Vol. 9, n. 2, ottobre 2023

TEORIE PEDAGOGICHE

Possiamo educare un papuano? Diversità, educazione ed emancipazione nel pensiero di Antonio Labriola

Luca Odini1

Sommario

Benedetto Croce racconta che, durante una lezione, uno studente chiese a Labriola come avrebbe educato un papuano. Labriola rispose che lo avrebbe provvisoriamente ridotto in schiavitù per capire se con i suoi nipoti e pronipoti avrebbe potuto insegnargli qualcosa.

Partendo da questa famosa provocazione sull’educazione del papuano intendiamo inquadrare storicamente l’aneddoto, per cercare di contestualizzarlo e coglierlo all’interno del quadro teorico dell’autore e comprendere se e in che modo possa essere letto come elemento coerente con lo sviluppo del suo pensiero o se si possano cogliere degli elementi di discontinuità.

Parole chiave

Diversità, Emancipazione, Storia della pedagogia, Labriola, Educazione.

PEDAGOGICAL THEORIES

Can We Educate a Papuan? Diversity, Education and Emancipation in Antonio Labriola’s Philosophy

Luca Odini2

Abstract

Benedetto Croce recalls that a student asked Labriola how he would educate a Papuan during a lecture. Labriola replied that he would provisionally enslave him and attempt to educate the Papuan’s grandchildren and great-grandchildren.

Starting from this famous provocation on the education of the Papuan, we intend to historically frame the anecdote to contextualise and clarify it. Considering Labriola’s theoretical framework, we will try to understand whether it can be read as an element coherent with the development of his philosophy or whether it should be read as an element of discontinuity.

Keywords

Diversity, Emancipation, History of Pedagogy, Labriola, Education.

Introduzione

Nelle pagine che seguono cercheremo di inquadrare un famoso aneddoto attribuito a Labriola per comprendere se questo possa essere letto in continuità e coerenza con la sua impostazione teorico-pedagogica, o se costituisca un unicum isolato.

Ciò che a tutti gli effetti stupisce è l’apparente perentorietà di quest’affermazione e l’altrettanto apparente inconciliabilità con diverse sue posizioni teoriche sull’educazione. Cercheremo quindi di chiarire la fonte dell’aneddoto stesso e il contesto nel quale è stato pronunciato per mettere in relazione la probabile datazione dell’aneddoto con i nuclei concettuali di opere coeve e azzardare qualche conclusione.

La fonte

Come sappiamo, l’aneddoto ha come testimone e fonte Croce che racconta: «Come fareste a educare moralmente un papuano? domandò uno di noi scolari, tanti anni fa (credo trent’anni fa), al prof. Labriola, in una delle sue lezioni di pedagogia. Provvisoriamente (rispose con vichiana e hegeliana asprezza l’herbartiano professore), provvisoriamente lo farei schiavo; e questa sarebbe la pedagogia del caso, salvo a vedere se pei suoi nipoti e pronipoti si potrà cominciare ad adoperare qualcosa della pedagogia nostra» (Croce, 1924, pp. 60-61). Ora questo testo, insieme a un’intervista del 1902 al «Giornale d’Italia», è da sempre ritenuto come il manifesto per dimostrare posizioni filocolonialiste di Labriola. A noi interessa comprendere se quest’aneddoto possa essere assimilabile alle posizioni pedagogico/educative di Labriola di quel periodo oppure se ne discosti e perché.

Prima di addentrarci in questi temi dobbiamo evidenziare, almeno preliminarmente, due punti problematici. Il primo riguarda la tipologia della fonte: se è vero che questo testo viene usato, come dicevamo, per dimostrare posizioni filocolonialiste di Labriola, è altrettanto vero che in questo caso si tratta della memoria di un testimone, seppur autorevole, che riporta le parole di Labriola all’interno di un contesto universitario. Quindi, decisamente una fonte di livello diverso rispetto a un lavoro teoretico. Ma su questo ragioneremo in seguito.

