Vol. 1, n. 1, luglio 2024

Camminando verso il corpo

Valeria Agosti1, Gianluca Bocchi2 e Antonio Borgogni3

Sommario

L’antica concezione del movimento come precondizione favorevole per gli sviluppi della creatività e del pensiero umano viene oggi riscoperta e rinsaldata da paradigmi neuroscientifici che stanno ispirando rinnovati modelli di studio e di comprensione dell’organizzazione del corpo in movimento. Si pensa con tutto il corpo, e in questo contesto il cervello è solo un elemento, peraltro preziosissimo e indispensabile, di rilevazione, conservazione, ampliamento e spesso anche tradimento delle molteplici esperienze relazionali delle persone (con l’altro da sé: umano, non umano, ambientale).

In un tale quadro culturale si situa così un rinnovato interesse per la fisiologia del flâneur: si possono dunque indagare gli impatti neurocerebrali abbastanza precisi e rilevanti che la pratica del camminare è in grado di esercitare sulla salute e sul pensiero umani. Contemporaneamente, le metafore del movimento vengono utilizzate come strumenti di riflessione che speriamo possano essere utili a favorire la naturale condizione di fluidità del pensiero umano e quindi il distacco da rigidi modelli e concezioni che ancor oggi caratterizzano la ricerca scientifica. Tutto questo viene messo in evidenza in particolare dalle ricerche sui due emisferi cerebrali, che ricercano e trovano le ragioni della salute e della creatività mentali in un equilibrio fra l’inclinazione alla staticità di un emisfero e l’inclinazione alla fluidità dell’altro emisfero, troppo spesso squilibrata a favore del primo dagli approcci astratti e generalizzanti prevalenti nella modernità.

Proponiamo una presentazione, leggera e certamente non esaustiva, dell’intreccio di tali temi (il significato del movimento del corpo umano, e la funzione trasformativa che gli attuali sviluppi culturali possono esercitare sulle attività motorie e sportive) attraverso un dialogo fra filosofia della scienza, pedagogia, teoria dell’allenamento incarnate, con indubbie e generative sovrapposizioni, dai tre autori che convergono nell’intenso desiderio di arricchire e contaminare reciprocamente i propri campi di attività e le proprie visioni del mondo.

Parole chiave

Corpo, movimento, esperienza, desiderio, cammino.

Walking towards the body

Valeria Agosti4, Gianluca Bocchi5 and Antonio Borgogni6

Abstract

The ancient idea of human movement as a proper condition for the development of human creativity and thought is now being rediscovered and reinforced by neuroscientific paradigms that are inspiring renewed models of studying and understanding the organisation of the body in movement. One thinks with the whole body, and in this context, the brain is only one element, even if a very precious and essential one of detection, preservation, extension and often also a betrayal of people’s multiple relational experiences (with others than oneself: human, non-human, environmental ones).

In such a cultural framework is therefore situated a renewed interest in the physiology of the flâneur: one can thus investigate the quite precise and relevant neurocerebral impacts that the practice of walking is capable of exerting on human health and thinking. At the same time, movement metaphors are used as tools for reflection that we hope will be useful in fostering the natural condition of the fluidity of human thought and, thus, the distancing from strict models and concepts that still characterise scientific research today. All of this is particularly highlighted by research on the two cerebral hemispheres, which looks for and finds the reasons for mental health and creativity in a balance between the inclination to static of one hemisphere and the inclination to the fluidity of the other hemisphere, too often unbalanced in favour of the former by the abstract and generalising modern approaches.

We offer a gentle and certainly not exhaustive way of presenting the interweaving of these themes (the meaning of the movement of the human body and the transformative function that current cultural developments can exert on motor and sports activities) through a dialogue between philosophy of science, pedagogy, and training theory embodied, with undoubted and generative overlaps, by the three authors who converge in their deep desire to mutually enrich and cross-contaminate their fields of activity and worldviews.

Keywords

Body, movement, experience, desire, walk.

Introduzione

A volte ci si incontra per caso — come si dice, in maniera serendipica — ma proprio questi incontri casuali hanno il potere di trasformare il percorso dei nostri pensieri. Il caso è parte della nostra azione, della nostra volontà, così come lo è il desiderio. Ed è proprio da questi due elementi dell’azione, dalla trama definita dall’intreccio del caso e del desiderio,7 che in un caldo pomeriggio estivo del 2022, a Bergamo, nascono riflessioni un po’ eterogenee, e tuttavia meritevoli di approfondimento, tra tre colleghi, tre persone di estrazione culturale e scientifica diversa ma accomunati da una passione, il camminare, e dal desiderio di conoscere meglio questo fenomeno locomotorio, che è insieme pratica del corpo ma anche dell’anima, oggetto e soggetto di ricerca in svariati ambiti scientifici, moda del momento e pratica spirituale, osservato e descritto nelle sue caratteristiche più profonde. In una visione socratica della conoscenza, io so di non sapere, il nostro discorso sul camminare si articola in un percorso metaforico scandito da un dialogo fra la filosofia della scienza e le scienze del movimento e dello sport, che prende il via proprio dall’esplorazione del desiderio di chi si occupa di questi ambiti, declinandone la ricerca accademica in ambito pedagogico.

È proprio partendo dal desiderio, da quel de-sidera che evoca un movimento di allontanamento e avvicinamento metaforico alle stelle, che gli autori orientano il loro sguardo comune, affrontando i temi dell’organizzazione della performance motoria e sportiva non come una semplice competenza tecnica, ma anche e soprattutto come una sorta di espressione artistica — camminare negli spazi pubblici è una rappresentazione reciproca di sé —, che riflette l’unicità della persona, ancor prima che dell’atleta, e prende forma in innumerevoli modalità singolari e spesso irripetibili. In questa riflessione il camminare emerge come la configurazione più naturale e originaria che la nostra specie possiede per organizzare la propria performance locomotoria: un bisogno radicale per la stessa definizione dell’identità umana; un’espressione di libertà, della ricchezza delle relazioni tra l’io e il mondo già a partire dalle prime fasi dello sviluppo psicomotorio; un’esperienza complessa per l’intreccio delle componenti biomeccaniche, emotive, cognitive, che peraltro sono alla base di tutto il percorso successivo di maturazione dell’individuo, anche sul piano delle attività sportive.

