Vol. 9, n. 2, ottobre 2023

TEORIE PEDAGOGICHE

Maria Montessori e child empowerment: Per una valutazione «narrativa»

Grazia Romanazzi1

Sommario

Il dibattito pedagogico sulla valutazione degli apprendimenti spazia tra criteri numerici e «narrativi». Montessori ritiene «superflui» elogi e sanzioni esterni, poiché l’agente promotore dell’apprendimento è l’automotivazione. Nell’attuale accezione formativa della valutazione permane l’esigenza di quantificare i livelli di apprendimento per renderli comprensibili. Sovente, gli studenti assimilano la valutazione a un giudizio di valore. La pedagogia deve costantemente volgere al miglioramento del ben-essere personale. Tale è l’intento della proposta educativa montessoriana di «allenare» precocemente i bambini a seguire le proprie inclinazioni, offrendo loro diverse opportunità di un esercizio conoscitivo di «livello avanzato». La valutazione diviene una vera presa in carico della formazione delle giovani personalità in fieri; un atto di responsabilità adulta e di cura educativa; evolve da espressione di giudizio a narrazione descrittiva del valore intrinseco, dei traguardi raggiunti e dei punti di forza di ciascuno, perché tutti si sentano motivati a perfezionare le proprie aree di miglioramento.

Parole chiave

Montessori, Educazione precoce, Valutazione qualitativa, Valutazione formativa, Valutazione narrativa.

PEDAGOGICAL THEORIES

Maria Montessori and Child Empowerment: Attaining «Narrative» Evaluation

Grazia Romanazzi2

Abstract

The pedagogical debate on the evaluation of learning ranges from numerical to «narrative» criteria. Montessori considers external praise and sanctions to be «superfluous»: the promoting agent of learning is self-motivation. In the current meaning of «educational» assessment, there is still a need to quantify learning levels in order to make them comprehensible. Often, students approach assessment with a value judgement. Pedagogy must constantly turn to the improvement of personal well-being. Such is the intent of the Montessori educational proposal to «train» children early on to follow their own inclinations by offering them various opportunities for «advanced level» cognitive exercise. Evaluation becomes taking charge of the building of young personalities; an act of adult responsibility and educational care; it evolves from an expression of judgement to a descriptive narration of the intrinsic value and of the achievements and strengths of each individual, so that everyone feels motivated to perfect their areas of improvement.

Keywords

Montessori, Early education, Qualitative evaluation, Formative evaluation, Narrative evaluation.

Premessa

Nel 1976, Benedetto Vertecchi scriveva il libro Valutazione formativa, per un verso dando ragione della tradizione che validava l’accezione prestazionale del rendimento degli allievi; eppure prefigurando, nel titolo, una svolta culturale. Il Nostro sovvertiva l’impianto valutativo derivante dall’ideologia elitaria che attribuiva maggiori probabilità di successo scolastico ai privilegiati per appartenenza di casta. Tale sistema, difatti, sedimentava la stratificazione sociale preesistente e validava la qualità e le metodologie di insegnamento di una classe docente giudicante e incontestabile.

Nell’argomentare l’opportunità di mediare, nella «scuola di massa», tra un’embrionale coscienza scolastica democratica, che tendeva ad astenersi dal valutare, e una rinnovata maturità scientifica, volta a elaborare inedite strategie di valutazione del processo di insegnamento e apprendimento, Benedetto Vertecchi (1976) annotava: «[…] il problema infatti non è quello di rinunciare alle valutazioni per non creare situazioni discriminatorie, ma piuttosto quello di rimuovere le cause di discriminazione» (p. 9).

Una sintesi di grande attualità, sancita peraltro costituzionalmente dall’articolo 34 che recita: «la scuola è aperta a tutti. […] I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». È sempre vivo il dibattito culturale intorno alle concrete possibilità di ciascuno studente di accedere all’istruzione di base e superiore; di fruire dei servizi, degli strumenti e delle risorse dell’educazione; di frequentare i luoghi fisici e virtuali della formazione.

Sulla scuola odierna insistono forze diverse e contrastanti che richiedono una riflessione pedagogica e strategie didattiche «mature e avvertite». Massimo Baldacci (2005) ne individua almeno tre: la forza omologante della cultura mass-mediatica; la forza emancipativa dei «particolarismi antropologici locali»; la forza espressiva della soggettività e del valore della diversità individuale, che promuove la scoperta e l’affermazione dei talenti di ciascuno.

