Vol. 1, n. 1, luglio 2024 — pp. 5-22

EDITORIALI

Homo posthumanus. L’uomo oltre il corpo

Se l’era moderna si apre secondo Foucault (2006) con la scoperta del corpo e con la consapevolezza dell’uomo di poterlo possedere, modificare, adattare, curare, i recenti sviluppi della tecnica e del complesso processo di trasformazione culturale e sociale che chiamiamo postumanesimo stanno proiettando il corpo in una dimensione dell’esistenza mai esplorata in precedenza: l’uomo sembra oggi impegnato in un processo di trasformazione e d’ibridazione della propria identità che s’intreccia con la costruzione di nuove forme sociali e, dunque, di una nuova società.

Dalla scoperta del corpo, il cammino verso un tentativo di allontanarsi da esso come un dato di natura per poter costruire un corpo culturale — non più soggetto alle sole leggi della natura, al suo metabolismo, alla malattia, ai limiti imposti dalla capacità umane, ecc. — è stato intrapreso dalle società umane con convinzione e determinazione. E il postumanesimo sembra aver dato un impulso profondo a questo cammino, tanto che è proprio su questo versante che possiamo provare a situare la prerogativa principale di quest’epoca: se c’è un tratto distintivo che contraddistingue questo complesso processo sociale che racchiudiamo nell’idea del postumano lo troviamo, infatti, proprio nel progressivo allontanamento dell’uomo dalla condizione di corpo naturale, per proseguire il percorso di emancipazione dalla natura, financo di un suo superamento, verso lo sviluppo di un corpo completamente culturale.

Se prima della scoperta del corpo, l’uomo viveva dentro di esso, in un rapporto simbiotico, la fase successiva ha visto una sorta di bilocazione, di differenziazione dal corpo, tanto che la riflessione occidentale che ne è conseguita ha permesso — quasi preteso — la definizione di una distinzione tra corpo e spirito, con quest’ultimo che è stato in seguito secolarizzato con il concetto di mente. Il corpo è diventato, a seconda delle prospettive culturali e ontologiche, un’ancora per lo spirito/mente, un involucro, un oggetto di studio, uno strumento di lavoro, ecc. Un’ambivalenza tra natura e cultura, tra il corpo per come è e il corpo per come potrebbe/dovrebbe essere, che fu risolta con un forte dualismo, con una biforcazione, che lungamente ha influenzato la cultura occidentale e che solo la fenomenologia, da Husserl in poi, ha saputo ricucire, riavvicinando l’individuo, o per meglio dire la soggettività/individualità, al corpo.

Ma il ricongiungimento ad opera della fenomenologia si è rivelato solo transitorio, per effetto di un nuovo dualismo riproposto dal postumano con cui, ancora una volta, il rapporto con il corpo è stato profondamente rivisitato.1 Dopo la fase di scoperta del corpo della modernità, a cui ha fatto seguito la fase di separazione da esso tutta tipica del periodo della ragione e della scienza, seguita da quella del ricongiungimento, del monismo, che è stato possibile grazie all’impegno della fenomenologia, la fase che si è oggi aperta è quella dell’allontanamento. L’uomo non vuole più essere un corpo naturale a cui attribuisce una cultura ma intende (pretende?) di uscire dal corpo naturale per poter costruire nuove forme di corpo, che piegano la natura al proprio interesse e alle proprie prospettive culturali. Il corpo può essere oggi modellato, riparato, adattato, trasformato, digitalizzato, finanche sostituito (anche se, al momento, solo in forma virtuale). Diventa un oggetto di cui si può disporre a proprio interesse e, laddove non ritenuto necessario, di cui se ne può fare persino a meno per comunicare, lavorare, entrare in relazione, ecc.

La tecnologia si sta progressivamente sostituendo alle funzioni che in passato erano completamente deputate alla carnalità dell’essere umano. E in questo scenario, sembrano intravedersi in maniera abbastanza distinta i prodomi del celebre esperimento mentale del cervello in una vasca, proposto da Hilary Putnam, in cui s’immagina uno scienziato folle che estrae il cervello dal corpo di una persona, immergendolo in una vasca di liquido nutritivo e connettendolo attraverso dei cavi a un super computer capace di fornire impulsi elettrici identici a quelli ricevuti da un cervello normale. In questo scenario, il cervello vivrebbe in una realtà completamente simulata, indistinguibile dalla realtà oggettiva. Esperirebbe sensazioni, emozioni e pensieri come se stesse vivendo una vita normale, ma queste esperienze non sarebbero collegate ad alcun evento o oggetto reale. Sarebbe come vivere in una realtà perfettamente elaborata, orchestrata e coordinata dal computer.