In secondo luogo, ci preme notare come si ponga un problema di datazione, nel senso che, se una sorta di malcelato filocolonialismo è presente in altri interventi di Labriola nel periodo marxista, è altrettanto vero che la possibile datazione di questo aneddoto, come fa notare anche Gabella (2022, p. 121), è da attribuire alla metà degli anni Ottanta dell’Ottocento: un periodo quindi ben antecedente agli anni di adesione al marxismo e ai riscontri delle sue prese di posizione filocolonialiste.

La storia, l’educazione e la comunità

Selezionare nuclei concettuali a cui riferirci per dipanare la questione non è cosa semplice. Il tema dell’educazione, infatti, attraversa in modo trasversale vita e pensiero del cassinate, in un percorso che dall’origine e dall’insegnamento del suo maestro Spaventa lo porterà a una fase herbartiana fino allo sbocco nel marxismo. Gli studi a disposizione in grado di mostrare questa evoluzione sono decisamente vari3 e concordemente si individuano come inizio del periodo marxista gli anni Novanta dell’Ottocento. Singolare è anche il fatto che da questo momento non abbiamo sostanzialmente più lavori dell’autore dedicati esplicitamente al mondo dell’educazione.

In ogni caso, per fornire una panoramica il più possibile completa di questi anni di riferimento, possiamo partire da un’opera che era stata immaginata dall’autore come lo studio di apertura di una serie di trattati pedagogici. La composizione di questi testi risale al 1876 e lo studio che prenderemo in considerazione è il Dell’insegnamento della Storia. Questo lavoro ci appare interessante perché mostra come la pedagogia possa costituire un nesso tra quei termini che abbiamo individuato: diversità, educazione ed emancipazione e ci possa fornire un quadro di riferimento per capire l’elaborazione teorica dell’autore in quel periodo.

In termini generali, per Labriola l’educazione «esprime l’idea di un rapporto; non però di rapporto generico di uomo a uomo, in quanto l’uno sia capace di influire di proposito o per accidente su la condizione dell’animo dell’altro, ma sì bene specificato precisamente, così dalla differenza di età e di coltura che corre fra l’educatore e l’educando, come dall’intenzione che è nel primo di spiegare l’attività sua su l’altro, come in obbietto da elaborare» (Labriola, 2014, p. 931).

L’educazione, quindi, riguarda una relazione, un rapporto in cui però si esplicita che l’educatore deve avere «un certo concetto della vita e del mondo» (Labriola, 2014, p. 931) verso cui può indirizzare l’educando. Non si tratta di un rapporto neutro. Si svolge tra due polarità, costituite da una parte dall’educatore, che svolge la sua funzione ponendo inevitabilmente la sua visione del mondo e delle cose, e dall’altra dall’educando.

In questa relazione, però, Labriola sembra essere attento a preservare la libertà dell’educando perché, spiega: «e pure, appunto come ideale, che assume nella mente dell’educatore una certa forma d’interiore evidenza teorica, non si trova in alcuna diretta relazione causale con l’individualità naturale dell’educando; dentro della quale è mestieri accadono più maniere di svolgimenti, perché di lui si faccia una persona capace di uniformarsi liberamente all’ideale stesso». E prosegue ancora: «Il processo educativo non va quindi considerato come una semplice effettuazione causale; e rassomiglia piuttosto a una peculiare maniera di mediazione, i cui caratteri e le cui modalità sono il proprio obbietto della scienza pedagogica» (Labriola, 2014, p. 932). Si evidenzia, in questo testo, il proprium della pratica educativa e incomincia a svilupparsi anche un altro tema altrettanto significativo per il fine che ci siamo proposti, ovvero quello di individuare quale sia la libertà dell’educando e in che termini si debba tutelare e preservare all’interno della relazione.