Rispondere complessivamente alla complessità è un’impresa ardua. Arrischio ad affermare che, talvolta, le azioni formative sono state sbilanciate in favore dell’uguaglianza delle opportunità, piuttosto che della differenziazione dei percorsi individuali, a scapito della qualità.

Tuttavia, in accordo con Massimo Baldacci (2005), ritengo indispensabile tentare una sintesi omnicomprensiva. «Infatti, la qualità dell’istruzione senza uguaglianza formativa significherebbe il ritorno di una prospettiva elitaria e sostanzialmente antidemocratica della formazione; peraltro, l’uguaglianza senza qualità porterebbe a una falsa parità, resa inautentica dal livellamento in basso, che andrebbe a scapito dei soggetti con retroterra socioculturale più debole. Parallelamente, l’uguaglianza formativa senza promozione delle diversità potrebbe creare il rischio di esiti omologanti, di non sostenere la realizzazione delle potenzialità personali; peraltro, la valorizzazione dei talenti individuali al di fuori di un quadro di uguaglianza formativa rispetto alle competenze fondamentali creerebbe rischi di nuove forme di disuguaglianza e di emarginazione» (pp. 11-12).

La cultura della valutazione quale dinamica di processo

In linea con l’Ordinanza Ministeriale n. 172 del 4 dicembre 2020, si tratta di «sostenere e valorizzare la cultura della valutazione e degli strumenti valutativi» (p. 4) per affrancare, finalmente, gli studenti da La tirannia della valutazione (del Rey, 2018); in specie, dalle rilevazioni, anche internazionali e comparative, che ardiscono a quantificare, oggettivandole, le qualità soggettive. Con mordace lucidità, Francesco Codello (2018) argomenta la critica al moderno modello educativo, «che è divenuto irrimediabilmente “formativo” e che ha trasformato la Scuola in una fabbrica di allievi performanti, in una fabbrica di “risorse umane”» (p. 12): soggetti-oggetti fluidi, plastici, malleabili, mutevoli e adattabili al contesto; ovvero «spendibili» e competitivi nel mercato del lavoro.

Auspichiamo, invero, una vera e propria culturalizzazione della valutazione: per un verso, la diffusione, presso la classe docente, di una cultura della valutazione assiologicamente orientata, informata e responsabilizzata del potere trasformativo a carico delle nascenti identità degli studenti e predittivo del futuro successo o fallimento delle carriere scolastiche e della vite personali in evoluzione. D’altro canto, una valutazione che comprenda in sé aspetti quali le fasi, gli strumenti, le funzioni, gli oggetti che costituiscono la cultura, ovvero il concetto di valutazione. «Cultura e concetto, però, non hanno la caratteristica della univocità e della staticità, bensì della dinamicità, ossia sono soggetti a una evoluzione storica» (Petracca, 2013, p. 1).

Già Célestin Freinet (2020), nel definire le sue Invarianti pedagogiche, sottolineava l’impossibilità di misurare e di assegnare un voto a «la comprensione, le funzioni dell’intelligenza, la creazione, l’invenzione, il senso artistico, scientifico, storico». «Quindi a scuola queste dimensioni sono ridotte al minimo ed eliminate dalla competizione» (p. 61). Nondimeno, oggetto di valutazione divengono le competenze, vale a dire le capacità, ontologicamente personali e irripetibili, di «agire le proprie conoscenze», trascendendo l’idealità e contestualizzando la teorica neutralità degli apprendimenti.

A modesto parere della scrivente, il paradosso dei sistemi internazionali di valutazione si dà nel tentativo di misurare l’incommensurabile e di standardizzare l’incomparabile. «Con un’operazione arbitraria e pericolosa la qualità viene fatta coincidere con la quantità, senza considerare realmente che l’essere vivente non è mai uguale a se stesso (cambia, si evolve) e soprattutto non è mai uguale a un altro, neanche nel modo, nello stile e nei tempi del suo apprendimento» (del Rey, 2018, p. 14).