Questo esperimento mentale, fin da quanto è stato ideato, ha permesso di riflettere sui limiti della nostra conoscenza e sulla natura della realtà. E se finora, a parte nei racconti distopici, nessuno avrebbe concretamente ritenuto possibile una tale situazione, probabilmente, nello scenario postumano in cui siamo oggi immersi non siamo poi così distanti dalla possibilità tecnica di poterlo realizzare concretamente. O comunque, sembrerebbe una situazione abbastanza plausibile: prospettiva per certi versi inquietante che richiede enorme attenzione sugli effetti di questo tentativo di allontanamento dalla carnalità.

Ma con il postumano si aprono spunti di riflessione anche al di fuori del solo sapere scientifico. Infatti, non deve sorprendere se con la messa in discussione della centralità esistenziale del corpo, con la rivisitazione dei vincoli naturali connessi con la carnalità tutta tipica dell’uomo, stiano oggi emergendo temi e questioni che tanta attenzione destano nelle moderne società. Del resto, se posso allontanarmi dal corpo, perché devo sottostare ai limiti e ai vincoli ad esso sottesi? Perché continuare ad accettare usi, costumi, regole, leggi, ecc. che sembrano ancorate a una concezione di corpo che parrebbe non avere più ragione di esistere? È stato proprio questo tentativo di uscita dal corpo che ha fatto emergere in tutta la loro forza le questioni di genere, di fine vita, del rapporto tra corpo e identità, del rapporto tra il corpo individuale, ciò che mi appartiene, e del corpo collettivo, ciò che invece appartiene alla società. Se il corpo è messo in discussione, tutto ciò che lo riguarda viene incluso in questa rivisitazione. E quindi oggi la società è chiamata a riflettere su queste questioni e a trovare delle risposte adeguate allo stato dei tempi.

Ma c’è un altro aspetto che si lega indissolubilmente al postumanesimo e a queste riflessioni: si tratta del concetto di accelerazione sociale. Tema che la sociologia ha introdotto proprio a voler rimarcare come nei tempi recenti non stiano cambiando le dinamiche sociali che da sempre contraddistinguono il genere umano — o, comunque, lo stiano facendo solo in parte rispetto al passato —, quanto piuttosto è andata a variare la velocità attraverso cui tali dinamiche si dispiegano. Tutto è più rapido — le relazioni, la comunicazione, l’apprendimento, lo sviluppo, ecc. — e nulla si ferma, ma mantiene una costante tendenza al movimento e al cambiamento. Tutto ha senso nella misura in cui è in grado di mantenere il passo con questa dinamicità: ciò che risulta lento al cambiamento sembra inesorabilmente segnare il passo. Da una società fluida ci siamo spostati verso una società in accelerazione, il cui principale propellente è proprio la tecnologia. Essa da impulso a questo costante dinamismo. E in questa dinamicità il corpo carnale, che ha esattamente la funzione di radicare, di saldare l’individuo alla sua posizione nel mondo, il corpo con il suo peso, con la sua presenza tangibile, con la sua sostenibile pesantezza, con i suoi tempi di cambiamento, con le sue fasi di stasi o di regressione sembra manifestare tutta la sua inadeguatezza alla dinamicità dei cambiamenti attesi in questa fase. E quindi, l’ideale classico dell’uomo, che simboleggia «la misura di tutte le cose», «che dà i tempi dello sviluppo e del cambiamento» e che ha rappresentato l’essenza della dottrina dell’Umanesimo, è oggetto di contestazione, in contrasto con un’idea di società — e quindi di individuo — che non può attendere, non deve fermarsi, ma deve costantemente mantenere un dinamico cambiamento.

La mancanza di specializzazioni naturali e l’assenza di uno specifico corredo biologico, non ha mai concesso all’uomo un ambiente adatto, ma piuttosto lo ha indotto a costruire i propri ambienti, attraverso lo sviluppo della tecnica. Con la forza del corpo e con lo sviluppo di strumenti che hanno amplificato le proprie capacità, l’uomo è andato oltre le penurie, e contrariamente a qualsiasi altra specie, non si è adattato all’ambiente ma bensì lo ha adattato alle proprie necessità. Con il suo operare tecnico, ci dice Heidegger (1978), in assenza di un mondo preordinato adatto a sé stesso, ha modellato e costruito un ambiente in cui poter vivere. E tutto questo è stato possibile grazie al corpo e alle estensioni di cui si è dotato. Attraverso la costruzione di strumenti tecnici, vere e proprie copie ingrandite delle funzioni che l’uomo può svolgere, ha instaurato un rapporto tra corpo — amplificato dalla tecnica — e mondo, secondo un modello antropocentrico, in cui il mondo stesso è stato plasmato a propria immagine e somiglianza, adattato alle necessità. In questo modo, l’uomo ha avuto la possibilità di trasferire nel corpo la sua relazione con il mondo (Galimberti, 2023), facendosi strumento per la creazione.