Il dialogo

Gianluca Bocchi (GB): Allora, ditemi quali sono i vostri desideri, i vostri pensieri.

Valeria Agosti (VA): Io ne ho due, ne ho due che potrebbero proprio procedere in una prospettiva comune. Il primo riguarda la definizione di una fenomenologia del camminare. Uso il verbo e non il sostantivo per dare l’idea della descrizione dell’azione del cammino, dello studio della struttura organizzativa partendo dal dato biomeccanico/fisiologico per poi aprirsi a una riflessione più ampia e contaminata. Qui si inserisce il secondo desiderio, quello di comprendere meglio l’interpretazione del fenomeno motorio, anche quello sportivo, in un superamento effettivo della visione meccanicista, tale da poter adattare la teoria alla pratica pedagogica delle scienze motorie e sportive, all’allenamento insomma! Il camminare viene infatti particolarmente studiato nella sua manifestazione biomeccanica sotto forma di gait cycle (Perry e Burnfield, 2010), ciclo del passo, che viene per convenzione suddiviso in eventi (ad es. il contatto iniziale del tallone al suolo), periodi (ad es. la risposta al carico), compiti (ad es. l’accettazione del carico) e fasi. Quest’ultime, che sono appoggio e oscillazione, rappresentano la macro-manifestazione, quella chiaramente osservabile anche senza strumentazioni ad hoc, dove l’arto di riferimento giunge al suolo per sostenere il peso del corpo per poi consegnarlo per il tramite del bacino, liberandosene, all’arto controlaterale ed essere così libero di oscillare per avanzare. La proporzione tra la fase di supporto e quella di oscillazione è considerata un parametro invariante della deambulazione umana fisiologica. In questo susseguirsi di organizzazioni e riorganizzazioni segmentali, l’arto inferiore definisce un gait cycle che è definito come l’intervallo di tempo tra due ripetizioni consecutive dello stesso evento nello stesso arto, facendo esclusivamente riferimento a quanto accade nel solo arto inferiore. Infatti, il tronco, la testa e gli arti superiori sono definiti unità passeggero.

GB: il percorso fisiologico è molto interessante, e proprio per questo è opportuno integrarlo con altri percorsi di ordine, diciamo così, cognitivo e sociale. Da parte mia, il primo percorso che vorrei aprire consiste nel sottolineare la località e la parzialità del camminare intese come suo punto di forza e non già di debolezza, perché in qualche modo costituiscono una messa in atto — io amo dire incarnazione, o incorporazione che dir si voglia — delle stesse modalità della conoscenza umana, che ha appunto nella località e nella parzialità un suo punto di forza o, in ogni caso, la condizione stessa della sua pensabilità. Il pensiero della complessità esprime bene questa condizione umana parlando di conoscenza irriducibilmente contestuale: cioè che ha luogo in uno spazio preciso, in un tempo preciso, da parte di un osservatore preciso, con finalità precise, e così via.

Tornando al camminare, in questo caso si esperisce e si produce conoscenza del territorio, ad esempio di una città, visto quanto negli ultimi due secoli l’esperienza del camminare ha fatto parte integrante dell’esperienza urbana. E la prima conoscenza che si sviluppa quando si cammina in una città, o in qualunque altro genere di territorio, è che la conoscenza non può che venir prodotta da un flusso continuo, con le sue variazioni di ritmo: la conoscenza è dinamica e relazionale. E ciò vuol dire: di una città non è possibile una conoscenza statica, fotografica, dall’alto, da una veduta panoramica. La mappa prodotta da un aereo o da un pallone aerostatico può essere utile per certi scopi, ma è astratta, scarnificata, imprecisa. E questo ci dice anche un’altra cosa: che non può darsi una conoscenza della città oggettiva, cioè esterna ai tanti spazi e ai tanti tempi degli individui che la abitano e la vivono, Come in tanti altri aspetti del nostro mondo, la conoscenza della città non può che essere intersoggettiva, frutto della convergenza e della negoziazione fra i tanti sguardi, i tanti punti di vista di chi è impegnato in tale avventura cognitiva.

Ognuno di noi, nel suo camminare in un territorio, delinea uno sguardo assolutamente singolare e parziale, ma proprio per questo unico, irriducibile e indispensabile. La conoscenza di una città, di un territorio si produce così bottom up, attraverso l’intreccio e l’ibridazione, sempre in divenire e sempre revocabili, fra molteplici itinerari individuali altrettanto unici e singolari. E, se ci pensiamo bene, questa è una potente educazione alla democrazia o, meglio, un’introduzione incorporata all’idea che la conoscenza, nel suo stesso farsi, è intrinsecamente democratica.

