© Edizioni Centro Studi Erickson, Trento, 2024 — Corpo, Società, Educazione

Vol. 1, n. 0, Marzo 2024

Tracce di storiografia del corpo ad uso delle scienze sociali

Sergio Raimondo1

Sommario

Se in passato la riflessione intellettuale evitava la questione del corpo, oggi essa è al centro di molte discipline, segnando un significativo cambio di prospettiva. Il presente articolo propone un’analisi interdisciplinare dell’evoluzione concettuale del corpo umano attraverso l’indagine di autori chiave come Bachtin, Elias, Foucault e Bourdieu, e la trasformazione del corpo da entità naturale a costrutto sociale. Particolare enfasi è posta sul corpo femminile, esplorando cambiamenti nelle rappresentazioni storiche e il contesto della lotta per i diritti delle donne. La prospettiva interdisciplinare ha integrato fonti iconografiche ed elementi antropologici, evidenziando differenze di genere come costrutti sociali. La medicalizzazione del corpo femminile ha portato a una prospettiva biopolitica, con lo Stato che interviene attraverso leggi specifiche. Studi sulla lotta delle donne per i diritti e sulla protezione legale hanno evidenziato tappe di liberazione, ma anche sfide persistenti. Per concludere la ricerca in questo campo richiede una logica fuzzy, apprezzando il conflitto e il mutamento, e estendendo le capacità euristiche, specialmente considerando la complessità del concetto di corpo.

Parole chiave

Corpo, corpo femminile, storia, Foucault.

Traces of Body Historiography for the Social Sciences

Sergio Raimondo2

Abstract

In the past, intellectual reflection avoided the question of the body. Today, however, the body is at the centre of many disciplines, marking a significant shift in perspective. This article proposes an interdisciplinary analysis of the conceptual evolution of the human body, examining key authors such as Bakhtin, Elias, Foucault and Bourdieu, and transforming the body from a natural entity to a social construct. A particular emphasis is placed on the female body, exploring the changes in historical representations and the context of the struggle for women’s rights. The interdisciplinary perspective integrates iconographic sources and anthropological elements, highlighting gender differences as social constructs. The medicalisation of the female body has led to a biopolitical perspective, with the state intervening through specific legislation. Studies of women’s struggles for rights and legal protection have highlighted stages of liberation, but also persistent challenges. In conclusion, research in this area requires fuzzy logic, an appreciation of conflict and change, and an expansion of heuristic capacities, especially given the complexity of the concept of the body.

Keywords

Body, female body, history, Foucault.

Introduzione

Il corpo degli animali appare subito nella perfezione del suo specialismo, mentre quello umano si presenta come un compendio di possibilità, un’approssimazione a cui è necessario applicare una volontà, razionale o visionaria che sia, capace di estrarne una capacità precisa.

Anziché impantanare gli studiosi nell’interminabile diatriba tra natura e cultura, questo presupposto avrebbe dovuto stimolare sin dalle origini le scienze sociali a un lavoro di ricerca addirittura febbrile sulle infinite manifestazioni semantiche con cui i corpi degli uomini hanno tentato e tentano di dotarsi di facoltà specifiche. È vero invece che la questione del corpo ha brillato per la sua rimozione, operata fino a tempi recenti nel complesso della riflessione intellettuale. Oggi, tuttavia, la situazione appare rovesciata, al punto che tale questione è divenuta sempre più importante in molte discipline, dalla filosofia agli studi cognitivi, dalla semiotica alla psicologia, dall’antropologia alla sociologia.

Né potrebbe essere altrimenti se la costante evoluzione tecnologica sta conducendo a rendere le basi naturali dell’esistenza degli esseri viventi sul pianeta non più un principio inalterabile ma un risultato continuamente modificato dalla cultura umana. Già quasi venti anni fa, infatti, Aldo Schiavone inquadrò queste questioni in un saggio dal titolo programmatico dove scrisse: «Le basi naturali della nostra esistenza smetteranno presto di essere un presupposto immodificabile dell’agire umano, e diventeranno un risultato storicamente determinato della nostra cultura. Questo ricongiungimento — il passaggio nel controllo evolutivo della specie dalla natura alla mente — non è lontano: il suo annuncio è già nelle cronache quotidiane» (Schiavone, 2007). Schiavone considerava questo passaggio come rivelazione del destino della nostra storia in quanto risultato della costante crescita tecnologica esperita dal genere umano come sua più intrinseca vocazione. Un indirizzo che peraltro conduce alla frantumazione delle concezioni dominanti nella cultura occidentale della contrapposizione tra vincoli del corpo e libertà della mente veicolate almeno sin dal cristianesimo medievale con san Paolo fino a Cartesio e Spinoza ma già presente in Eraclito e Platone.