Il successivo sviluppo della tecnica moderna ha permesso all’uomo di poter fare un salto ulteriore. Dopo essere stato il modellatore del proprio ambiente, oggi è diventato il demiurgo creatore di nuove realtà virtuali e tecnologiche, mondi che non vengono adattati alle proprie esigenze — come capita per il mondo «reale» — ma che invece vengono progettati a propria immagine e somiglianza, partendo dal «nulla», da un principio creatore. E questo è stato possibile attraverso l’innovazione tecnica che va sotto il nome di tecnologia, la quale ha permesso un ulteriore passaggio evolutivo. Dal corpo amplificato della prima fase di sviluppo e di applicazione della tecnica si è passati a un corpo ibrido, a un ipercorpo, un’esistenza carnale che s’integra con un’esistenza digitale, in cui il corpo si trasforma in nuove forme esistenziali che non solo sono in grado di modellare il mondo, ma possono giungere a trascenderlo.

Ma trascendendo la relazione tra corpo e mondo ci si avvia verso un cambiamento della stessa natura umana. E su questa prospettiva s’inserisce la visione postumanista2 e l’anticipazione di un’esistenza che va oltre i confini naturali, o per meglio dire corporei, dell’uomo. Va oltre la sua capacità di movimento, di adattamento ai cambiamenti connessi con la sua stessa opera. Perché con il progresso della tecnica combinato con l’accelerazione sociale e l’evoluzione delle tecnologie informatiche, biologiche e bioinformatiche si è ravvisata la necessità di un superamento di quel supporto che da sempre ha costituito l’uomo, e cioè di quel corpo fatto di carne e ossa, di sue leggi, di suoi tempi, di sue regole, di suoi limiti, anticipando in questo modo la venuta di una possibile dimensione esistenziale ibrida, finanche disincarnata, in cui l’uomo è libero di accelerare liberamente, senza i vincoli della sua carnalità.

Con il postumano si vanno, forse, delineando i prodomi di una nuova specie umana destinata a superare quella attuale, segnando un solco nella storia evolutiva dell’Homo Sapiens, il quale, paradossalmente, si troverebbe ad essere scalzato proprio per effetto della sua stessa mano, come conseguenza della tecnica che lo ha reso la specie dominante sulla terra. In questa visione postumanista, con la venuta dell’Homo posthumanus, il progresso scientifico postulato e sviluppato dall’Homo sapiens, si propone di raggiungere nuove dimensioni oltre i confini naturali dell’uomo, di modificare lo sviluppo dell’umanità futura, di orientarlo verso la creazione d’individui ibridi con nuove capacità fisiche e cognitive. Un uomo capace di vivere in più mondi — il tangibile e il virtuale — e di gestire un’esistenza ibrida, di trascendere sé stesso.

La prospettiva di trovarsi sul limitare di un nuovo salto di specie è tanto affascinante quanto inquietante. Gli interrogativi, come accade per ogni passaggio cruciale nella storia, sono molti. L’uomo trarrà vantaggio da questa trasformazione assumendo nuove peculiarità e capacità, come sconfiggere l’invecchiamento e migliorare le proprie condizioni di salute se compromesse, oppure finirà per annichilire sé stesso? L’Homo posthumanus rappresenta un’evoluzione dell’Homo sapiens oppure la sua fine? L’uomo si congiungerà definitivamente con la tecnologia, in una fusione a livello biologico, e quindi perderà la propria unicità in quanto essere incarnato? Le società saranno in grado di gestire questo duplice processo di superamento e di accelerazione? Domande che oggi rimango in sospeso e che richiamano attenzione e interesse. L’umanità ha creato una tecnologia capace di adattarsi al corpo, modificandolo per sempre. Essa oggi non rappresenta più solo un mezzo di miglioramento delle condizioni di vita e del benessere generale, uno strumento attraverso cui adattare il mondo ma diventa parte stessa dell’uomo. La tecnologia si sta facendo uomo, e l’uomo tecnologia: entrambi si apprestano a mutare, a cambiare, a divergere dai tratti essenziali e unici che finora li avevano caratterizzati. Alla fine del postumano avremo un nuovo corpo e una nuova società. E in attesa di poter conoscere gli esiti di questo passaggio, trovandoci ora in una fase di transizione, è necessaria una rivisitazione critica di tutte le categorie d’analisi che riguardano l’Homo posthumanus. Tutte le scienze, dunque, sono chiamate a scrutare e narrare i mutamenti in corso, fornendo chiavi di lettura e interpretazioni fondamentali su tali trasformazioni.