VA: interessante il tuo riferimento alla democrazia e vorrei azzardare un aggancio con il camminare e con il desiderio legato al camminare. La mia esperienza di lavoro, sia in veste di ricercatrice che di allenatrice, con persone con disabilità neurologica, con anziani fragili o con atleti in fase di recupero da un infortunio, persone quindi che sperimentavano un impairment nella loro mobilità quotidiana, mi ha portata a osservare e a studiare a fondo il gait cycle; in particolare, ne ho osservato la variazione nella manifestazione biomeccanica conseguente al tipo di impairment. La cosa interessante è che a differente impairment, sia esso stato di origine centrale o periferica, il desiderio di guarigione era sempre intimamente legato al tornare a camminare in autonomia ed efficienza. Il camminare diventa un atto di libertà, un po’ come accade nel bambino che matura il suo schema motorio di base e che comincia a conoscere il mondo in libertà, portando il suo corpo verso il mondo e non più il mondo verso il corpo. Qui vorrei riprendere il discorso di GB quando parlava della città e della soggettività della mappa citando Gregory Bateson (1979) quando scriveva che «ogni scolaretto sa che […] la mappa non è il territorio» riflettendo sul fatto che la realtà circostante è una cosa molto diversa dal modo in cui ciascuno di noi la interpreta, in funzione degli schemi mentali, delle convinzioni ma soprattutto in funzione delle esperienze passate. Si potrebbe quindi dire, e lo chiedo a voi, che il camminare, e la libertà di intenzionare il corpo che ne consegue, è la modalità che l’essere umano ha, sin da fanciullo, di costruire la sua mappa esperienziale del mondo?

Antonio Borgogni (AB): hai proprio detto intenzionare? Penso tu abbia ragione e, al tempo stesso, rifletto sull’impossibilità dei bambini (in particolare quelli italiani) di costruire mappe esperienziali perché privati dell’esperienza del mondo, della città, degli spazi pubblici; ben prima della dis-trazione legata ai dispositivi digitali, abbiamo costretto i nostri bambini a una clausura cognitiva, motoria, percettiva ben evidenziata da ricerche (Shaw et al., 2015) che ben poco interessano la comunità educativa e ben poco incrociano le sensibilità politiche. Se i bambini sono in clausura, co-stretti a vivere in spazi definiti e controllati (casa, scuole, palestra, piscina), come possiamo lamentarci del fatto che usino troppo i dispositivi digitali (Covolo et al., 2021; Digennaro e Iannaccone, 2023)? Del resto, che fanno nel tempo che dovrebbe essere libero? Abbiamo asciugato, rinsecchito, qualsiasi intenzionalità educativa che esuli dai servizi, a volte eccellenti, dedicati all’infanzia e ai ragazzi; la città educativa, quel sogno di fine millennio, è divenuta la somma di spazi e di tempi nel cui ambito si fanno certo esperienze, ma sempre supervisionate, sempre condotte da altri (adulti) quasi mai decise dai bambini.

Eppure, la conquista della città da parte del popolo indocile (Ariès, 1979) non si ferma. Come i lettori del romanzo di Bradbury,8 i bambini — con enormi differenze tra i Paesi europei — si riorganizzano, salgono sui muretti, giocano, tentano di nascondersi, addirittura camminano andando a scuola costruendo, per proprio conto o accompagnati, la propria mappa del territorio. Nelle osservazioni svolte recentemente a Barcellona all’entrata delle scuole primarie di quattro diversi istituti ho riscontrato solo due bambini accompagnati in auto. Qualche speranza c’è, anche nell’Europa meridionale, di consentire la costruzione di una mappa esperienziale del mondo, di distinguere mappa e territorio, di aderire a un mondo nel quale le interazioni, più o meno di sostegno (alla Goffman), avvengono con sorrisi e non con like, con rimproveri e non con icone di pollici versi.

GB: soffermiamoci ancora un po’ sulle implicazioni di quello che stiamo scoprendo quale primato esistenziale, ontogenetico, del camminare rispetto alle esperienze umane del bambino e dell’adulto rispetto ai processi cognitivi, ai processi di apprendimento e di costruzione delle conoscenze di ogni individuo. E a questo punto vorrei fare un riferimento a una metafora significativa che è emersa in maniera molto rapida rispetto agli atteggiamenti cognitivi umani di quello che è un nuovo e imprevisto mare magnum del sapere che è internet: la metafora del navigare. Perché la navigazione in un mezzo liquido ha in comune con il camminare, in un mezzo più vincolato alla forza di gravità, un forte intreccio fra contingenza e direzionalità. Sia in mare che nella città possiamo avere mete anche assai precise, ma se non osserviamo e in qualche modo ci immedesimiamo nei flussi da noi indipendenti (ad esempio le variabili meteorologiche) rischiamo di non realizzare le nostre mete, o di realizzarle con più fatica. E poi anche in mare come in terra si può andare per diporto, con una esperienza più di tipo estetico e giocoso, in qualche modo appunto una esperienza di flâneurie (Huart, 1841), che non significa non avere una meta ma, per dirla con il poeta, è la tua meta anche il cammino.

Ora, tornando a internet, perché sottolineo l’importanza del navigare? Perché mette in primo piano una modalità di apprendimento molto creativo, che è stata da sempre utilizzata dai soggetti creativi, situata appunto all’intreccio fra contingenza e progettualità, fra caso e intenzionalità. Possiamo andare su internet per cercare singole informazioni, e questo è un uso corretto, ma locale e limitato. Ma, per utilizzare al meglio le potenzialità del nuovo mezzo informatico/informativo, possiamo anche trasformare la nostra linea diretta verso l’informazione in un cammino più lento e sinuoso dal quale emergono tanti collegamenti nuovi e inaspettati, una rete sorprendente di informazioni che si rimandano reciprocamente, si intrecciano e con ciò stesso fecondano in maniera imprevedibile il nostro processo di conoscenza. Ci muoviamo correndo il rischio di perderci nel territorio virtuale, proprio come il flâneur corre il rischio di perdersi nel territorio urbano. Ma corriamo questo rischio consapevolmente: ci perdiamo, fino a un certo punto, per ritrovarci su di un nuovo livello di sviluppo, appunto per apprendere cose nuove. L’esigenza primaria del flâneur consapevole, urbano o virtuale che sia, è di trovare la giusta via di mezzo fra il noto, il routinario da un lato e il nuovo, il sorprendente dall’altro. Una parte della nostra esperienza, ed è inevitabile che sia così, ricerca conferme: vogliamo aggiungere al nostro percorso di vita un nuovo tassello già previsto, sia esso una nuova informazione di cui andavamo in cerca sia un luogo dove dobbiamo continuare a sviluppare la nostra giornata (lavorativa o personale). Ma dobbiamo anche arricchire la nostra esperienza con perturbazioni esterne, non predeterminabili, e il perturbante può essere situato nei luoghi urbani oppure nei siti informatici, rispetto a una relazione con un-altro-da-noi prima non intravisto e ora formativo. In questo senso muoversi in uno spazio, qualunque esso sia, è decisivo per la costruzione della nostra stessa identità.