La valutazione è, dunque, un processo in itinere nella relazione didattica, il cui fine ultimo dovrebbe tendere alla cooperazione piuttosto che alla competizione. Il termine di paragone di ciascuno dovrebbe essere se stesso e non l’altro; i traguardi dovrebbero essere posti a una distanza ragionevole e raggiungibile, non oltre i propri limiti personali, identificabili con nessun parametro oggettivo.

Nella presente trattazione, si intende accogliere la suggestione di Letterio Todaro (2022) ad attraversare in profondità il tema formativo, ovvero «immettere la tessitura del disegno della formazione dentro le maglie dell’interiorità» (p. 6). Tuttavia, permane l’esigenza, avvertita e riferita tanto dagli studenti quanto dalle rispettive famiglie, di «tradurre» i livelli di competenza raggiunti e la valutazione complessiva con un giudizio maggiormente comprensibile e possibilmente numerico.

A ragion veduta, non sono da escludere, né da eludere, i criteri quantitativi di accertamento del profitto degli allievi, che danno luogo a una valutazione sommativa. Preme sottolineare come il voto, per quanto diffuso e radicato quale pratica valutativa, non sia l’unica valutazione di carattere sommativo. «È sufficiente che un insegnante dica a un alunno: “Bravo, sei riuscito a svolgere questo compito in modo preciso”. Questa breve frase, nonostante sia stata espressa e comunicata in un contesto informale, assume e denota aspetti sommativi in quanto indica all’alunno un traguardo raggiunto» (Parmigiani, Boni e Cusinato, 2018, pp. 334-335). Pertanto, la valutazione sommativa può essere considerata il punto di arrivo di un processo di apprendimento; una sorta di verifica dell’assimilazione dei contenuti e dell’esito di tale processo, in qualunque momento dell’anno scolastico.

Diversamente, la valutazione formativa accompagna l’intero percorso didattico in considerazione di diverse variabili, anche non direttamente controllabili, e, ricorsivamente, restituisce dei feedback funzionali all’eventuale rimodulazione delle tecniche e modalità di studio, così come delle strategie di insegnamento, al fine di migliorare, potenziare e accrescere gli apprendimenti. La valutazione formativa volge, dunque, essenzialmente ad attivare dei processi di autoriflessione e di regolazione metacognitiva. «Grazie alle autoregolazioni impariamo le competenze e le abilità che ci fanno progredire. Nella scuola questo processo dovrebbe diventare cosciente e intenzionale. Tutti gli attori del processo educativo (allievi, insegnanti, genitori) si autoregolano per crescere. Per autoregolarsi è però necessario autovalutarsi» (Bottero, 2020, p. 28).

Accreditata da alcune voci autorevoli riportate, che hanno storicamente animato il dibattito intorno alla scuola italiana, appare tuttora attuale e culturalmente fondata l’idea secondo cui la comunicazione dialogata e socializzata anche alle famiglie della valutazione sommativa, così come di quella formativa, rappresenti il presupposto per una concreta co-partecipazione, co-costruzione, con-divisione e com-prensione del progetto educativo da parte di tutti gli agenti coinvolti. Riferire asetticamente o scrivere sul registro elettronico un voto non è sufficiente e, sopra ogni cosa, non è efficace; di converso, parrebbe deleterio e controproducente. È necessario supportare, integrare, motivare e spiegare la valutazione con le osservazioni costanti e puntuali di ogni singolo studente, delle sue interazioni con i pari e con tutti i docenti e i non docenti; con le rilevazioni delle modalità, dei tempi e degli strumenti di studio, della capacità di autovalutazione e autoregolazione; con gli stati emotivi personali, le condizioni ambientali, sociali e familiari e, non da ultimo, con le specifiche fasi evolutive.

Affinché la valutazione non venga subìta quale giudizio inappellabile, gli studenti non finiscano con l’identificarsi con un numero e le famiglie non si accomodino all’idea di aver generato e educato dei figli dall’intelligenza di volta in volta valutata più o meno sufficiente, mediocre o ottimale, urge rendere tutti protagonisti del processo, piuttosto che spettatori del finale. «Per produrre l’equità dei risultati […] vanno soprattutto ripensati i modelli di insegnamento-apprendimento, la progettazione didattica e la valutazione, l’approccio metodologico-didattico e conseguentemente la formazione e il ruolo degli insegnanti. Come costruire la biografia professionale degli insegnanti è infatti determinante per la qualità dei processi educativi e dell’istruzione» (D’Auria, 2020, p. 8).