Simone Digennaro

Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale

Bibliografia

Digennaro (2021), Non sanno neanche fare la capovolta. Il corpo dei giovani e i loro disagi, Trento, Erickson.

Foucault M. (2006), Utopie. Eteropie, Napoli, Cronopio.

Galimberti U. (2023), Psiche e Techne. L’uomo nell’età della tecnica, Milano, Feltrinelli.

Heidegger M. (1978), Essere e tempo, Torino, UTET

Pepperel R., The posthuman manifesto. To understand how the world is changing is to change the world.

Corpo e sport fra identità e metamorfosi

Le origini: co-evoluzione e civilizzazione

La stagione più recente della modernità — che la si chiami postmodernità, ipermodernità o in qualunque altro modo — consegna agli studiosi del corpo e dello sport una domanda intrigante. O meglio: insinua un dubbio. È proprio vero che la rivoluzione tecnologica ci affranca dalla natura? Si sta avverando la profezia cartesiana che assegnava all’umanità il compito di possedere e governare la natura? Le società umane si sono davvero emancipate dagli infiniti sottosistemi particolari che abitano il pianeta? Viviamo in un solo sconfinato ecosistema globale che la scienza e la sua ancella, la tecnologia, ci consentono di dominare? Sono le domande che interrogano la nostra era, quella dell’antropocene: sistema descritto come organico e capace di autoregolarsi, ma pur sempre dominato da quella relazione irrisolta fra storia umana e storia naturale che, in mancanza di meglio, chiamiamo complessità. Misurarsi con la complessità, senza possedere gli strumenti per governarla e neppure per spiegarla, consuma però l’illusione delle «magnifiche sorti e progressive» e con essa le certezze che associamo alla nostra stessa identità. L’ansia sociale che ne discende esige allora di modificare la prospettiva muovendo dalla constatazione che non c’è stata una sola «umanità». Le infinite metamorfosi che la specie ha conosciuto, sin dai primordi della cosiddetta civilizzazione, ci hanno infatti imposto di governare la concretezza della vita sociale non solo adattandoci alla complessità sul terreno fenomenologico, ma anche imparando a percepire le diversità come risorse. Discende da qui l’idea di educazione — nell’accezione originaria di paideia — intesa come processo essenziale a governare il divenire storico e non solo a favorire l’adattamento biologico della specie all’ambiente naturale. Nessuna forma di reductio ad unum è consentita: va rimossa la scissione/opposizione fra mente e corpo che aveva nutrito lo spiritualismo ma ciò impone di interrogare incessantemente e con strumenti sempre aggiornati la «condizione umana». Formula anch’essa vaga e astratta se non l’associamo al processo che l’ha prodotta e che la ricerca antropologica chiama co-evoluzione. La nostra cultura, insomma, non può fare astrazione dalla nostra natura e proprio l’invenzione dello sport offre un caso esemplare di civilizzazione. L’espressione, nella sua accezione storico-filosofica, contrassegna una relazione fra natura e cultura che, pur qualche approssimazione, ci è possibile situare nel tempo e nello spazio al crocevia fra eredità ancestrali della specie, narrazioni simboliche e innovazioni scientifiche e culturali. Lo sport è stato perciò descritto come l’ultima Grande Narrazione sopravvissuta alla fine delle Grandi Narrazioni e persino come una forma di filosofia non verbalizzata che avrebbe temporalmente preceduto il pensiero speculativo.3 Di certo siamo in presenza di un fenomeno non riducibile alla sommatoria di varie competenze strumentali. Queste ultime, prodotto della scienza applicata — si pensi alla ricerca biomedica, fisiologica, psicologica e quant’altro —, non possono elaborare un’adeguata produzione di senso di un fenomeno tanto multiforme, articolato e cangiante. È invece fondamentale il contributo delle cosiddette scienze umane e segnatamente dalle tre discipline classiche (storia, economia e diritto) e dalle tre gemmate dalla rivoluzione epistemologica del Novecento: la sociologia, l’antropologia culturale e la psicologia sociale. Saperi e linguaggi obbligati a contaminarsi perché lo sport — che è insieme gioco, passione, mercato, tecnica, spettacolo, pedagogia, invenzione e quant’altro — rappresenta un fenomeno del tutto originale, unitario e al tempo stesso poliedrico e polisemico. La varietà e la molteplicità delle pratiche (agonistiche e non solo) compongono altrettanti idiomi della corporeità che andranno decifrati con l’impiego sinergico di competenze diverse. Le attività che privilegiano la prestazione si concentrano su obiettivi funzionali come il risultato tecnico.4 Altre pratiche perseguono principalmente l’efficienza fisica e il benessere psicologico configurandosi come un impareggiabile laboratorio per la qualità della vita.