Le origini concettuali della storia del corpo

Questi temi non hanno trovato immediato riscontro nella storiografia ma la storia del corpo era stato indicato come genere innovativo di indagine già nel 1989, quando — in un volume sui nuovi metodi storiografici curato da Peter Burke tradotto in italiano nel 1993 (Burke, 1993) — compariva anche un saggio di Roy Porter, il quale suggeriva la necessità di sviluppare questo indirizzo di ricerca stringendo il rapporto tra storia biologica del corpo e le ben più vaste implicazioni culturali a essa connesse. Sarebbero comunque trascorsi altri quindici anni prima che lo stesso Burke descrivesse la storia del corpo come un settore «in piena fioritura, ma che una generazione fa — negli anni Settanta, diciamo — sarebbe apparso a mala pena concepibile». Intanto si era assistito a questo sviluppo anche nel nostro paese, sebbene in misura ridotta, come osservato nel 2000 da Claudia Pancino la quale riteneva la storia del corpo «una locuzione un po’ alla moda, in Italia forse meno che altrove» (Burker, 1993).

Burke incasellava la storia del corpo tra i filoni della cosiddetta nuova storia culturale, cosiddetta perché aderente a un «nuovo» paradigma nel senso formulato da Thomas Khun in merito alla struttura delle rivoluzioni scientifiche, intese come passaggio da un paradigma dominante a un altro (Kuhn, 1969). Com’è noto, la nozione di «paradigma dominante» indica in Khun il consolidamento di una tradizione di ricerca ottenuto con la chiara definizione di problemi e metodi a seguito della comparsa di grandi opere di riferimento. Ciò permette lo sviluppo di un progresso scientifico e lineare su tracciati considerati normali entro i quali avviene l’approfondimento e l’ampliamento del paradigma consolidato — senza tuttavia la ricerca di novità fondamentali — finché si produce un’anomalia capace di mettere in crisi l’ingranaggio. L’innovazione emerge dunque non perché uno o più ricercatori intravedono cose nuove ma perché sperimentano cose diverse, il che rende incommensurabile il nuovo paradigma con quello soppiantato. Di conseguenza, l’adesione al nuovo indirizzo non è detto che garantisca una migliore conoscenza della realtà per esprimere invece un modello su cui progettare nuovi percorsi di ricerca normali. Burke completava la spiegazione della formula «nuova storia culturale» precisando anche il significato dell’aggettivo culturale, che indica il netto orientamento verso lo studio delle mentalità, delle convinzioni, dei sentimenti, dei simboli e delle rappresentazioni, piuttosto che verso le idee e i sistemi di pensiero di cui si interessa invece la cosiddetta storia intellettuale. Una distinzione che rimanda a quella più classica tra ragione e senso, rappresentati in questo caso dalla storia intellettuale e dalla storia culturale, corrispondenti, rispettivamente, a quei metodi e materie di studio più seri e precisi di contro a quelli più disordinati ma con più immaginazione.

Seguendo le suggestioni di Burke si può assumere che le elaborazioni della nuova storia culturale si siano riferite in primo luogo alle teorie di quattro autori, Bachtin, Elias, Foucault e Bordieu, il pensiero dei quali risulta indispensabile anche per lo specifico della storia del corpo (Burke, 1993).

Il critico letterario russo Michail Michajlovič Bachtin è stato valorizzato dalla storiografia internazionale a partire dalla seconda metà anni Sessanta, quando fu pubblicata in inglese la sua opera principale subito dopo la sua edizione in patria, dove era stata censurata per oltre venti anni3. Bachtin svelò l’influenza della cultura popolare sulla cultura letteraria di elite, sostituendo alla nozione di mentalità — applicata dallo storico francese Lucien Febvre all’opera di Rabelais — quella di cultura. Utilizzando l’opera d’arte come una fonte per le scienze sociali, il russo mostrava come ogni società storicamente determinata sia caratterizzata da una pluralità di linguaggi (culture) espressi dai ceti e dalle classi che compongono l’insieme sociale, di contro alla nozione di mentalità, più indistinta perché carente di riferimenti alle stratificazioni sociali. Bachtin notava come il rovesciamento dei consueti ruoli sociali manifestato nel Carnevale avvenisse con l’esibizione di corpi grotteschi, sovrabbondanti, che comunicavano un’espansione della libido primaria, uno strato materiale corporeo di livello socialmente inferiore, in opposizione all’armonia delle proporzioni ricercata nella classicità ostentata da caste e ceti dominanti. Queste suggestioni potrebbero fungere da base per una specifica ricerca sociologica che verifichi se l’adesione dell’immaginario contemporaneo a modelli corporei dotati di una perfezione tutta esteriore e apparente possa rappresentare una forma di repressione massificata dell’istintualità popolare e del suo potenziale eversivo.