Labriola identifica come la «materia» educabile di un giovane sia l’animo, e spiega: «animo che non è semplice ricettività, ma naturale individuazione psichica, in via di svolgersi in varie combinazioni di atti intellettivi, volitivi e di sentimento» (Labriola, 2014, p. 932). In questo caso emerge subito un limite della pedagogia, perché specifica: «quali sieno i caratteri di cotesta individuazione, e in quali limiti essa sia capace di formazione interiore, e di quella specialmente che piglia aspetto proprio nella personale autonomia, tocca alla psicologia di venirlo indagando; il che non è detto di una psicologia che si accontenti di raccogliere i disgregati particolari di un grossolano empirismo, ma di quella che si argomenta di poter scovrire col sussidio della speculazione le leggi e le forme di processo della vita interiore» (Labriola, 2014, p. 932).

Se viene però identificato un confine dell’educazione che si individua nella psicologia, appare evidente, al cassinate, come l’orizzonte di vita «pregevole» a cui si vuole che tenda lo spirito dell’educando non possa essere lasciato al caso: «esso ha in vero da essere qualcosa di incondizionalmente valevole, tale cioè che esprima una piena conformazione della persona ai criteri della morale perfezione, che è quello che comunemente dicesi virtù; ossia, per dirla in termini più propri, l’idea dell’attività personale, che sebbene varia nelle esteriori manifestazioni d’intenti e di fini, nel suo nocciolo interiore si rivela come piena e costante adeguazione del volere all’intendimento etico» (Labriola, 2014, p. 932). Ecco dunque individuato il secondo limite dell’azione educativa: l’etica.

Ci troviamo, analizzando l’azione educativa, ad avere due limiti di campo: la psicologia e l’etica: l’educazione, in questo caso, si configura come un «compito che si ha da assolvere» (Labriola, 2014, p. 933) e che si intreccia con l’educando e con la sua libertà. Con l’educando, però, esplicita Labriola, ci si trova di fronte a una contraddizione che espone in questi termini: «per le condizioni peculiari dell’età e della capacità sua va soggetto all’azione educativa, non è ancora uomo maturo, ossia capace di esprimere in pensate operazioni l’intimo suo; e pur noi educandolo ci proponiamo di farne tale un uomo, che la naturale individualità di lui rimanga dignificata dei pregi del valore personale» (Labriola, 2014, p. 933).

Quando l’educando crescerà e sarà educato, potrà, allora, spendersi come meglio crede «secondo che la sua individualità entrerà in uno o in un altro rapporto con l’insieme degl’intrecci di attività che costituiscono il convivere sociale» (Labriola, 2014, p. 933). Interessante è notare come Labriola sostenga che, in quanto educato, il ragazzo dovrà nel contesto della vita sociale «far prevalere nelle decisioni sue gl’interessi ideali, e di difenderli dagl’istinti antimorali ed antisociali, col dar loro sicura e stabile espressione nelle operazioni sue, per quanto queste possano e devano essere varie nel contenuto e nei fini» (Labriola, 2014, p. 933).

Al cassinate appare evidente una contraddizione, in questi termini, e risolvere questa sorta di antinomia sembra essere il vero e proprio fine della pedagogia: «in fatti non si è uomini degni e stimabili, liberi cioè di morale libertà, se non s’entra nella vita che dicesi autonoma già forniti di certe spirituali attitudini, e pure della personalità non si fa uso certo e pieno che nella vita stessa. In che cosa potran consistere le operazioni educative se devono formare per la vita quando questa non si può ancora viverla nella pienezza sua?» (Labriola, 2014, p. 933). Il passaggio dalla giovinezza alla vita adulta, in cui il ragazzo incomincia a decidere autonomamente e a essere consapevole e responsabile delle sue scelte, non è né repentino né semplice. Non si può fissare teoricamente in un momento particolare ma «consiste nel complessivo atteggiarsi delle movenze interiori nella forma precisa delle volizioni coscienti e deliberate» (Labriola, 2014, p. 934).