Il giro più lungo

La crescente varietà morfologica delle discipline — da quelle di alta competizione alla felice eresia dello sport «per tutti e a misura di ciascuno», dalle attività in ambiente naturale alla motoristica sino ai cosiddetti sport della mente — è un esempio di come possano convivere entro un solo metaforico contenitore esperienze diverse e tuttavia capaci di interagire. Un caso probabilmente inimitabile di multidisciplinarità che genera interdisciplinarità senza con ciò cancellare differenze e contraddizioni. Non ci serve tuttavia celebrare in forma agiografica le virtù dello sport senza osservare l’altra faccia della Luna. L’etnografo francese Philippe Descola, allievo di Claude Lévi-Strauss e al tempo stesso attento alla classica analisi dell’homo ludens proposta da Johan Huizinga, identifica lo sportivo come la figura idealtipica della tarda modernità (Descola, 2004, 2021; Huizinga, 2021). In proposito, Descola descrive in Oltre natura e cultura il caso esemplare di una popolazione dell’Alta Amazzonia: gli achuar. Analizzandone la vita quotidiana, osserva come le donne considerino le piante veri e propri membri della famiglia al punto di chiamarle bambini. Gli uomini, a loro volta, rispettano le prede come parenti acquisiti: l’animale cacciato prende il nome di cognato. Per queste popolazioni, insomma, la natura rappresenta insieme un fatto domestico e rassicurante, ma anche un fatto sociale nell’accezione durkheimiana del termine. Nessuna distinzione viene istituita fra creature umane e non umane. La stessa cosmologia istituisce una relazione con la natura impensabile per una mente occidentale, ma in coerenza con una religiosità che ignora la distinzione — cruciale per tutti i monoteismi — fra sacro e profano e fra immanente e trascendente. Gli achuar, inoltre, non dispongono di alcuna parola che traduca vocaboli come persona o individuo. Uno stesso termine può designare non solo gli umani ma anche animali, piante o spiriti. Questa digressione etnografica serve a Descola per confermare come il dualismo natura-cultura, elaborato dalle società «sviluppate» nel corso della civilizzazione, risponda a ragioni puramente ideologiche e non universalmente condivise. La nostra visione del mondo risponderebbe dunque a una filosofia a suo modo imperialistica, bisognosa di relegare le culture diverse o non (ancora) omologate negli anfratti di un remoto passato, come i residui e le derivazioni descritti già nel 1916 da Pareto nel suo Trattato di sociologia generale. Anche quando ci occupiamo di sport dovremmo dunque avere la pazienza e l’umiltà di fare ciò che l’antropologo Clyde Kluckhohn ha chiamato il giro più lungo (Kluckhohn, 1963; Remotti, 2009). La metafora, ripresa da Remotti e dallo stesso Descola, allude all’esigenza di definire ogni cultura umana «perimetrandone» i sistemi di relazione. I quali, come nel caso degli achuar, e contrariamente a quanto si è indotti a credere, sono assai più intricati e complessi di quelli delle società tecnicamente sviluppate. Dobbiamo insomma sforzarci di cogliere per questa via forme di pensiero estranee a quella occidentale e alla sua sistematicità logica. I cosiddetti primitivi, del resto, non pretendono di spiegare il mondo. Si accontentano di convivervi inventando fantasiose narrazioni delle relazioni fra esseri umani e non umani e producendo saperi pratici che non aspirano a farsi scienza nella nostra accezione del termine.