Anche il lavoro del sociologo Norbert Elias — tedesco di adozione ma polacco di nascita — risale alla fine degli anni Trenta. Tuttavia, come già per Bachtin, la sua influenza raggiunse vari ambiti di ricerca solo dagli ultimi anni Sessanta a causa sia delle repressioni politico-ideologiche subite in patria sia dello scoppio della guerra mondiale. Il suo lavoro ispirò allora l’antropologia storica, la storia della cultura, dell’arte e anche della scienza. La sua storia della civilizzazione — o arte del vivere quotidiano — trovò il terreno di analisi prediletto nell’elevazione della soglia del pudore e della ripugnanza durante i secoli XVII e XVIII. La conseguente accentuazione dell’autocontrollo cosciente e delle relative inibizioni indusse particolari configurazioni delle relazioni interpersonali che, anche perché in continuo mutamento, rappresentano un fertile stimolo per la storia del corpo.

Nella straordinaria ricchezza di pensiero di Michel Foucault sono invece le posizioni anticartesiane a costituire gli strumenti più utilizzati nella storiografia sul corpo. La negazione della centralità del soggetto razionale e autocosciente come presupposto del sapere scientifico, così come delle vicende storico-sociali, ridefinisce il soggetto in quanto risultato di un processo storico dipanato nel tempo che necessita di un lavoro di scavo, tanto che il filosofo francese parlava di archeologia del sapere (1971). In questa prospettiva, sono l’esperienza del corpo e la sua percezione a delineare l’identità sessuale che quindi non può essere interpretata come un dato anatomico e fisiologico, mentre invece ciò accade seguendo l’ottica cartesiana che finisce per trascinare verso una concezione medica del corpo (1996). Una formula, questa della medicalizzazione del corpo, destinata a un successo ancora ben vivo ma che è stata recepita innanzitutto nella storiografia sul corpo delle donne, su cui ci si soffermerà tra breve.

Foucault, inoltre, ha insegnato a differenziare, all’interno della generica sfera del potere, la dimensione simbolica e discorsiva dall’ambito normativo facendo specifico riferimento alla crucialità del corpo come fondamento delle strutture culturali. Un nucleo da cui originano ordini discorsivi essenziali che si intessono con apparati simbolici facendo scaturire prescrizioni e modelli. Da questo processo nasce la nozione di biopotere che riassume diverse dinamiche conflittuali combattute nei secoli — anche oggi — sull’immagine, l’idea, le liturgie sociali del corpo con vicende oggetto di indagine storica spaziata dal piano dei rituali a quello della scienza a quello dei diritti.

A opporsi alla separazione cartesiana tra corpo e mente è stato anche il sociologo Pierre Bourdieu. Riguardo alla storia del corpo risulta di particolare interesse il concetto di habitus, già usato nelle scienze sociali da Elias nel significato di abitudine psicologica, ma che Bourdieu aveva mutuato piuttosto dalla storia dell’arte nel significato di assunzione, da parte di un soggetto o di un gruppo, di pratiche sociali codificate come disposizioni durature. È opportuno precisare che Bourdieu (1987) era consapevole che questo concetto trae origine nella versione latina di Aristotele che lo usava nel significato di «stile del corpo», risultante dalla misura dei gesti, dall’andatura, dalla postura, come era ben presente agli scrittori rinascimentale. A partire dal concetto di habitus, Bourdieu affida allora al ruolo dello scienziato sociale l’analisi delle diverse forme con cui si impiantano le ideologie, i criteri del gusto, gli stili di vita, le rappresentazioni «autorevoli» della realtà e le istituzioni sociali. Tutto ciò che, insomma, anticipa l’azione del soggetto o del gruppo, un approccio all’indagine sociale apparso subito adatto anche per la storia del corpo.