Detto incidentalmente, vi è l’accenno a un tema che oggi è molto importante per comprendere che cosa sia l’esperienza umana nel suo complesso. Le fondamentali esperienze in ambito neuroscientifico di Iain McGilchrist (2009; 2021) hanno messo in evidenza come in qualche modo il cervello umano fonda i nostri processi cognitivi su una dualità di logiche e di modi di leggere il mondo diversi e molto spesso eterogenei, e che la messa in relazione feconda di questa dualità è la ricchezza, ma spesso anche il problema, dell’esperienza umana nel mondo. Semplificando molto le cose, i due modi di leggere il mondo sono incarnati rispettivamente nell’emisfero sinistro e nell’emisfero destro. E non è un caso, rispetto a quanto stavamo dicendo, che l’emisfero sinistro sia incline alla ripetitività e al già noto, l’emisfero destro all’imprevisto e al sorprendente.

Ma qui, rispetto ai nostri atteggiamenti nei confronti del mondo, vediamo emergere una dualità ulteriore, senz’altro molto profonda: quella fra il tempo cronometrico, sociale, spazializzato, interpretato dal cronometro per cui tutti gli istanti sono uguali, e il tempo neurologico, interno, vissuto come flusso e come durata (e in tal modo studiato da Henri Bergson (1896; 1907)) e sede di un’esperienza modulata dai ritmi, appunto, dall’intenzionalità soggettiva9.Uno dei rischi insiti in qualunque discorso sull’apprendimento dei nostri giorni, di ordine pedagogico, è che il necessario equilibrio fra queste due modalità temporali, che, come l’emisfero sinistro e quello destro, non sono di per sé in opposizione, si rompa in una direzione performativa, verso il dominio del solo tempo spazializzato, cronologico. E così più informazioni portiamo a casa in un’unità di questo tempo e più avremmo prodotto dei risultati. Chiaramente, è necessario porre rimedi al rischio di un tale squilibrio. Perdere tempo camminando o navigando è una perdita solo dal punto di vista molto parziale del tempo spazializzato, ma è un guadagno per la completezza del nostro essere, che deve fare una sintesi, sempre precaria ma molto produttiva, entro questa dualità di vivere il mondo. Camminando o navigando acquisiamo una comprensione del mondo, che non può essere raggiunta addizionando le singole informazioni.

AB: un articolo che amo molto, di Gustavo Zagrebelsky (2021), fa riferimento, tra l’altro, alla lezione come digressione; per farlo, dichiara di usare l’immagine del tram10 e della passeggiata tratta da Florenskij: «Il libro di testo è come un piano di lavoro per giungere a un risultato, una pianta topografica che indica un percorso, una di quelle che si tengono in mano quando si compie una gita di cui si conosce solo il punto di partenza e il punto d’arrivo. Il testo non cresce, è fatto da pezzi messi insieme, preconfezionati». La lezione, invece, non procede in linea retta: «Non è un tragitto su un tram che ti trascina avanti inesorabilmente su binari fissi e ti porta alla meta per la via più breve, ma è una passeggiata a piedi, una gita, sia pure con un punto finale, la meta, senza avere, tuttavia un’unica esigenza, un’unica finalità: arrivare alla meta».

VA: bene, mi sembra che quanto hai descritto sul percorso della lezione, così come interpretata da Zagrebelsky, evochi la non linearità del cammino. Infatti, vi ho precedentemente accennato che l’attività di studio e ricerca sul cammino è stata sempre caratterizzata dalla quantificazione del movimento, dove tempo e spazio sono considerati elementi utili a misurare l’efficacia e l’efficienza del gesto motorio, assumendo una pura connotazione fisica, meccanica, che spesso lascia poca interpretazione alla descrizione del fenomeno motorio. Solo negli ultimi anni, dall’unione delle intuizioni di gruppi di ricerca nel campo della biomeccanica, della fisica e delle neuroscienze, il gait cycle ha goduto di un’interpretazione quale funzione biologica complessa (Iosa et al., 2018; 2019); è stato dimostrato, attraverso l’utilizzo di sistemi di valutazione optoelettronici e di sensori, una valutazione quindi puramente quantitativa e demandata alla tecnologia, che il cammino possiede la struttura armonica del rapporto aureo (Phi, φ)11, esiste quindi un’armonia propria del cammino. Infatti, studi successivi hanno confermato che il movimento del cammino, percorso sia nella direzione in avanti che all’indietro, così come il movimento di discesa delle scale, presenta una struttura del gait cycle che emula la struttura frattale della proporzione aurea. Secondo gli autori, tale struttura potrebbe funzionare come una sorta di melodia poetica dei passi, grazie a un controllo esercitato dal sistema nervoso centrale, in particolare da una rete neurale che potrebbe coinvolgere il cervelletto e i gangli della base, operando come un generatore di segnali ritmici armonici durante il cammino.