Le quattro ontologie del corpo

L’approccio etnografico situa le pratiche del corpo entro quelle che la filosofia classica chiamava ontologie.5 Descola ne descrive quattro: animismo, totemismo, analogismo e naturalismo. Le pratiche del corpo che rendono possibile la competizione possono ricadere in una o più di esse, ma solo facendo il giro più lungo possiamo percepire la varietà delle culture della corporeità o quanto meno intuirne i significati (manifesti e latenti). Quanto allo sport occidentale, Descola non esita ad associarlo al naturalismo. Esso rappresenterebbe infatti il prodotto dell’idea, propria della modernità occidentale, che la natura possa essere non solo trasformata dalla tecnica, ma asservita ad essa. L’archetipo dell’uomo-macchina trova a sua volta una perfetta esemplificazione nell’icona dell’atleta.6 Quello della corporeità regolata in funzione della competizione costituisce, peraltro, un vero e proprio modello cognitivo, capace di suscitare emozioni e forme di identificazione sia inventando pratiche inedite sia preservando attività ludiche e/o competitive minacciate di estinzione.7 La stessa scienza economica considera lo sport come un territorio in larga misura dominato dal profitto e dall’etica del capitalismo sebbene non privo di importanti peculiarità. La sua «merce», ad esempio, è il prodotto immateriale della passione di praticanti e tifosi ma dà vita, allo stesso tempo, a un sistema di interessi materiali di dimensioni planetarie. Anche il diritto si è dovuto misurare con la necessità di uniformare e validare via via procedure, regolamenti, criteri di premio, sanzione e controllo. Con la sfida dello sport si sono misurate, infine, le tre scienze sociali gemmate dalla tarda modernità. Mi riferisco alla psicologia sociale, impegnata a indagare i sistemi motivazionali che presiedono all’attività sportiva in contesti tanto diversi valendosi del contributo, altrettanto prezioso, dell’antropologia culturale. La sociologia, chiamata a mettere ordine nell’intricato panorama delle attività sportive e fisico-motorie, si sforza invece di approntare e aggiornare strumenti in grado di interpretare un fenomeno esemplare della globalizzazione e insieme delle sue contraddizioni. Conseguentemente, pare poco produttivo indugiare sulla vasta casistica che attiene al genere, se tale vogliamo considerarlo (caratteri strutturali, morfologia tematica, idealtipi e categorie, varianti nazionali, ecc.). La ricerca sociale ha invece necessità di tornare a interrogarsi su quella identità figurazionale del fenomeno che era già stata oggetto delle ricerche pionieristiche di Norbert Elias e poi di Eric Dunning e della cosiddetta Scuola di Leicester. Parliamo di un’analisi di processo che ha individuato, nella cangiante fisionomia del fenomeno sportivo, un’importante chiave di lettura della civilizzazione occidentale e un efficace sensore dell’incipiente postmodernità. Questo approccio ha emancipato la ricerca dalla lettura, stimolante ma riduttiva, che ne aveva offerto Thorstein Veblen alla fine del XIX secolo (Veblen, 2007). La scuola figurazionale ha infatti mostrato con rigore storiografico come lo sport, fenomeno esemplare della nostra modernità, affondi tuttavia radici profonde in società lontane nel tempo. Non poteva perciò essere ridotto a un semplice esempio dello sciupio vistoso (il consumo del tempo libero, gli hobby) descritto da Veblen. Per Elias lo sport rappresenta piuttosto un grandioso tentativo di civilizzare il conflitto che ha ispirato una Grande Narrazione. Muovendo dai cruenti giochi del circo romano essa arriva a comprendere le pratiche cavalleresche medievali e, più tardi, l’intero caleidoscopio dell’agonismo civilizzato e mediatizzato della tarda modernità. Per approdare infine alla pacifica rivoluzione culturale dello sport di cittadinanza.