È però importante analizzare un ultimo punto di quest’opera per lo scopo che ci siamo proposti e segue il nucleo concettuale che stavamo esaminando. Labriola si rende conto che il processo educativo è composto e dipende da diversi elementi e da diverse condizioni, ed è proprio in questa sorta di «generalità rimane a parere mio sufficientemente indicata la possibilità dell’educazione, e il valore proprio dell’istruzione come mezzo educativo» (Labriola, 2014, p. 934). Seguono poi una serie di affermazioni interessanti per l’indagine che ci siamo proposti: «istruire non vuol dire ammaestrare teoricamente circa i possibili casi della vita, né comunicare le massime cui le particolari operazioni devano essere in seguito conformate, né tampoco coartare la volontà a divenire docile istrumento di passiva esecuzione, ma invece adoperarsi perché nello svolgimento interiore, che mette capo alla personale autonomia, prevalgano quegli appunto fra gli elementi della vita spirituale , nei quali si prepara il predominio dell’ideale etico. Le operazioni educative sono adunque indirette, in quanto che non si ha in mira di ottenere per mezzo loro il nudo effetto dell’imitazione, ma sì di promuovere i principi interiori della retta scelta e della retta operazione» (Labriola, 2014, p. 934).

Da quanto si evidenzia dai nuclei teorici di questo scritto che, come dicevamo, nelle intenzioni dell’autore voleva sistematizzare ed esporre i principali nuclei teorici del sapere pedagogico, emerge una spiccata sensibilità non solo dell’analisi dell’atto educativo in sé, ma anche dei risvolti dell’azione educativa che coinvolge sempre anche la collettività e la società, insieme alla singolarità e alla libertà di ogni individuo. Labriola è ben consapevole della delicatezza di questo aspetto e perciò lo tratta con rispetto e profondità, dimostrandosi riguardoso di questo nucleo che attiene alla libera scelta e volontà della persona.

Le conquiste dell’università italiana

Il secondo testo che vogliamo prendere in considerazione per dipanare il problema che ci siamo posti risale al 1896 e curiosamente coinvolge anche Croce. Si tratta, infatti, della prolusione che Labriola tenne per la ripresa delle attività accademiche all’Università La Sapienza di Roma il 14 novembre del 1896. Sappiamo (Labriola, 2014, pp. 214-216) che la stesura del testo avvenne tra il 27 ottobre e l’8 novembre di quell’anno e il discorso non lasciò indifferenti, tanto che l’autore non solo si trovò costretto a confrontarsi con il rettore Semeraro per gestire il problema che aveva sollevato, ma ricevette anche una lettera ufficiale di ammonimento, il 17 dello stesso mese, dal ministro Gianturco (presente durante la lettura della prolusione e contestato dagli studenti), con l’accusa di propaganda socialista e anticlericale e di incitamento agli studenti. Anche la stampa diede risalto all’accaduto contribuendo a riscaldare gli animi (Labriola, 1961, p. 263).

Labriola chiese agli organi accademici di potersi difendere attraverso la pubblicazione dello scritto. Il testo ritornò all’autore con diverse correzioni da parte del consiglio accademico con l’invito a pubblicarlo privatamente assumendosene ogni responsabilità. Le correzioni non furono recepite e il manoscritto fu pubblicato, grazie alla mediazione di Croce (Labriola, 2014, p. 233), come un semplice documento letterario presso la tipografia Veraldi di Napoli alla fine del 1897. In quel frangente, Labriola, confidò a Croce stesso che in caso la discussione avesse minato la sua libertà di esprimersi, anche come docente, sarebbe stato addirittura disposto alle dimissioni (Labriola, 2004, p. 224). Il testo ebbe scarso successo in Italia ma fu ripreso da riviste francesi («Le devenir social», gennaio 1897) e tedesche (Academische Revue, marzo 1897 e Die Zukunft, marzo 1897).