AB: scusa se ti interrompo, Valeria, sono certo che riuscirai a riprendere facilmente il nostro cycle. Proprio la tua riflessione su questo e sull’armonia mi fa venire in mente un recente articolo di Belpoliti (2024) apparso su «Repubblica»12: «Uno studioso di geometria scomparso di recente, Narciso Silvestrini, ha detto una volta che la nostra scrittura somiglia al nostro modo di camminare: con entrambe noi creiamo delle cicloidi. Se si potesse collegare alle nostre gambe un pennino e vedere il tracciato che facciamo mentre camminiamo, si scoprirebbe che il segno che rilasciamo è molto simile a quello che produciamo con le nostre mani: scrivere e camminare sono due attività profondamente collegate ed entrambe fanno bene al pensiero».

VA: certo Antonio, e quanto hai detto aggiunge valore all’interpretazione non lineare del gait, alla sua armonia che, così come per lo scrivere, coinvolge tutto il corpo, a partire dalle estremità. Infatti, come dicevo, questi studi hanno quindi descritto la presenza della proporzione aurea nel gait cycle, ribattezzandolo golden gate, ma hanno individuato la manifestazione di questa proporzione nel rapporto tra la fase di appoggio e quella di oscillazione. Se riprendiamo la descrizione biomeccanica del gait cycle fatta in precedenza, vi ho detto che appoggio e oscillazione sono la macro-manifestazione del cammino, quella che tutti siamo capaci di osservare, e che il rapporto tra le due fasi è un parametro invariante; oggi sappiamo che da questo rapporto emerge l’armonia del cammino che mi sembra essere una descrizione che incontra quanto abbiamo discusso in precedenza e che quindi potrebbe essere, a mio avviso, una testimonianza utile a fare emergere, con un’analisi quantitativa, la necessità di un’interpretazione sistemica, non lineare, fenomenologica direi, dell’organizzazione del corpo e della funzione motoria.

A questo punto mi sembra che quando stiamo dicendo ci stia naturalmente conducendo a camminare verso il corpo, e in questo percorso vorrei agganciare il mio secondo desiderio, quello espresso in partenza. Mi farebbe piacere ragionare con voi sulla parola performance e su come questa possa essere declinata nei contesti del corpo, anche nello sport — richiamando GB — come esperienza umana nel mondo. È la stessa evoluzione semantica del termine performance,13 nel senso del dare forma, nel nostro caso del dare forma all’azione, che potrebbe condurre questo ulteriore passaggio del nostro cammino.

Nel contesto contemporaneo, il termine performance viene impiegato in numerosi ambiti, spaziando dai contesti economici a quelli teatrali. Questa estensione semantica non soltanto sottolinea una focalizzazione verso risultati quantificabili e misurabili, che la lingua italiana considera nel significato della parola prestazione — prestare il corpo all’azione — ma rivela anche un’attenzione crescente verso l’aspetto creativo e significativo dell’espressione corporea. Ritengo che in questo spazio semantico la performance sportiva si collochi al centro: essa è quantitativamente dimostrabile e oggettivabile (prestativa), grazie anche all’avvento delle moderne tecnologie di analisi, ma è al contempo rappresentazione del corpo dell’atleta, scena di un fenomeno unico e irripetibile di una narrazione vissuta, che inizia con un’idea e si concretizza attraverso un gesto atletico, culminando in un risultato o esito specifico. Tale processo non solo coinvolge il performer in una serie di azioni fisiche, ma attiva anche un’interazione dinamica con il pubblico, che partecipa attivamente alla co-creazione del significato dell’evento, divenendo così anche un atto sociale e comunicativo (Magdalinski, 2009; Ryall, 2019; Borge, 2015; Agosti 2021, 2024). Seguendo questo ragionamento, la performance diventa un’esperienza corporea che riflette abilità acquisite e consapevolezza riflessiva, proponendo l’atleta non solo come esecutore di un’abilità motoria, ma come protagonista di un processo di conoscenza che trasforma un evento fisico in un’occasione di crescita personale e collettiva. Ritengo che questo debba diventare parte integrante dei modelli e delle metodologie di allenamento, anche nello sport d’élite. Cosa ne pensate al riguardo?

AB: vedi che qui emerge, come avevamo accennato in un precedente colloquio, lo iato tra motorio e sportivo? Mi pare stiamo immaginando, perché s’innesti il processo di cui parli, qualcuno che compia azioni e performance di fronte ad un pubblico e che, pertanto, si connota nell’interazione e non di per sé, come atto esistenziale, della signora che, dopo una frattura all’anca riesce a fare le scale, nel bambino che, finalmente, esegue una capovolta, in me quando impiego qualche secondo di meno a svolgere camminando la mia seduta — egoistica14 — di brisk walking.

Insomma, la performance esiste solo quando vista da qualcuno? È un passaggio di grande rilevanza, a mio parere, per il nostro discorso, ovvero: di cosa stiamo parlando? Non stiamo cadendo nel tranello epistemologico di annettere lo stesso senso a due tipi di azioni umane profondamente diverse?