Per siffatta ragione, è importante che la valutazione si ammanti di narratività in senso pedagogico: gli insegnanti dovrebbero narrare la valutazione, spiegando tutte le variabili ivi comprese e sottese ed evitando che questa diventi o venga percepita quale espressione del «conflitto primitivo» tra adulto e bambino, equiparabile a una lotta di potere tra il forte e il debole (Montessori, 2000). La valutazione, di per sé, dovrebbe narrare l’evaluando, il suo percorso di crescita e le potenzialità per il futuro (Montessori, 2007). «La narrazione mette in evidenza l’invisibile che interviene nell’apprendimento: in questo modo l’evento cognitivo narrato si ricompone nella sua unitarietà logico-emotiva, emerge da una consapevolezza indistinta, assume maggiore consistenza non solo nell’istante in cui è compiuto, ma anche nel futuro» (Petracca, 2013, p. 15).

Il fulcro della presente riflessione e della proposta pedagogica, orbene, è lungi dal prediligere l’una o l’altra tipologia di valutazione, propendendo per un approccio quantitativo o qualitativo; esso prelude alla possibilità di integrare e armonizzare entrambe le prospettive entro una visione unitaria e futuribile del processo, complesso e biunivoco, di insegnamento e apprendimento: una vera e propria «pratica sociale» che rende empirica l’epistemologia della valutazione; un atto di responsabilità personale e collettiva.

«L’utilità per la società dovrebbe esser garantita dalla valutazione sommativa, che nella sua versione certificativa ha una funzione di controllo. L’utilità per l’individuo dovrebbe essere perseguita grazie alla valutazione formativa, con funzione regolativa e con destinatari l’allievo e l’insegnante» (Bottero, 2020, p. 25).

Nuovamente attingiamo alla saggezza della tradizione pedagogica per riportare in auge l’Invariante freinetiana secondo cui «ogni persona vuole riuscire. L’insuccesso inibisce, distrugge la vitalità e l’entusiasmo» (Freinet, 2020, p. 60). Pertanto, la valutazione non è da recusare né da eludere e neppure da temere o subire quale giudizio inappellabile o etichetta identitaria. Tutt’altro, si tratta di un processo evolutivo e formativo per antonomasia: per il tramite dei dispositivi narrativi di volta in volta rispondenti alle esigenze personali e di contesto, la restituzione dialogata e com-partecipata dei compiti portati a termine, delle tappe raggiunte, dei progressi realizzati e delle possibili azioni di miglioramento, orienta — e rassicura, oserei dire — le scelte di studio degli studenti e l’agire educativo e didattico degli insegnati stessi. Così declinata, la valutazione diviene «formatrice»: essa avvia al percorso di autovalutazione che, avallando la tesi di Charles Hadji (1995), conduce a una concreta efficacia rilevabile quale capacità di regolazione degli apprendimenti.

Ritengo che sospendere i giudizi di valore e proporsi, invece, quali facilitatori della comunicazione, della circolazione e del confronto delle idee, dell’apprendimento cooperativo e del successo di ogni singolo studente siano azioni di cura educativa (Montessori, 1993), in continuità con l’empowerment evaluation postulata da David Fetterman. «Empowerment evaluation is the use of evaluation concepts and techniques to foster self-determination. The focus is on helping people help themselves. This evaluation approach focuses on improvement, is collaborative, and requires both qualitative and quantitative methodologies. It is also highly flexible and can be applied to evaluation in any area» (Fetterman, 1994, p. 1).

Nella poliedricità e polisemia che le sono peculiari, la valutazione muta ancora e diviene tras-formativa, «in quanto educa e trasforma i soggetti che vi si impegnano fornendo loro strumenti per l’assunzione di consapevolezza, autodeterminazione, senso di responsabilità, capacità professionali» (Bondioli, 2004, p. 21). A ragion veduta, tanto l’apprendimento individuale quanto l’empowerment evaluation si connotano quali processi sociali, basati sulla partecipazione, la negoziazione e la co-costruzione di valori comuni, significati condivisi e obiettivi personali, ovvero di ciò che vivifica la vita pratica e quotidiana degli studenti. Da questa, difatti, deriva l’intramontabile intuizione montessoriana, scientificamente osservata e descritta, della costruzione personale e attiva della conoscenza fin dalla prima infanzia.