Al netto della sua fortuna a noi interessa perché l’autore si concentra in particolare sulla situazione dell’università italiana evidenziando come tale istituzione, in questo periodo, costituisse un baluardo di diritti e godesse di alcuni elementi di indubbio pregio rispetto al panorama internazionale (Polenghi, 1993, pp. 430-447).

Uno degli elementi che ci preme sottolineare sul tema della diversità riguarda un aspetto che Labriola stesso sottolinea: «da un quarto di secolo già si discute, proprio nella dotta Germania, esemplare a tutto il mondo per la sua attività scientifica, dell’ammettere e del non ammettere agli studii superiori le donne, che non vi furono per anche ammesse» e continua, poco dopo, la sua analisi evidenziando come anche «il governo austriaco decretava di recente non doversi le donne ammettere agli studii superiori, nella qualità di perfetti studenti, e non riconoscersi i titoli che esse ottengano all’estero» (Labriola, 2014, p. 1598). Tutto questo viene spiegato come una «cocciutaggine, che vuol parere etica ed alta coscienza scientifica», nonostante vi siano esempi che dimostrano il contrario sia in Inghilterra che in America.

Stigmatizza poi come fortunatamente, da noi, in Italia, «le donne furono ammesse di pieno diritto all’Università già ventidue anni fa, con un semplice regolamento che non fu mai contestato, nemmeno dai conservatori estremi» (Labriola, 2014, p. 1598) e sottolinea come autore di questo regolamento fosse il ministro Ruggiero Bonghi (1826-1895), che non fu decisamente un estremista rivoluzionario bensì esponente dell’area moderata; parlamentare e Ministro dell’Istruzione Pubblica nel governo Minghetti tra il 1874 e il 1876. Secondo tale regolamento le donne avrebbero potuto accedere liberamente all’Università con il solo vincolo di conseguire il diploma magistrale in una Scuola Normale. Il cassinate conclude quest’osservazione in maniera decisamente sarcastica notando: «che si sappia, la statua della Scienza non ha dovuto velarsi per tale profanazione» (Labriola, 2014, p. 1598).

Labriola individua come: «data l’indole delle istituzioni nostre, la misura non poteva non essere di carattere giuridico-formale. In fondo si è detto che gli uomini di sesso femminile hanno i medesimi diritti e doveri degli uomini di sesso maschile; ovviando così all’inconveniente delle ammissioni a condizioni diverse, ossia inferiori. Le Università svizzere, che cotesto metodo di favore vollero anni fa provare, si videro piovere d’ogni parte delle profughe della persecuzione maschile» (Labriola, 2014, p. 1598). Questo atteggiamento e questa ritrosia all’ammissione senza condizione delle donne sono dovuti alle illazioni del tutto frettolose della cosiddetta antropologia dei sessi, in cui «vi penetra di ogni parte lo spirito gretto dei piccoli borghesi, ai quali par di essere cultori dell’idealismo, se celebrano in versi l’eterno muliebre, e in fatto condannano le donne tutte all’ufficio impreteribile di cuciniere e di bambinaie» (Labriola, 2014, p. 1598).

Ma vie è un altro aspetto di questo nucleo che conviene analizzare prima di avviarci ad alcune considerazioni conclusive. Il cassinate sottolinea come vi sia un altro indubbio pregio delle università italiane, ovvero di avere insegnamenti che sono pubblici. Alle lezioni possono accedere tutti, «chiunque ne abbia tempo e voglia» (Labriola, 2014, p. 1599). Certamente, specifica, questo non significa che una cultura di livello universitario possa raggiungere le classi più umili, ma è sicuramente vero che l’università italiana, al contrario di molte altre, è sicuramente «così accessibile, tanto comunicativa, ed in principio tanto democratica» (Labriola, 2014, p. 1599) e questa è sicuramente una cosa di cui andare decisamente fieri. Questo, spiega, grazie anche al fatto che il sapere in generale, e quello universitario in particolare, ha smesso di essere appannaggio di una sola classe sociale o il privilegio di un gruppo ristretto di iniziati ma è divenuta invece una «cosa profana e civile».