Il corpo femminile

L’influenza del pensiero di Foucault si è materializzata innanzitutto nella storiografia, compressa in quella italiana, soprattutto per quanto concerne la storia delle donne. Si può forse datare l’esordio della nuova tendenza al 1984 quando, proprio una studiosa italiana, Gianna Pomata (1984), rimetteva in discussione la «naturalità» di alcune esperienze tipiche della vita femminile: mestruazioni, maternità, parto, allattamento, menopausa. Pomata argomentava che l’esclusione delle donne sino ad allora riscontrabile nella rappresentazione storica fosse stata causata dall’osservazione di dette esperienze corporee femminili in quanto fenomeni immutabili, oggetto di studio, pertanto, delle scienze ritenute esatte — in primis biologia e medicina — invece che della ricerca storica, imperniata sulla comprensione e spiegazione dei mutamenti avvenuti nel passato.

Da queste osservazioni metodologiche discende che la dimensione di costrutto sociale del corpo, anche di quello femminile, risulta svelata non solo dalle suggestioni teoriche di Foucault ma proprio dalla constatazione della mutevolezza delle esperienze tipicamente femminili già ricordate. La loro variabilità appare fortemente accelerata nell’età industriale avanzata, come dimostrano in particolare alcuni esempi: radicale miglioramento delle condizioni igieniche del parto e sua trasformazione da evento aggregativo per eccellenza delle donne ad avvenimento condiviso con il padre del nascituro; miglioramento dell’alimentazione e delle possibilità di riposo con riduzione dello sfibramento fisico dovuto all’allattamento; sistemi contraccettivi e controllo delle nascite diffusi in tutti i ceti, a fronte di una media di sei figli per ogni donna del popolo nell’Europa dell’età moderna; anticipo dell’età del menarca e posticipo di quella della menopausa soprattutto visibile negli ultimi decenni.

Come ancora sottolineava Pomata, questo disvelamento ha permesso alla storiografia di mutuare con più coscienza dall’antropologia un suo tema di studio classico, la valenza simbolica del corpo femminile, delineata comunque focalizzandone la specificità rispetto a quello maschile. È dunque emerso che la nota distintiva caratteristica va individuata non nell’immutabilità delle peculiari esperienze femminili ricordate, ma nel cambiamento ciclico che il corpo delle donne sperimenta con le mestruazioni, mentre entrambi i corpi, maschile e femminile, mutano irreversibilmente con l’invecchiamento. Con questa impostazione, le differenze tra donne e uomini non sono ridotte alle loro caratteristiche anatomiche, mentre, allo stesso tempo, il corpo è valorizzato come oggetto di studio privilegiato per riflettere sui rapporti tra corpo e identità sessuale, ossia, sulla scorta di Foucault, tra corpi, cultura e storia.

In questa prospettiva assumono grande importanza le fonti che forniscono un’immagine, una rappresentazione del corpo, sia femminile che maschile. I documenti possono essere iconografici ma con il limite che, soprattutto se la ricerca indaga i secoli passati, questi si riferiscono principalmente alle élite sociali, riproponendo spesso ideali di corpi armonici e proporzionati. Pertanto, seguendo Bacthin, se si intende studiare i corpi dei popolani è necessario usare altre fonti, processi giudiziari, relazioni sanitarie, filastrocche, dizionari, registri delle visite di leva, ecc.

Inoltre, se il corpo non è più riducibile al suo dato anatomico-fisiologico, la sua storia è diventata quella dei rapporti tra sessi con la valorizzazione del simbolismo corporeo e sessuale. Ciò ha reso la storiografia del corpo uno snodo interdisciplinare dove possono convergere i più disparati temi di ricerca storica, ma anche demografia, sessuologia, antropologia, giurisprudenza, ecc.

Un esempio sia di questa convergenza disciplinare che dell’uso di fonti molteplici è un’opera pubblicata nel 1984 dallo storico canadese Edward Shorter(1984). La sua tesi centrale ruota attorno all’idea che durante l’età preindustriale le donne europee hanno subito una diffusa esclusione dalla vita pubblica in conseguenza della loro vulnerabilità fisica, dovuta tuttavia a motivi molto ben circostanziati e non a una loro presunta predisposizione fisiologica. Gravidanze indesiderate, igiene inesistente con conseguente frequenza di malattie a carico dell’apparato riproduttivo, vita familiare logorante, sono solo alcune delle cause che rendevano cagionevole la salute delle donne europee in età moderna, specialmente se appartenenti ai ceti popolari. Shorter ha così sostenuto che il femminismo novecentesco si è potuto sviluppare anche grazie al rinvigorimento fisico delle donne, oltre che in ragione di fattori sociali quali il trionfo della moralità borghese che ridusse la brutalità maschile,4 l’inserimento delle donne nel mercato del lavoro, il miglioramento dell’istruzione che sembra peraltro essere inversamente proporzionale all’incremento della maternità.5