GB: a questo punto vorrei stimolare una riflessione sul fenomeno sportivo alla luce dell’apparente opposizione, che in realtà rinvia a una complementarità più profonda, dell’intervento di Zagrebelsky già citato da Antonio, fra testo e lezione o, se vogliamo, fra le rotaie del tram e il caos creativo di una passeggiata. Lo sport è molto ritualizzato, è molto finalizzato: a maggior ragione quando le aspettative e le pressioni aumentano, i cammini vincolati (le rotaie) si moltiplicano. Ma, in un altro senso, ogni performance sportiva è unica, riparte da zero, ha luogo in un contesto spazio-temporale nuovo, è il prodotto anche dell’interazione con soggetti altri, umani (spettatori, giudici/arbitri, competitors) e non umani (campi di gara, variabili meteorologiche) ed è sottoposto a interventi più o meno estesi delle contingenze (la palla è rotonda). Certo, le competenze psico-fisiche del soggetto in gioco sono un punto di partenza, ma esse rimangono astratte, finché non producono una performance frutto della co-evoluzione fra competenze psico-fisiche e soggetti in costante evoluzione. Ora, il ricorso sempre più frequente ai mental coach e la progressiva valorizzazione delle dimensioni psichiche è un indizio (che non sempre è consapevole) che la realizzazione di una performance sportiva è sempre un atto creativo, in cui il soggetto è coinvolto nella sua totalità, comprendendo in ciò anche e soprattutto la sua capacità di aprirsi alle relazioni con il mondo, e di venirne perturbato. In un altro contesto, il saggista e manager Nassim Nicholas Taleb (2012) ha coniato il termine e il concetto di antifragile, per sottolineare la capacità, e forse la necessità, dei soggetti umani di non essere intimoriti dalla mutevolezza, labilità e spesso incomprensibilità dei contesti in cui si trovano a operare ma, al contrario, di apprezzare queste stesse caratteristiche e di utilizzarle nella maniera più feconda e generativa per il proprio successo. Bene, penso che l’antifragilità sia anche un elemento fondamentale per il successo negli ambiti sportivi, consapevole o inconsapevole che esso sia.

Sicuramente, qui si aprono piste di esplorazione dei fenomeni sportivi molto ampie e molto stimolanti, che senz’altro meritano di essere perseguite autonomamente. Qui, tuttavia, vorrei soprattutto sottolineare quanto uno sguardo di questo genere sullo sport, basato sulla complementarità essenziale fra ripetitività e creatività o, se vogliamo, fra fiducia nel già noto e necessità di immergersi in contesti sempre nuovi, possa aiutare a comprendere meglio i problemi e anche le storture, inadeguatezze o vera e propria malafede che caratterizzano nel presente molti altri ambiti, in primo luogo quello educativo. Mettiamola in questo modo: se i successi nelle attività sportive, che a un primo sguardo seguono percorsi molto predeterminati e vincolati, dipendono anche dalla continua capacità di relazione e di reinvenzione dei soggetti coinvolti, che cosa dobbiamo pensare del destino dei contesti educativi, nei quali la libertà espressiva dei soggetti coinvolti (quali che siano i loro ruoli formali) dovrebbe essere una condizione imprescindibile, e non marginale o addirittura scandalosa? Qualunque contenuto, testo o programma non è e non può essere oggetto di apprendimento antecedentemente alla sua messa in situazione, e questa messa in situazione è imprescindibile dalla corporeità e dalla capacità relazionale dei soggetti coinvolti, comprese le loro specificità e le loro irriducibili singolarità. A questo punto potrebbero e dovrebbero illuminarci recenti contributi delle neuroscienze, che sottolineano come le diversità neurologiche fra individuo e individuo siano più elevate di quanto non si tende solitamente a pensare, e che il rispetto della propria e dell’altrui diversità neurologica sia una condizione necessaria per una piena esperienza del mondo e nel mondo15. E invece le attuali condizioni educative, il più delle volte astratte, stereotipiche, omologanti (e che purtroppo non sono riconosciute come tali, e che quasi per inerzia tendono a irrigidirsi ulteriormente) continuano a prescindere dalla concreta esistenza dei soggetti in gioco, e quindi impediscono di valorizzare appieno le loro specificità e di realizzare le loro implicite potenzialità.

A questo punto vorrei fare due osservazioni che alcuni potrebbero anche definire conclusive, ma che invece sono piuttosto di apertura di orizzonti ancora più ampi, che speriamo di poter continuare a percorrere e a sviluppare insieme.

Il primo, già implicito nel discorso che abbiamo appena condotto, è quanto lo sport, come esperienza umana coinvolgente e trasformativa, possa essere assimilato ai comportamenti umani in contesti estremi, quali ad esempio le esplorazioni antartiche (la mia collega e amica Chiara Montanari, organizzatrice di spedizioni antartiche, ha recentemente proposto una ricca attività formativa che ha come centro proprio l’antarctic mindset), oppure forme di addestramento militare particolarmente raffinate, oppure ancora — ma il discorso qui è molto differente — gli stati alterati di coscienza. Rispetto all’identità e alla condizione umana, di fatto, tali ambiti incarnano un principio ben noto e praticato nelle scienze del vivente: che per comprendere meglio le condizioni definibili come più normali o diffuse, è assolutamente necessario esplorare tutto lo spettro delle condizioni e delle strutture possibili, perché è da tutto questo spettro — in forme comparate e convergenti — si può comprendere la totalità dei fenomeni in questione, nella loro unità e nella loro diversità (principio di complessità). Ora, da questo punto di vista, le esperienze sportive costituiscono — mi sia consentito esprimermi in questi termini — una sorta di estremo meno estremo: esperienze cioè che possono effettivamente attivare registri motori e psicofisici molto particolari, ma che sono in qualche modo sotto gli occhi di tutti, sia in quanto osservatori esterni più o meno coinvolti (e quindi in grado, sia pure limitatamente, di percepire e di comprendere i vissuti di un vasto spettro di sportivi, persino quelli di élite ) sia in quanto attori stessi di imprese sportive, sia pure a livelli amatoriali ed episodici. Dopotutto, se a pochissimi umani tocca in sorte di esplorare l’Antartide e se non sono comunque molti coloro che si trovano a riflettere sul significato di queste esplorazioni per la condizione umana, sono molti di più coloro che partecipano a una maratona, a una marcia non competitiva, oppure vanno semplicemente a correre o a fare partite di calcetto con gli amici. In questo senso, allora, la lezioni che stiamo traendo dalla fenomenologia dello sport per le esperienze di apprendimento in generale — che la performance è sempre un atto creativo e necessariamente modulabile dal soggetto — posseggono un’autorevolezza conquistata sul campo, grazie alla loro generalità e relativa visibilità — nonostante tutti i fraintendimenti e le interessate semplificazioni al proposito. Detto in altri termini: la riduzione della performance a una prestazione sradicata dal suo significato etimologico, cioè presa soltanto negli aspetti standardizzabili e unilateralmente quantitativi, è un male dei nostri tempi che produce tanta sofferenza nei più diversi contesti educativi e lavorativi. E paradossalmente il fatto che nei luoghi dove più dovrebbe essere esasperata, come appunto nel campo sportivo, si aprono delle vie di fuga niente affatto marginali (è il senso dell’antecedente intervento di VA) ci dice che è enorme lo spazio per la riformulazione della questione, e che forse i contesti sportivi possono davvero aiutare a rendere migliori i contesti educativi e professionali.