La valorizzazione dell’errore

Nel percorso di ricerca della propria autonomia e autodeterminazione, ciascuno è chiamato a confrontarsi con la possibilità del fallimento e con l’idea della propria fallibilità. A partire da taluni insegnanti, rappresentanti di una cultura scolastica obsoleta che identifica la dignità magistrale con la presunzione di essere sempre nel giusto e l’autorevolezza con il diritto di correggere gli errori altrui. «Molti errori si correggono spontaneamente nel corso della vita. […] L’insegnante che parte dal principio di essere perfetto e non riconosce i propri errori non è un buon insegnante» (Montessori, 1999b, p. 245).

Con l’ardore e l’ardire pioneristico che le erano propri, Maria Montessori fondò il metodo scientifico (Montessori, 2000) sul «Signor Errore»: amico e compagno di vita di adulti e bambini, insegnanti e allievi, genitori e figli, scienziati e umanisti. Il riconoscimento della propria fallibilità, e dunque perfettibilità, è, per la Nostra, un passo decisivo verso il progresso. Ammettere di poter sbagliare rende liberi dall’idea di dover essere perfetti: «una delle più grandi conquiste della libertà psichica è il rendersi conto che noi possiamo fare un errore e possiamo riconoscere e controllare l’errore senza aiuto» (Montessori, 1999b, pp. 246-247).

Scorgere nei pari la medesima fallibilità approssima gli uni agli altri e genera coesione sociale: «gli errori ci avvicinano e ci fanno più amici: la fratellanza nasce meglio sul sentiero degli errori che su quello della perfezione» (Montessori, 1999b, p. 247). Riconoscersi imperfetti, nell’asimmetria relazionale tra adulti e bambini, demitizza i rispettivi ruoli e, plausibilmente, ridimensiona il relativo sovraccarico di aspettative: «l’errore stesso diventa interessante: diventa un legame, e certamente un mezzo di coesione fra gli esseri umani, ma specialmente fra bambini e adulti. Trovare un piccolo errore nell’adulto non provoca mancanza di rispetto nel bambino o diminuzione di dignità nell’adulto: l’errore diventa una cosa a sé, che può essere sottoposta a controllo» (Montessori, 1999b, p. 249).

La dottoressa, che dedicò l’arte medica e pedagogica alla «normalizzazione» dei bambini «spezzati», aveva intuito, osservando, e preconizzato l’inopportuna e improvvida intromissione degli adulti in generale, e degli insegnanti in particolare, nel processo spontaneamente evolutivo dei fanciulli. L’esortazione rivolta agli educatori a non «interferire per lodare, per punire o correggere errori» (Montessori, 1999b, pp. 243-244) le è valsa critiche e rimbrotti — molti, a oggi, imperituri —, come se non vi fosse alternativa alla rilevazione dell’errore per correggerlo e, all’inverso, all’elogio per rinforzare un comportamento virtuoso o un compito correttamente portato a termine.

Ne Il segreto dell’infanzia leggiamo: «una volta entrai nella scuola e vidi un bambino seduto in una poltroncina in mezzo alla stanza, tutto solo e senza far niente. E portava sul petto la pomposa decorazione della maestra. Questa mi raccontò che il bambino era in castigo. Ma poco prima aveva premiato un altro bambino, mettendogli sul petto la decorazione. Questi, però, passando accanto al castigato l’aveva passata a lui, quasi che fosse una cosa inutile e ingombrante per chi vuol lavorare. Il castigato contemplava con indifferenza il pendaglio, e si guardava intorno tranquillo, cioè senza affatto sentire il castigo» (Montessori, 1999a, p. 165).