Tanto nel lavoro di Shorter che in altre opere successive ricorre l’attribuzione dell’origine della brutalità sessuale maschile alla paura del corpo femminile. Un tema che è stato declinato per varie epoche storiche osservando la percezione che esse hanno avuto del corpo femminile stesso. È stato così possibile documentare gli approcci culturali che hanno consentito di perpetuare nel corso dei secoli la sproporzione dei ruoli sessuali. Lo storico canadese ricordava come la donna sia stata considerata una fornace di carnalità già nel V secolo da sant’Agostino, una convinzione ripresa in termini molto netti dal pensiero cristiano dominante in età medievale e nelle epoche successive. Ancora prima, nel II secolo, il medico Galeno era convinto che la procreazione fosse associata all’orgasmo femminile, una persuasione che trasse ulteriore consolidamento nella letteratura medica dell’età della Controriforma. Va comunque precisato che, se già Aristotele riteneva la donna una riproduzione imperfetta dell’uomo nella quale albergava la passività (Sissa, 1990), se tutta la logica scolastica medievale avrebbe ripreso questa impostazione intendendo il maschile in positivo e il femminile come privazione, se Galeno e tutta la letteratura medica fino al XVII secolo descriveva l’apparato genitale femminile come la copia rovesciata all’interno di quello maschile proiettato all’esterno, è stata però proprio l’affermazione di una certa morale cristiana nel I secolo a gettare le basi per una malcelata avversione nei confronti del corpo in generale. Nel 1988 fu lo storico irlandese Peter Brown, attento lettore di Foucault in tema di storia della sessualità, a collegare la repulsione cristiana per il corpo all’introduzione dell’astinenza sessuale operata da San Paolo a Corinto per impedire i matrimoni tra pagani e credenti, una pratica che perpetuava l’ordine sociale vigente in età greco-romana permettendo la riproduzione demografica (Brown, 1988).

Ma non si esaurì certo in età contemporanea la considerazione della donna come essere irrazionale perché incapace di esercitare un controllo consapevole su mente e corpo, di contro alle capacità morali e di autocontrollo dell’uomo, destinato per questo al dominio a patto di non cadere preda delle pulsioni sessuali femminili che lo avrebbero certo condotto alla perdizione. Anzi, il parallelo sviluppo di psicologia e biologia, tra XIX e XX secolo, consolidò l’idea dello stretto rapporto tra psiche e organi riproduttivi femminili. Non è un caso se — poco dopo il saggio di Pomata del 1984 che aveva aperto la strada a questo tipo di critica — nell’ambito della nuova storia delle donne si espresse un veemente attacco contro la biologia così come concepita dall’inizio del Novecento, perché incapace di riconoscere il corpo, sia femminile che maschile, come categoria socioculturale piuttosto che come «faccenda anatomica» (Filippini, Plebani e Scattigno, 2002). Le autrici affermavano che: «Ciò che veramente importa nell’ambito della storia delle donne e di genere è riconoscere il fatto che la “biologia” stessa è una categoria socioculturale. Occorre sotterrarla e rinunciare al suo apparato concettuale, vale a dire evitare di caratterizzare o percepire come “biologia”) — ad esempio — il corpo femminile, la sessualità e i suoi organi, la procreazione o la maternità».

In Italia, l’approccio multiforme alla storia del corpo fu ben sviluppato in un volume collettaneo del 2002 sui rapporti tra sessi dall’antichità all’età contemporanea(Filippini, Plebani e Scattigno, 2002). Le sezioni del volume, Diritto, Scienza, Rituali, Rappresentazioni confermavano come la storia del corpo e del corpo nella storia fosse diventata uno snodo interdisciplinare. Tra esse, la sezione più compatta appare comunque la prima, dove il tema dei diritti delle donne è declinato attorno all’asse della lotta delle donne per affermare i propri diritti, con riferimenti concreti a tempi e a luoghi diversi. Fornisce coerenza alla sezione il saggio introduttivo di Michelle Perrot ma anche quello di Marina Graziosi si presta a un uso trasversale trattando delle origini giuridiche dell’inferiorità femminile(Filippini, Plebani e Scattigno, 2002).