Il secondo punto ci riporta invece alla questione del camminare, in quanto pratica decisiva per la valorizzazione e l’arricchimento dell’esperienza umana, nella sua integralità non solo psicofisica ma anche più specificamente cognitiva, giacché il camminare è una precondizione essenziale per una conoscenza non scarnificata dei territori percorsi, in primo luogo la città. Questa pratica, ancestrale e connaturata ai vari stadi dell’evoluzione umana, diventa però trasgressiva nel momento in cui costituisce una sorta di ribellione a molti mali della modernità, ed esprime l’esigenza di un riequilibrio delle nostre disposizioni umane così (fortunatamente) diversificate. La questione del camminare è infatti intimamente legata non solo alla questione urbana, concernente lo sviluppo e il significato delle nostre città, ma anche a una questione epistemologica, rispetto a taluni presupposti cognitivi ancora pervasivi ai nostri giorni e tuttavia drammaticamente obsoleti, e anche alle modalità e alle tensioni neurocerebrali ad essi coordinate.

Per vedere più da vicino tutte queste interconnessioni è utile far riferimento a un testo ormai classico per comprendere le questioni urbane degli ultimi due secoli, L’esperienza della modernità, opera del grande intellettuale newyorkese Marshall Berman (1982). In uno dei punti chiave della sua analisi, egli fa riferimento a quella che possiamo chiamare una vera e propria esperienza di conversione del giovane Le Corbusier, che ha avuto luogo nei primi anni venti del novecento, a Parigi, sugli Champs Elysées. Le Corbusier, infatti, viene turbato dal fatto che in quello che era sempre stato pensato come il regno dei pedoni, ora sorgono notevoli difficoltà ad attraversare la strada, data la presenza di un traffico motoristico per il tempo già molto ingente. Ne trae l’improvvisa conclusione che il pedone è il passato e che l’auto è il futuro, e decide di prendere posizione per realizzare, anzi persino per accelerare quello che a lui sembra un futuro ineluttabile.

Ora, in quella che si definisce in genere l’architettura e l’urbanistica modernista, le tendenze sono molteplici e variegate, tanto che iniziamo ad avere qualche dubbio sulla validità stessa di questa categorizzazione. Tuttavia, rispetto ai tratti che definiscono l’uso comune di questa categorizzazione Le Corbusier risulta il più radicale, ed entro questa sua radicalità si situano talune delle profonde contraddizioni che connotano gli sviluppi urbani fino ai nostri giorni. Ricordiamo i punti fondamentali della sua visione: la scelta unilaterale della massiccia unità abitativa contro ogni forma di soluzione diffusa, monofamiliare o plurifamiliare che sia; la tendenziale dissoluzione del tessuto urbano tradizionale in un reticolo di autostrade deputate al movimento macchinale; la rigida separazione fra le funzioni urbane, in primo luogo abitazione, produzione, amministrazione, tempo libero. Ma a tutto ciò, soprattutto si aggiunge un vero e proprio pregiudizio epistemologico: la scelta architettonica e urbanistica che privilegia la linea retta e le forme geometriche nette sarebbe in accordo con una compiuta realizzazione dell’identità umana, o almeno dell’uomo moderno, mentre le linee curve sarebbero proprie del mondo animale, e quindi retaggi del passato. In questo senso si privilegia una rottura non solo e non tanto col passato, ma anche e soprattutto con la natura nel suo complesso, dato che — è stato osservato — in natura linee rette fondamentalmente non esistono.

Ora, per quanto Le Corbusier e i modernisti a lui affini del ventesimo secolo abbiano enfatizzato l’atteggiamento di rottura delle loro posizioni, bisogna anche dire che per molti aspetti esse si inseriscono in un filone scientifico e filosofico assolutamente presente, e forse dominante, in tutti i secoli dell’età moderna, che consiste nella svalutazione e nella marginalizzazione dei corpi e che — ancora più profondamente — dipende in sostanza da un atteggiamento cognitivo che privilegia unilateralmente l’astratto a scapito del concreto, il generale a scapito del particolare. Il già citato Iain McGilchrist (2009; 2021) ha avuto il grande merito di estendere le tradizionali indagini di filosofia e di storia della scienza e di interrogarsi sulle radici e sulle conseguenze neurologiche delle visioni del mondo moderne. A suo parere — e a me questa opinione suona molto persuasiva — i secoli dell’età moderna sono caratterizzati da un progressivo squilibrio fra le due diverse forme di cognizione incarnate nei due emisferi cerebrali, per cui l’emisfero sinistro — deputato appunto all’astrazione e alla generalizzazione — ha preso unilateralmente il sopravvento sull’emisfero destro — deputato alla particolarizzazione e alla contestualizzazione. Si è così creato un circolo perverso per cui un tale sostrato neurologico ha prodotto attività umane altrettanto squilibrate, e tali attività umane squilibrate hanno a loro volta rafforzato il loro sostrato neurologico.