Maria Montessori rilevò, nelle sue costanti osservazioni in innumerevoli scuole sparse per il mondo, l’indifferenza dei bambini sia ai premi sia alle punizioni, che «in quanto estranei al travaglio spontaneo dello sviluppo del bambino, sopprimono e offendono la spontaneità dello spirito» (Montessori, 1999b, p. 244). Ai detrattori che, provocatoriamente, confutavano l’autonoma possibilità di correzione degli alunni, la scienziata rispondeva che, se anche questi «avessero sciupato tutta la carta del mondo per fare orecchie d’asino e ridotto in poltiglia i poveri ditini, non avrebbero corretto nulla: solo l’esperienza e l’esercizio correggono gli errori, e l’acquisto delle diverse capacità richiede lungo esercizio. Se un bimbo manca di disciplina, diventa disciplinato lavorando in società con gli altri bimbi, e non col sentirsi dire che è indisciplinato» (Montessori, 1999b, pp. 244-245).

Mi pare evidente l’attualità del pensiero montessoriano: un insegnante che esprime la propria valutazione, dall’alto di una presunta autorità magistrale e senza interrogarsi se abbia concretamente fornito ai suoi alunni tutte le opportunità per assolvere ai compiti e soddisfare i bisogni di conoscenza, non impartisce l’insegnamento più importante: l’autonomia (Montessori, 1999c). Egualmente, uno studente che non riconosce i propri errori e la possibilità di correggerli autonomamente, per non commetterli nuovamente, non impara neppure a conoscere le proprie potenzialità e a orientare le risorse personali e le future scelte formative: «se vi è cosa che rende il carattere indeciso, è il non saper controllare qualcosa senza dover ricorrere all’aiuto di altri. Nasce un senso di inferiorità scoraggiante e una mancanza di confidenza in noi stessi. Il controllo dell’errore diventa una guida che dice se siamo sulla giusta via» (Montessori, 1999b, p. 247).

L’autovalutazione e l’autocorrezione sono, a ragion veduta, degli imprescindibili strumenti di miglioramento educativo e di crescita evolutiva. Il che, con le parole che Maria Montessori affida idealmente a un educando che acquisisce consapevolezza e fiducia nelle proprie possibilità, equivale a dire: «non sono perfetto, non sono onnipotente, ma so fare questa cosa e conosco la mia forza, e so pure che posso sbagliare e correggermi… così conosco la mia strada» (Montessori, 1999b, p. 248).

Dunque, in accordo con l’acuta sintesi di Raniero Regni (2022), «quella di Montessori è un’originalissima pedagogia degli oppressi che vuole liberare il bambino dalle interferenze del mondo adulto e da ogni tradizione educativa, basando la nuova educazione su una fiducia, nutrita di conoscenza scientifica, nei confronti delle forze interne di sviluppo» (p. 51). È bene rammentare che ciascun bambino è unico e ha dei personali tempi e processi di sviluppo, diversi da quelli di ogni altro; parimenti, ciascuno studente possiede delle «attitudini», o «disposizioni naturali», che lo differenziano dai colleghi e che la scuola, storicamente, ha stentato a riconoscere e legittimare, propugnando un’immagine di «scolaro medio», «neutro e uniforme» (Claparède, 2022).

Per anni il sistema scolastico ha assegnato il «voto medio di rendimento», paradossalmente omologando le peculiarità soggettive a uno standard ideale, del tutto indifferente e incurante del fatto che «andare contro il tipo individuale significa andare contro natura» (Claparède, 2022, p. 50). Ovvero, «nella gara di velocità che costituisce un anno scolastico, spinti, trascinati, rimpinzati a forza, i nostri fanciulli, per un’apprensione ben naturale, dedicano tutte le loro preoccupazioni, se non tutte le loro energie, alle materie di studio verso le quali non sentono una disposizione particolare. Essi si logorano nel compito ingrato di coltivare il terreno sterile, lasciando non dissodato proprio quello che prometterebbe una bella messe» (Claparède, 2022, p. 49).

Questo comporta che il rendimento sia nullo o, nel migliore dei casi, non proporzionato allo sforzo profuso, e, in specie, che si inveri un senso di «disgusto» (Claparède, 2022, p. 50), legato a un lavoro imposto, in un certo qual modo subìto, di sicuro non amato e non soddisfacente. Sorprende, nuovamente, l’atemporalità di una proposta pedagogica di lunga data quale quella avanzata da Édouard Claparède di una «scuola su misura», che rispetti e valorizzi le differenze e le «attitudini», oppure, con maggiore corrispondenza lemmatica all’attualità, i talenti individuali.

