Di questo passaggio sembrano essere fautori le nuove generazioni, come è nell’ordine naturale delle cose. In esse sono presenti i tratti di una umanità che abbraccia il cambiamento, che lo coglie, che è pronta a vivere ed entrare in una iper-realtà, in cui il tangibile, il concreto, l’analogico convivono e si espandono con il digitale. Un’umanità che non si spoglia di sé stessa, che continua a provare sentimenti, che non perde il gusto della relazione, che è in grado di percepire, qualora esista realmente e qualunque esso sia, il senso della vita, ma che lo fa cogliendo le opportunità evolutive che giungono dalle tecnologie digitali. In questo loro cammino, però, le nuove generazioni sono frenate, finanche osteggiate, dall’atteggiamento delle generazioni «precedenti», di chi vede nello sviluppo della tecnica una minaccia per l’umanità stessa. Tra i principali contestatori ci sono propri i componenti dell’umanesimo fuori dal digitale. Allarmati dalle contraddizioni, dai pericoli e dalle minacce che sembrano giungere dalla tecnologia digitale, si fanno promotori di processi di allontanamento da essa. Giungono ad attribuire alla tecnologia digitale l’origine di molte delle forme di disagio che sembrano mettere in crisi il senso dell’umanità stessa.

In queste preoccupazioni c’è del vero. Evidentemente, e la scienza ce lo dimostra quotidianamente, un certo tipo di utilizzo, alcune modalità di accesso alla tecnologia digitale, le forme di abuso e le distorsioni che si evidenziano nel mondo digitale devono far riflettere sui pericoli e sul costo di questa evoluzione della tecnica. Ma arrivare ad auspicare un disgiungimento da essa appare immotivato, specialmente per le nuove generazioni, che vedono nel digitale una parte, e anche sostanziale, della loro stessa esistenza. È qui che si marca, su queste posizioni, la distanza più evidente dall’auspicato umanesimo digitale: non abbiamo ancora completamente assunto un rapporto chiaro con la tecnica digitale. La desideriamo, la sviluppiamo e la utilizziamo perché vogliamo evolvere, migliorare le nostre vite, ma al contempo la osteggiamo, perché ci spaventano gli effetti che può determinare sulla nostra stessa umanità. Ma l’auspicata, da alcuni, disgiunzione non è possibile, ed è controproducente: le nuove generazioni — e quelle che arriveranno — sono andate già oltre, sono proiettate nell’iper-realtà. Meglio, dunque, agire per contrastare e limitare le minacce e gli abusi, così da rendere la tecnologia digitale a misura d’uomo.

Il ragionamento sembrerebbe volgere in favore del modello di umanesimo digitalizzato. Prendiamo il meglio che la tecnologia digitale ci offre, ma rimaniamo umani, rimaniamo noi stessi, agiamo su di essa per umanizzarla. Un ragionamento interessante che vuole riportare la tecnica nel pieno controllo dell’uomo, e non viceversa. Ma è nella seconda parte di questa prospettiva che il ragionamento vacilla. L’evoluzione della tecnica digitale deve essere agganciata a un’evoluzione culturale e sociale. Deve potersi realizzare un cambiamento nell’ontologia stessa dell’essere umano, come del resto è avvenuto lungo le tappe principali dell’evoluzione umana. Non mi addentro in riflessioni che esulano dal mio campo di pertinenza e di indagine, ma a rivedere le tappe principali dell’evoluzione umana si nota, in maniera abbastanza evidente, come sia sta accompagnata da un cambiamento dell’ontologia dell’uomo, del suo stesso essere, della sua natura. I cambiamenti che hanno segnato il passaggio, ad esempio, dal nomadismo alla vita stanziale, o da una vita principalmente rurale e quella industriale e legata ai servizi, non hanno rappresentato solo un cambiamento nel modo di vivere degli esseri umani, ma più propriamente sono andati ad agire sulla sua natura, cambiandola per sempre. I modi di comunicare, di relazionarsi, di provare sentimenti, ecc. sono profondamente cambiati nel momento in cui abbiamo abbandonato la vita nomade: e lo hanno fatto per sempre. L’uomo nomade, con le sue prerogative, ha lasciato il passo a una nuova forma di umanità. Un cambiamento ontologico, appunto, che segna inevitabilmente un cambiamento nella natura stessa della specie umana. Questo è il secondo elemento che ancora manca nella riflessione dell’umanesimo digitalizzato e che ci pone ancora lontano da un reale umanesimo digitale: solo quando accetteremo che è in atto un cambiamento della nostra stessa umanità, solo quando accetteremo questo cambiamento come parte della nostra storia evolutiva come specie, e solo quando saremo in grado di comprenderlo, di governarlo e di gestirlo — non in maniera contenitiva, ma evolutiva — allora potremmo considerarci realmente in cammino verso un umanesimo digitale.

Simone Digennaro

Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale

 

Indietro