La studiosa francese partiva dal presupposto che la «definizione della donna come persona autonoma, come individuo libero, passa attraverso la libera disponibilità del proprio corpo e, in particolare, attraverso la libertà di contraccezione che scardina il matrimonio, la famiglia e lo Stato» (Filippini, Plebani e Scattigno, 2002). Perrot ripercorreva quindi le tappe della conquista di questa libertà, articolate in tre stadi storici e sociali, pur se con grandi differenze tra aree geografiche, definendo il primo come «corpo dominato ed espropriato» nella famiglia, nello Stato e dal diritto, il secondo come «corpo protetto» dalla giustizia in generale e dalle garanzie nel mondo del lavoro in particolare, il terzo come «corpo liberato». Riguardo al secondo stadio, Perrot aggiungeva però che la protezione legale tende ad arrestarsi sul confine del privato, con lo stupro che resta spesso impunito. In merito al terzo stadio, precisava infine come l’aggettivo «liberato» vada inteso in forma interrogativa poiché, a fronte dei notevoli miglioramenti normativi seppur tardivi e incompleti, le donne hanno tuttavia trovato «altri padroni, anche se più comprensivi: i medici, diventati i loro principali interlocutori». Una medicalizzazione del corpo delle donne che introduce nuove implicazioni nella percezione di sé e dell’altro nella coppia e nel rapporto con il figlio.

Ancor prima di questa considerazione, Barbara Duden (1994) aveva concentrato i suoi studi sulla storia del corpo delle donne per sapere «come la donna avesse scoperto quel corpo che ho io, che io vivo come mio, che a me pare naturale e scontato». In altri termini, per «capire che cosa in altri tempi veniva percepito come cuore, ventre o polpaccio, come gioia, desiderio, dolore o nostalgia nella carne delle donne». La storica tedesca ha condiviso infatti con Foucault quel tipo di curiosità per la ricerca storica che conduce a occuparsi del passato non tanto per superarlo ma per individuarne la «distanza dalle proprie nozioni precostituite», così da comprendere altre possibilità di percezione e pensiero rispetto a quelle concretizzatesi. Per questa via, partendo dall’uso indovinato di un nutrito novero di documenti del Settecento, ha stigmatizzato il processo di medicalizzazione di gravidanza e parto, iniziato nel secolo successivo ma esacerbato molto più di recente. Infatti, all’incirca dai primi anni Settanta del XX secolo, le nuove tecnologie mediche hanno indotto una visibilità dell’interno di un corpo gravido impensabile fino ad allora. Duden argomenta che questo spostamento dalla percezione tattile a quella visiva della gravidanza ha proiettato sullo scenario pubblico questa esperienza tipicamente femminile, di contro alla totale intimità con cui era vissuta quando rimaneva avvertita soltanto nel grembo della donna interessata. Da qui — insieme al dilagare della genetica, tema al quale ella stessa ha dedicato un lavoro specifico — discende la concezione attualmente dominante che considera la gravidanza soltanto in funzione del feto, al punto che una donna incinta è divenuta un «ambiente uterino per l’approvvigionamento di un normofeto», facendo così perdere alla donna il proprio corpo per farle assumere sempre più il ruolo di «cliente bisognosa non solo di assistenza ma anche di consulenza». Il che, viene da aggiungere, quasi costringe lo Stato a intervenire su questo terreno con leggi apposite; dunque, a rinforzare un’attitudine che con Foucault possiamo definire biopolitica.

Dopo il suo saggio seminale del 1984, anche Pomata avrebbe ancora affrontato il tema del rapporto tra scienza e corpo delle donne, questa volta suscitando notevoli implicazioni metodologiche estendibili all’insieme delle scienze sociali. L’autrice rilevava l’incongruenza con le fonti e con le acquisizioni della storia della scienza tradizionale provocata dall’affermazione, ribadita da vari autori (Merchant, 1988; Schiebinger, 1991), secondo cui la Rivoluzione scientifica non avrebbe intaccato il dogma della superiorità maschile, lasciando inoltre immutate le concezioni sino ad allora dominanti circa la differenza sessuale. L’analisi di Pomata mostrava invece che, sebbene l’assioma della superiorità maschile avrebbe resistito ancora per secoli, esso stesso era stato intaccato durante il XVII secolo — ma già nel tardo Rinascimento — da quel complesso di pratiche di ricerca comprese nella definizione di Rivoluzione scientifica. Ciò era avvenuto in primo luogo grazie alla riconcettualizzazione dei «testicoli femminili» in quanto ovaie e all’osservazione di «animalcoli» nel seme. Nel primo caso veniva contrastata la millenaria tradizione medico-filosofica risalente, come si è ricordato, ad Aristotele e Galeno perché la teorizzazione delle ovaie ne comportava l’attribuzione di «natura e funzioni specifiche, senza un corrispettivo nel maschio». La seconda innovazione scardinava la tradizione scolastica anche più in profondità «perché implicava abbandonare un presupposto fondamentale: la credenza nella natura esclusivamente spirituale del contributo maschile alla generazione […] comune, nel Cinquecento e ancora nel Seicento, tanto a tradizionalisti aristotelici che a innovatori paracelsiani».