In questo modo, nelle politiche urbane prevalenti nella seconda metà del ventesimo secolo, colui che cammina — il pedone o, più specificamente, il suo approfondimento cognitivo che è il flâneur — non solo viene considerato retaggio del passato, ma viene anche visto con sospetto, quale potenziale rivoluzionario, in quanto non conforme agli schemi neurocognitivi prevalenti, non riducibile a un’idea di esperienza irregimentata e controllata dall’alto. Soprattutto, il movimento non rigidamente finalizzato del pedone e del flâneur è aperto a un’idea di esperienza serendipica, relazionale, a quella fitta rete di incontri casuali lungo il percorso che sono sempre stati alla base dell’innovazione culturale delle città, alimentata da un groviglio parzialmente caotico di diversità. In questo senso il camminare e i giochi spontanei dei bambini si danno la mano, delineando un fronte di resistenza che deve essere individuato e consolidato per tentare di porre rimedio agli squilibri neurocognitivi della modernità.

Due prospettive, per finire. La prima, molto generale, equivale a ribadire che il modo di vivere, costruire e gestire la città (o, ancora più in generale, il modo di vivere, costruire e gestire ogni territorio abitato) può avere influenze decisive nel nostro modo di vedere il mondo e, sperabilmente, le possibili riconquiste in questo ambito possono aprire nuove forme di possibilità anche alle nostre forme di cognizione. La seconda, più specifica. Oggi si inizia ad accumulare una letteratura sugli impatti dell’esercizio del camminare su questa o quella funzione, su questa o quella area cerebrale localizzata. Vi è qualche possibilità di indagine sulla possibile influenza dell’esercizio del camminare su una reintegrazione fra i due emisferi cerebrali? Questo è un invito, per chiunque, a una ricerca grafica e naturalmente, per gli specialisti, anche all’eventuale apertura di una nuova linea di investigazione.

VA: cari amici, direi che con questa nostra passeggiata, e con la sideralità di questa riflessione, possiamo dire di aver definito un inizio, i primi passi e al contempo il sentiero del nostro cammino verso il corpo, e verso la performance. Vi ringrazio per questa opportunità di confronto e di avvicinamento al desiderio, promettiamo di ritrovarci per fare ancora un po’ di strada insieme.

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1 Dipartimento di Scienze Umane, Filosofiche e della Formazione, Università di Salerno.

2 Dipartimento di Scienze umane e sociali, Università di Bergamo.

3 Dipartimento di Scienze umane e sociali, Università di Bergamo.

4 Dipartimento di Scienze Umane, Filosofiche e della Formazione, Università di Salerno.

5 Dipartimento di Scienze umane e sociali, Università di Bergamo.

6 Dipartimento di Scienze umane e sociali, Università di Bergamo.

7 In un’idea Aristotelica dell’azione, come volontà e impulso razionale in direzione di un bene, dove tutte le azioni devono compiersi, necessariamente e senza eccezioni, per sette cause: per caso, per natura, per costrizione, per abitudine, per ragionamento, per ira, e per desiderio. (Rhetorica (1369a, line 5 (3-7))

8 Farhenheit 451 e, mi sia consentito per amore di Truffaut, lo straordinario film omonimo.

9 Per un inquadramento generale si veda anche Benini (2020).

10 Sono consapevole che al solo citare la parola «tram» Gianluca (GB) si attiverà. Lui cita sempre la scomparsa e ricomparsa (in alcune città virtuose) dei tram come sintomo della civiltà della mobilità e di futuro sostenibile della città stessa (tra parentesi: io adoro i tram).

11 Phi, noto anche come la proporzione aurea, è rappresentato da un numero irrazionale, convenzionalmente indicato come 1,618033…, derivante dal rapporto tra due lunghezze in cui la maggiore (a) costituisce il medio proporzionale tra la minore (b) e la somma delle due (a + b). Questo rapporto è caratterizzato dalla sua capacità di rappresentare una simmetria perfetta all’interno di una configurazione apparentemente asimmetrica. Benché si eviti un’analisi matematica dettagliata in questo contesto, è rilevante evidenziare la prevalenza di tale proporzione in natura e il suo riconoscimento come ideale di bellezza e armonia sin dall’epoca dei Greci, passando per Babilonesi ed Egizi. In ambito architettonico, esempi illustri includono il Partenone, il cui frontespizio forma un rettangolo aureo, e la Piramide di Cheope, dove la proporzione aurea è visibile nel rapporto tra l’emilato e l’altezza della facciata rettangolare. Analogamente, Leonardo da Vinci ha applicato proporzioni basate sulla proporzione aurea nei suoi studi antropometrici.

12 Confesso che, nonostante il drammatico peggioramento della qualità degli articoli dei quotidiani, ultimamente gradisco — direi mi stimolano — di più articoli di alcune firme eccellenti in varie lingue che non molti articoli su riviste scientifiche, oramai obbligati a condividere stili e contenuti schiacciati sulle esigenze dei valutatori.

13 Per un approfondimento si indirizza il lettore alla recente riflessione dell’Accademia della Crusca https://accademiadellacrusca.it/it/consulenza/intorno-alla-performance/863 (consultato il 10 luglio 2024).

14 «Egoistiche», ovvero finalizzate all’attività motoria in sé (jogging, brisk walking, fitness, sport in genere) e «altruistiche», in quanto sostitutive di altre modalità di spostamento soprattutto urbano (camminare, andare in bicicletta anziché usare mezzi a motore o modalità intermedie che prevedono il trasporto pubblico) (Borgogni, 2020).

15 Paradigmatiche, al proposito, sono ad esempio le ricerche di Ansermet e Magistretti (2004).

Vol. 1, Issue 1, July 2024

 

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