Per una sociologia di processo

Una sociologia di processo aiuta a cogliere meglio alcuni tratti essenziali alla comprensione dello sport contemporaneo. Per un verso, infatti, lo sottrae alla tradizionale dicotomia lavoro-loisir: il sistema sportivo costituisce un caleidoscopio in cui non è facile tracciare rigorose linee di confine. Per un altro genera, o ridefinisce, costrutti salienti della modernità industriale come quello di record facendone un autentico significante della cultura produttivistica. Le pratiche agonistiche dell’antichità si accontentavano infatti di stabilire un vincitore: le corse lo individuavano con tutta evidenza mentre, nelle prove di lancio o di salto, erano sufficienti misurazioni provvisorie e spesso approssimative. Al contrario, in corrispondenza con gli sviluppi delle tecnologie industriali, la tarda modernità ha trasformato la misurazione delle prestazioni in una sorta di ossessione quantofrenica. Accade così che, in discipline come le prove di velocità sulla neve o sul ghiaccio, i tempi si calcolino sino ai centesimi o addirittura ai millesimi di secondo. Misure che la nostra corteccia somatosensoriale non è in grado di percepire ma che possono decidere il risultato di una finale olimpica di bob. Un record, inoltre, può essere battuto nell’arco di pochi minuti ma non per questo viene cancellato. Pare, insomma, che rappresenti quel surrogato di immortalità di cui la tarda modernità ha evidentemente bisogno. Nel caso di competizioni ginniche, di pratiche di combattimento o simili, a immortalare il vincitore attraverso un risultato tecnicamente incontestabile è di necessità una giuria. Quest’ultima deve però fornire una legittimazione procedurale della propria decisione, osservando criteri rigorosi e calcolando le preferenze assegnate ai singoli atleti da giurati specializzati. La solennità appartiene insomma al record perché esso costituisce, a suo modo, un surrogato di immortalità o un placebo esistenziale per la società del rischio descritta da Ulrich Beck. La globalizzazione, come già i traffici commerciali, il colonialismo e i sistemi di consumo, hanno moltiplicato a dismisura prestiti, scambi, tipologie culturali e stili di fruizione. In qualche caso — si pensi ai cosiddetti sport orientali — abbiamo importato e riadattato pratiche elaborate in tempi e contesti lontani. Le abbiamo persino, per qualche aspetto, re-inventate a nostra misura facendo convivere antiche specialità aristocratiche con attività popolari, pratiche ipersofisticate con retaggi culturali remoti. Decisiva è stata, sotto questo profilo, quella simbiosi istituitasi via via fra sport spettacolo e media che ha dato forma a un sistema globale differenziato per tipologie di consumo e di utenza (radiofonica, cinematografica, televisiva e infine digitale). Anche l’originaria reiterazione di un gesto arcaico — come il correre, il saltare, il nuotare o il lanciare — è stato così via via disciplinata in codici, regole del gioco, imperativi tecnici. Per descrivere l’esito, necessariamente provvisorio, di queste dinamiche Pasquale Mallozzi (Di cosa parliamo quando parliamo di sport, 6 giugno 2023) è tornato di recente a evocare l’immagine metaforica della Nave di Teseo. Il fatto è che lo sport riproduce all’infinito un equilibrio incerto fra le ragioni dell’emozione e quelle della regolazione. Difficile perciò fornire una risposta univoca alla reiterata domanda «di cosa parliamo quando parliamo di sport». Ci inoltriamo in territori di frontiera dove trovano spazio gusti estemporanei, narrazioni improvvisate e mode passeggere. Non pochi dubitano della possibilità stessa di considerarlo ancora un fenomeno unitario e qualcuno paventa il rischio che venga via colonizzato dai nuovi media. Ciò costituirebbe, del resto, una beffarda pena del contrappasso se è vero che lo sport ha a sua volta colonizzato tante diverse culture e subculture umane. Pur sottraendoci alla provocazione situazionista di Huizinga, che riconduceva all’etologia il gioco sportivo («anche gli animali giocano»), non possiamo tuttavia ascriverlo unicamente, sic et simpliciter, alla civilizzazione occidentale. Mente infatti gli achuar danno forma a una civiltà ludica attraverso la perfetta identificazione fra sport e gioco, l’occidente ancora saldamente lo sport all’etica weberiana del capitalismo basata sulle categorie di prestazione e misurazione, fair play e risultato, universalismo e simulazione della guerra. Quella occidental-industriale va considerata dunque come una delle possibili configurazioni del fenomeno: quella storicamente vincente, ma non la sola immaginabile. Descola, rilevando come i suoi achuar identifichino competizione e cooperazione, ha probabilmente rintracciato nelle foreste amazzoniche il grado zero del fenomeno. L’impulso competitivo, infatti, non appare assente, ma alla competizione individuale, uno contro uno, si sostituisce la litote di una competizione cooperativa. Essa si produce all’insegna del gioco e non genera gerarchie: non si vince e non si perde. La nostra cultura ne rappresenta la perfetta antitesi. È infatti il prodotto da una storia secolare che ha avuto per esito quella iper-culturalizzazione dello sport che discende dall’identificazione integrale fra un’idea suo modo universalistica di competizione e una del tutto particolaristica. Quello che noi contemporanei intendiamo per sport, ricorda Descola, è stato definito nelle accademie militari britanniche dell’Ottocento. In quella stagione e in quel contesto la pratica agonistica si sarebbe adattata alle ragioni degli imperialismi e dei colonialismi. Lo sport si sarebbe trasformato così in uno strumento di selezione delle élite e di preparazione al mestiere delle armi, nonché in una pedagogia orientata a privilegiare spirito di squadra, attitudine alla leadership, combattività e cameratismo. L’analisi può essere criticata e va sottratta alla tentazione di darle letture ideologiche. Le va però riconosciuto il merito di situare nel tempo e nello spazio le origini del fenomeno, di individuarne un idealtipo storico-sociale e di sollecitare chiavi di lettura interdisciplinari e strumenti di ricerca adeguati all’obiettiva complessità della questione.