Pomata sottolineava inoltre che nello stesso periodo storia naturale e medicina procedevano insieme cosicché la nuova positiva percezione del corpo femminile accompagnò il nuovo interesse dei naturalisti per la differenza sessuale. «Potremmo dire», osservava acutamente l’autrice «che per i naturalisti europei della prima età moderna la differenza sessuale, un tempo concettualizzata dalla scolastica aristotelica come aspetto accidentale della natura, divenne un tratto essenziale del mondo naturale e un campo fondamentale di indagine» (Kosko, 1995). Il nuovo approccio condusse così alla riclassificazione dell’essere umano come mammifero operata da Linneo, il quale attribuì perciò il carattere paradigmatico della specie al corpo femminile, non più a quello maschile.

Ma l’aspetto forse più interessante per la ricerca sociale racchiuso in questo saggio sta nella constatazione che tutte le innovazioni registrate all’epoca della Rivoluzione scientifica furono rese possibili dalla radicale ridefinizione delle priorità di ricerca, le quali si spostarono dal solito all’insolito, dalla regolarità ai fenomeni bizzarri e inspiegati. Un atteggiamento che avrebbe reso felice Bachtin ma che non si può certo limitare alla critica letteraria e artistica essendo riscontrabile oggi con tanta più maturità rispetto al passato nelle tendenze affermate in molti campi del sapere. Sempre più si affaccia, infatti, la coscienza di come, tanto nella natura che nella società, stabilità e regolarità siano il risultato di un continuo dinamismo, caratterizzato da fluttuazioni incessanti, multiple e interdipendenti. Nuove forme di autorganizzazione — dalle particelle subatomiche alle cellule viventi, dal volo degli storni nel cielo di Roma ai sistemi economici e sociali — emergono dai bordi del caos, mostrando che le proprietà dei sistemi complessi sono differenti da quelle dei loro costituenti individuali. Non linearità, adattatività, semplicità e predicibilità a un certo livello del sistema, disordine e imprevedibilità a un altro livello, sempre più l’osservazione scientifica riscontra come l’ordine avvenga per fluttuazione. Per studiarlo è allora necessario porre attenzione alla probabilità e al paradosso, come già avviene nelle scienze ambientali così come in biologia con la teoria degli equilibri puntuati e in chimica con quella delle strutture dissipative, oltre che in quelle già più classiche della fisica quanto-probabilistica e altresì nelle più sottili elaborazioni della logicae della psicologia (Watzlawick, Beavin e Jackson), fino alle teorie del caos. Ma pure nella teoria sociologica, se Immanuel Wallerstein (1995) ha sostenuto che la strategia delle scienze sociali deve smettere di essere improntata alla ricerca di leggi universali (Abbott, 2007). Strutture e movimenti sociali, infatti, al pari di quanto avviene in natura sono irriducibili a una supposta semplicità che la scienza avrebbe come compito principale, se non unico, di svelare.

In conclusione, dalla recente storiografia sul corpo femminile analizzata in questa breve e sicuramente incompleta rassegna emerge una già ben consistente messe di argomenti, che si possono sintetizzare articolandoli come opposizioni: corpo come costrutto sociale versus approccio biomedico; lotta per i diritti e per la libertà del corpo delle donne versus morale cristiana e inferiorità della donna; rapporti tra sessi e studi di genere versus concezione anatomica della differenza. Sul piano del metodo, questa stessa storiografia suggerisce, infine, che l’interdisciplinarietà e l’attenzione a fonti capaci di restituire immagini sono fattori metodologici irrinunciabili per affrontare la storia del corpo.

Conclusioni

Nella definizione di salute adottata ufficialmente dall’Organizzazione Mondiale di Sanità nel 1986 con la Carta di Ottawa si legge che «Per Promozione della Salute si intende il processo che consente alla gente di esercitare un maggiore controllo sulla propria salute e di migliorarla… La salute è dunque un concetto positivo che insiste sulle risorse sociali e personali oltre che sulle capacità fisiche». Rispetto al modello precedente che ha abituato la popolazione a considerare la salute soltanto come assenza di malattia, cioè a una condizione riferita a fattori fondamentalmente biologici da affidare perciò passivamente alle cure mediche, l’OMS promuove invece una concezione dinamica, processuale, attiva e consapevole. È un approdo a un modello complesso di causazione delle malattie, che, accanto ai classici fattori biologici, mette in conto fattori ambientali, psicologici, sociali, con la conseguenza che salute e malattia diventano concetti relativi, dipendenti dal contesto culturale e ideologico. Sono, in altri termini, dei costrutti sociali determinati da fattori diversi e convergenti, un processo dove il corpo gioca un ruolo determinante.