Inoltre, un altro aspetto che evidenzia l’autore e che sottolinea la grande libertà di cui gode questa istituzione in Italia, è rappresentato dal fatto che gli studenti non hanno l’obbligo di rendere conto ai docenti di nulla, se non dell’insegnamento della disciplina universitaria stessa. Gli studenti possono riunirsi e costituire liberamente associazioni studentesche tra loro senza che nessuno possa frapporsi, mentre in altri Paesi tali associazioni hanno bisogno dell’approvazione del senato accademico; in buona sostanza, in Italia «assieme ai caratteri giurisdizionali dei vecchi corpi son sparite, da noi tutte le insegne esteriori della gerarchia. Noi siamo, per dirla con espressione intuitiva, gente in giacca e soprabito come tutti gli altri mortali» (Labriola, 2014, p. 1601).

Si inserisce, a questo punto, un tema che riguarda esplicitamente l’aspetto dei diritti e del diritto allo studio e all’educazione che viene ricondotto al nucleo tematico originario, alla libertà. Afferma come: «non verrebbe in mente, né a me, né ad altri, di considerare la libertà di cui discorro come semplice conseguenza di quei diritti, che, nella società presente, chiamiamo privati. Per considerare la libertà scientifica come una emanazione del diritto privato basterebbe starsene a casa, conversare, far propaganda e scrivere dei libri» (Labriola, 2014, p. 1604).

La libertà della scienza e la libertà didattica si basano su caratteri della scienza moderna e su due ordini di necessità, una costituita dalla progressione della ricerca, l’altra dal legame che questa ricerca ha con l’ordine sociale che conduce alle funzioni dell’insegnamento (Labriola, 2014, p. 1604). Labriola lega, anche in questo caso, la funzione dell’insegnamento con le caratteristiche dell’ordine sociale: «Questa scienza che fa e rinnova di continuo sé stessa, è essa stessa effetto ed esponente del gran moto della società moderna» (Labriola, 2014, p. 1605).

L’Università, dunque, è legata a doppia mandata alla società e, se si vuole che all’Università la scienza ci arrivi libera, la società deve avere un assetto tale per cui ne produca le condizioni di esistenza e li incentivi: «L’Università, in somma, come è ora, è essa stessa un riflesso e un risultato della vita sociale» (Labriola, 2014, p. 1605), ed è proprio per questo motivo, specifica Labriola, che i professori hanno cessato di essere una casta.

L’Università, la scienza, nell’ottica di una visione comunitaria, non può che essere inclusiva, e in questi termini si esplicita un legame strettissimo tra comunità, studenti e docenti, visto che questo legame si costruisce nella quotidianità della vita spese nelle aule accademiche e nel confronto assiduo con chi frequenta le lezioni, e questo contribuisce a costruire la società.

Società e Università si inflenzano reciprocamente ed è proprio grazie alla cooperazione di tutti che la storia può procedere in chiave emancipativa: «l’opera nostra […] si produce e si sviluppa per entro alla cooperazione di tanti discutitori, e critici, ed emuli, e concorrenti» (Labriola, 2014, p. 1605).

L’enigma del papuano

Date queste premesse, ritorniamo all’enigma del papuano: com’è possibile che Labriola abbia sostenuto, a lezione, una posizione di questo tipo? Pur con i rilievi e con le accortezze di cui abbiamo già accennato, non possiamo far finta che questo aneddoto sia passato sotto silenzio.