Quasi una conclusione

L’opposizione natura-cultura, che ha storicamente fondato la nostra rappresentazione del fenomeno sportivo, ci costringe a percorrere il giro lungo descritto dagli antropologi. L’animismo attribuisce qualità soprannaturali a oggetti e fenomeni naturali, non considera le divinità esseri trascendenti ma attribuisce proprietà spirituali a realtà fisiche. Il totemismo rinvia, come per Freud, all’uccisione simbolica del padre e descrive il senso di colpa come fondamento di una religione totemica che prevede di disciplinare i corpi e generare rituali. L’analogismo ricerca invece somiglianze, echi o ricorrenze che aiutino a preservare e tramandare la memoria attribuendole significati. Ogni ontologia elabora, insomma, una propria idea di corporeità che ha lasciato qualche pallida eco nella nostra rappresentazione del gioco e dello sport. Solo il naturalismo, però, sembra istituire con essa una sintonia significativa. Da inconsapevoli naturalisti, insomma, noi avremmo ideato l’uomo macchina che Le Mettrie aveva descritto già nel Settecento facendone uno strumento funzionalmente specializzato: il corpo del soldato, del lavoratore, il corpo del piacere, come anche le declinazioni metaforiche cui facciamo ricorso (il corpo d’armata, il corpo del reato, ecc.).8 Per questa via l’habitus di Mauss può addirittura conciliarsi con quello descritto da Bourdieu. Lo sport presuppone infatti abilità psicofisiche che possiamo descrivere ma non trasmettere attraverso il linguaggio in mancanza di un’esperienza diretta. Può inoltre rappresentare, allo stesso tempo, la simulazione della guerra e il tentativo di far convivere pacificamente culture diversissime. Lo sportivo può insomma costituire l’ideale homo ludens e il suo corpo diventare esso stesso un possibile campo di gioco, materiale e metaforico. L’etica sportiva, le sue leggende e persino le sue retoriche assolvono insomma una funzione sociale, assai al di là della pura fruizione del tempo libero. La metafora va però interpretata e declinata nel tempo e nello spazio attingendo tanto a uno sterminato repertorio di narrazioni quanto all’analisi delle scienze sociali. In questa ricerca sta il cuore di una riflessione da proseguire: nella indissolubilità cognitiva fra ricerca sociale, storia e narrazione. Hic Rhodus hic salta.

Nicola R. Porro

Già Professore Ordinario in Sociologia, ex Presidente dell’Unione Italiana Sport per Tutti

Bibliografia

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Veblen T. (2007), La teoria della classe agiata, Torino, Einaudi.

Zini P. (2022), Il corpo e lo spettro. Per una critica della modernità digitale, Roma, Donzelli.


1 Su questo punto mi permetto di rinviare al mio testo Non sanno neanche fare la capovolta. Il corpo dei giovani e i loro disagi (Digennaro, 2021).

2 Pepperel Robert, The posthuman manifesto. To understand how the world is changing is to change the world.

3 Sul tema mi permetto di rinviare al mio Lineamenti di sociologia dello sport (Porro, 2011).

4 L’analisi delle «perversioni» del modello (si pensi al doping, al mercato delle scommesse ecc.) merita una trattazione specifica che non è possibile sviluppare in questa sede.

5 La nozione di ontologia («scienza dell’essere in quanto essere») è usata talvolta a sproposito o confusa con quella di epistemologia. Essa descrive l’equilibrio su cui poggiano tanto la nostra realtà quanto la sua possibile rappresentazione mentre l’epistemologia descrive, come ha ben riassunto Maurizio Ferraris, «ciò che sappiamo a proposito di quello che c’è».

6 C’è in questa analisi un’eco evidente delle riflessioni di Marcel Mauss, del suo maestro Emile Durkheim e di Pierre Bourdieu. Di Mauss si possono ricordare in proposito gli studi sulle tecniche del corpo, di Bourdieu l’elaborazione di quella categoria di habitus che ha ispirato molte indagini sulle tematiche del corpo e dello sport (Mauss, 1965). Mauss, in particolare, inaugura una vera e propria epistemologia della corporeità contribuendo, già a metà degli anni Trenta del Novecento, alla nascente ricerca sul simbolismo. Pierre Bourdieu si vale invece della nozione di habitus, inteso non come abitudine bensì come la capacità, attraverso forme implicite di elaborazione delle condotte individuali, di assumere responsabilità, replicare comportamenti e prendere decisioni producendo quello che chiamiamo significato (Bourdieu, 2003; 2013).

7 È il caso di pratiche «tradizionali» che si sforzano, con alterne fortune, di sopravvivere al rischio di essere declassate a fenomeno di folklore o di mera fruizione turistica.

8 Una studiosa bulgara, la Angelova-Ogova, ha addirittura tracciato una cronologia mostrando come in ogni tempo l’ideazione di un corpo macchina sempre più specializzato si sia ispirata a ragioni simboliche coerenti con precise motivazioni ideologiche o funzionali alla loro legittimazione (Angelova-Ogova, 2018).

 

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