In questa prospettiva, il corpo diviene il terreno principale dell’incontro tra azione pubblica e sfera intima della vita, sebbene — raccogliendo ancora una volta le suggestioni di Foucault (2009) — è opportuno che la ricerca abbandoni l’idea di corpo individuale per osservare invece «un nuovo corpo, un corpo molteplice, un corpo con una quantità, seppur non infinita, comunque innumerevole di teste». È questo l’ambito in cui si verifica una condotta del potere enunciabile con la locuzione biopolitica, diverso da quello della cosiddetta post-politica. Mentre questa aspira ad abbandonare i vecchi conflitti ideologici per dedicarsi alla gestione competente dell’amministrazione, la biopolitica si concentra invece — spesso facendo leva su paure tutte proprie dell’attuale società di transizione (Zizek, 2007) — sull’obiettivo di regolamentare la sicurezza e il benessere della popolazione, prendendo in carico la gestione del vivente, dei processi biologici della specie umana.

Ma la ricerca sbaglierebbe a limitare la sua ottica solo all’osservazione dei corpi soggiogati dal biopotere. Se, infatti, la storiografia è giunta a ritenere il disciplinamento «non come momento di consolidamento di un sistema […] ma come processo di composizione di conflitti continui e di apertura continua di nuovi conflitti» (Prodi, 1994), è possibile che anche la biopolitica sia intesa non solo come la sfera in cui si riuniscono in senso verticale le categorie del biologico e del politico, ma anche come il terreno dove agisce la resistenza del «biologico», di ciò che vive, nei confronti di una politica che acquista nella modernità tratti sempre più meccanici e autoreferenti. Assumendo il singolo come soggetto e non come oggetto — come attore sociale, direbbe Alain Touraine (1993) — la biopolitica può allora diventare il campo pubblico di affermazione della soggettività, in contrasto con le dinamiche di isolamento, fuga, repressione ed emarginazione provocate dall’autonomia del politico, per promuovere invece un atteggiamento di apertura al mondo globalizzato e ai suoi orizzonti di dialogo, sulla strada del rafforzamento di una coscienza planetaria.

Per concludere, un effetto della crisi del concetto di moderno nelle scienze sociali si registra con l’emergenza di concetti obliqui che presentano il rischio di lasciare indefinito il campo di ricerca aprendo la strada alla banalizzazione ma che contestualmente, proprio per la loro natura indefinita, permettono di esplorare l’intermedio, le aree in chiaroscuro, i punti di intersezione. Ne consegue che è necessario dotarsi della logica fuzzy pur senza abbandonare la logica formale, che è più proficuo apprezzare il conflitto rispetto al dogma, il mutamento piuttosto che la consuetudine, estendendo le capacità euristiche anche per mezzo dell’immaginazione (Abbott, 2007). Ciò è tanto più vero quando ci si avventura in un territorio così esposto a ogni pratica, ma anche a ogni codice, come quello del corpo.

Bibliografia

Abbott A. (2007), I metodi della scoperta. Come trovare delle buone idee nelle scienze sociali, Milano, Mondadori.

Bachtin M.M. (1979). L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Torino, Einaudi.

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1 Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale, s.raimondo@unicas.it

2 Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale, s.raimondo@unicas.it

3 La traduzione italiana è ancora più tarda: M.M.Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Einaudi, Torino 1979.

4 Sull’affermazione del matrimonio solidale in Inghilterra, si veda l’ormai classico L. Stone, Famiglia, sesso e matrimonio in Inghilterra tra Cinque e Ottocento, Einaudi, Torino 1983 (ed.or.1977), pp.360 ss.

5 Per l’Italia si veda, essenzialmente, M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto: mutamenti della famiglia in Italia dal XV al XX secolo, il Mulino, Bologna 2000 (I ed. 1986) e M. Barbagli, M. Castiglioni e G. Dalla Zuanna, Fare famiglia in Italia: un secolo di cambiamenti, il Mulino, Bologna 2003.

Vol. 1, Issue 0, March 2024

   

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