Gramsci, nei Quaderni del carcere, prende in considerazione Labriola citandolo tra le venti e le trenta volte (la differenza varia se si prendono in considerazione i testi in prima stesura o rielaborati in note in seconda stesura) e nel Quaderno 8 (§200 ripresa in §1 del Quaderno 2) lo cita un’unica volta (a quanto ci consta) per criticarlo. Gramsci inquadra l’aneddoto di Labriola riportato da Croce all’interno di un momento abbastanza chiaro nella vita di Labriola: si tratta degli anni in cui Labriola è già ampiamente approdato al marxismo e si espone in considerazioni particolari sul colonialismo.

Pensiamo ad esempio all’intervista al «Giornale d’Italia» rilasciata ad Angelo Torre nel 1902 in cui, in buona sostanza, si trova a sostenere che una tendenza espansionistica degli Stati europei sia in un certo qual modo connaturata al loro divenire storico. La colonizzazione viene vista come una possibilità di progresso e di civiltà, prescindendo dai mezzi con i quali questa avviene.

La critica di Gramsci, ritornando all’enigma del papuano (e a queste posizioni labriolane), cogliendo questo periodo storico avvicina il modo di pensare labriolano a quello di Gentile: «mi pare che si tratti di uno pseudo-storicismo, di un meccanismo abbastanza empirico. Si potrebbe ricordare ciò che dice lo Spaventa a proposito di quelli che non vogliono mai che gli uomini escano di culla (cioè dal momento dell’autorità, che pure educa alla libertà i popoli immaturi) e pensano tutta la vita (degli altri) come una culla. Mi pare sia storicamente da porre il problema in altro modo: se cioè, una nazione o un gruppo sociale, che è giunto a un grado superiore di civiltà non possa (e quindi debba) “accelerare” l’educazione civile delle nazioni e gruppi più arretrati, universalizzando la propria esperienza. Non mi pare insomma che il modo di pensare contenuto nella risposta del Labriola sia dialettico e progressivo, ma piuttosto retrivo» (Gramsci, 1975, p. 200).

Anche Togliatti (2010, p. 140) non risparmia sferzanti critiche a questa posizione di Labriola, sostenendo come in tali argomentazioni non si possa trovare più nulla di marxismo perché «si dimenticano le condizioni di oggi che si sono studiate, si dimentica che il socialismo si costruisce sulla base di queste condizioni, che la lotta dev’essere impostata sulle condizioni reali e si dice che il capitalismo stesso, spinto dalle stesse sua condizioni economiche, deve porsi e risolvere il problema del socialismo».

A noi, in buona sostanza, pare che in questo senso sia la critica di Gramsci che quella di Togliatti alle posizioni di Labriola tengano, ma vadano ricondotte alla giusta analisi di Gabella (2022, pp. 138-139): «come si vede, la questione coloniale è parte di un più ampio complesso di problemi (imperialismo, questione nazionale, corsa agli armamenti, guerra) affiorati in una nuova fase storica, che sollecitano il movimento socialista tutto, facendo emergere oscillazioni, ambiguità, contraddizioni, e provocando polarizzazioni, scissioni, fratture […] La maturazione dei caratteri di una nuova fase storica sollecita un nodo non risolto, latente nel pensiero di Labriola, ma su cui il marxismo tutto non aveva ancora trovato una sintesi definitiva: fino a che punto l’educazione politica del proletariato viene favorita dallo sviluppo pieno del capitale e della borghesia o sfavorita dall’assenza di questa condizione?».

Oltre a questa precisazione sempre Gabella (2022, p. 130), nell’affrontare lo studio del rapporto tra politica e educazione nel marxismo di Labriola, esplicita un’osservazione che ci sentiamo di condividere: «sembra di scorgere talora una tendenza a misurare la validità delle posizioni di Labriola sul colonialismo non rispetto alle caratteristiche della fase storica e ai problemi da essa posti al movimento operaio e socialista, bensì alla luce dei principi filosofici interni desumibili dalla sua riflessione. Questo modo di procedere è certamente legittimo, ma l’impressione è che esso tenda pericolosamente a separare la riflessione filosofica dallo svolgimento storico concreto, incoerentemente rispetto a un fondamentale criterio analitico del marxismo, adottato e ampiamente sviluppato dallo stesso Labriola».

Conclusioni

Al netto di tutto quanto ci siamo detti, riteniamo che l’enigma del papuano difficilmente possa essere utilizzato come prova regina per spostare o piegare il posizionamento del pensiero del cassinate. Se sono infatti vere tutte le argomentazioni che mostrano quanto sia problematica l’interpretazione dell’ultima fase del Labriola marxista, proprio per gli accadimenti storici che si stavano verificano e che portavano le categorie che si erano guadagnate a nuove sfide, è altrettanto vero che datazione e tipologia della fonte rimangono problematiche.

Se infatti l’affermazione sul papuano potrebbe coerentemente rientrare in quella fase marxista del pensiero di Labriola in cui diversi nuclei teorici vengono rimessi in gioco, è altrettanto vero che di quella fase, dal punto di vista schiettamente pedagogico, non abbiamo alcuno scritto. E rimane altresì il fatto che Croce ha frequentato le lezioni universitarie di Labriola tra il 1884 e il 1886, ed è realistico immaginare (come Croce stesso sostiene) che abbia sentito l’aneddoto in quel contesto. In quel periodo, però, Labriola si stava occupando di pedagogia e i nuclei teorici che abbiamo analizzato sembrano essere decisamente lontani dalle posizioni tenute sul papuano. Sappiamo inoltre che Labriola era decisamente scrupoloso per quanto riguarda le pubblicazioni di scritti a suo nome, tanto che vieta la stampa di appunti presi alle sue lezioni da Alessandro Schiavi, come evidenzia anche Gabella (2022). Da ciò deduciamo come ritenesse il contesto delle lezioni universitarie sicuramente importante e significativo, ma anche che gli eventuali scritti che ne dovessero derivare necessitassero in ogni caso di essere ampiamente rivisti per essere pubblicati e quindi per essere assunti come punti teoreticamente fondanti. L’aneddoto sul papuano non può fare eccezione, vista anche la coerenza con cui Labriola affronta il tema dell’educazione in quanto tale.

Il nostro sguardo da storici dell’educazione, dunque, non può che tener presente l’aneddoto ma con l’impressione che la sua portata, dal punto di vista teoretico, vada ampiamente ridimensionata per gli inconvenienti che abbiamo evidenziato. Se nell’ultima parte della produzione della fase marxista di Labriola, infatti, il problema pedagogico non viene affrontato direttamente ma da un’ottica particolare (Gabella, 2022), è altrettanto vero che i nuclei teorici in cui Labriola stesso si è dedicato esplicitamente al tema dell’educazione sono rimasti sempre coerenti nel tempo, pur risultando evidente una chiara evoluzione.

Questi nuclei hanno sempre colto il fine dell’educazione all’interno di due polarità: una che tende alla realizzazione delle potenzialità dell’individuo e l’altra alla società. Questi aspetti non sono mai scissi e conducono a leggere in maniera coerente il tema dell’educazione come possibilità di emancipazione di un’intera comunità «proiettata verso il futuro, verso una trasformazione in meglio della situazione, mediante l’educazione dell’uomo, la sua illuminazione, il suo farsi più lucido, più razionale, collocato in una società migliore» (Garin, 2005, p. 4).

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1 Ricercatore in Storia della Pedagogia, Università degli Studi di Urbino «Carlo Bo».

2 Researcher in History of Pedagogy, University of Urbino «Carlo Bo».

3 Pensiamo a studi come Trebisacce (1979), Marchi (1971), Gerratana (1972), Zanantoni (2005) o anche studi quali quello di Miccolis (2004), Garin (2005), Martinelli (1988), Burgio (2012), Dal Pane (1975), Siciliani De Cumis (1976), Orsomarso (2015).

Vol. 9, Issue 2, October 2023

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