Con intenzionalità pragmatica e programmatica, Maria Montessori traccia il sentiero della libera scelta delle attività da svolgere e dei materiali da utilizzare. Tale via — scoperta in maniera del tutto casuale, in occasione di un contrattempo che aveva ritardato l’ingresso della maestra in classe e che aveva «disinibito» il desiderio spontaneo dei bambini di prendere alcuni oggetti che destavano interesse più di altri — conduce a una postura di osservazione scientifica privilegiata delle «tendenze» e dei «bisogni psichici» dei bambini.

Per inferenza, dopo tale scoperta, nella classe vennero disposti arredi bassi e aperti, che consentissero agli allievi di accedere autonomamente ai materiali, così come di riporli senza aiuto alcuno. Si comprese, dunque, «che nell’ambiente del bambino tutto deve essere misurato oltreché ordinato, e che dall’eliminazione di confusione e di superfluità nascono appunto l’interesse e la concentrazione» (Montessori, 1999a, p. 162).

Differentemente da altri approcci educativi, non vi è, nell’epistemologia della pedagogia montessoriana, alcuna imposizione dell’obbedienza. Questa nasce spontaneamente dalla libertà e nella libertà. La libertà va esercitata costantemente all’interno di un ambiente opportunamente predisposto per soddisfare i bisogni di conoscenza, connaturati all’infanzia e all’adolescenza. Un contesto che sia ricco e non sovrabbondante di materiali; sperimentale ed esperibile; regolato e normativo, affinché la libertà non venga mai equivocata o degenerata in anarchia. «Il problema della libertà è il problema dell’autorità, il problema del limite» (Regni, 2022, p. 51).

Si tratta di una «libertà disciplinata» e di una «disciplina della libertà», spontaneamente scoperta e conquistata da ciascun bambino in crescita. La libertà è il fine e il mezzo dell’educazione montessoriana: si può educare alla libertà esclusivamente nella libertà — entro gli opportuni limiti delle possibilità —, ovvero con la coerenza esemplare dell’agire educativo del profeta (Corsi, 2003). Il lascito culturale montessoriano de «l’educazione come aiuto allo sviluppo della vita infantile» (Montessori, 1999b, p. 91) ha, plausibilmente, ispirato le successive generazioni di pedagogisti, che problematizzano l’ambiente quale variabile educativa, nella misura in cui contiene e offre molteplici possibilità di fare esperienze di qualità.

«Il bambino può soltanto svilupparsi dunque per mezzo di esperienze sull’ambiente: questo esperimentare noi chiamiamo «lavoro»» (Montessori, 1999b, p. 91). I bambini avvertono l’istinto di esplorare la realtà per penetrarne e carpirne i segreti; con questo moto continuo di conoscenza essi la fanno propria: la assorbono e la incarnano, nel senso che la realtà entra nelle menti infantili per il tramite delle percezioni sensoriali e, vicendevolmente, questi la incarnano rendendola tangibile, esperibile e ripetibile.

«Il bambino, dunque, che ha aumentato la propria indipendenza con l’acquisizione di nuove capacità, può svilupparsi normalmente soltanto se è lasciato libero di operare. Il bambino si svilupperà con l’esercizio dell’indipendenza che egli si è conquistata» (Montessori, 1999b, p. 91). In sintesi, l’indipendenza — uno dei fini fondamentali perseguiti dall’educazione — è un processo dinamico e in costante evoluzione: un esercizio di libertà, che conduce all’auto-perfezione. «Il primo istinto del bambino è di agire da solo, senza l’aiuto altrui, e il suo primo atto cosciente di indipendenza è di difendersi da coloro che cercano di aiutarlo» (Montessori, 1999b, p. 93).

Riflessioni conclusive

Esaurire un’argomentazione con tali e tanti livelli di profondità quale la valutazione dei bambini, degli adolescenti e dei giovani nelle istituzioni educative e formative è pressoché impossibile. Sono davvero tante le implicazioni e complicazioni che si abbattono l’una sull’altra, come per un effetto domino, a partire dalle ripercussioni che una valutazione presumibilmente oggettiva ha le potenzialità di determinare sulla personalità soggettiva di ciascun educando.

L’appello alla coscientizzazione, da parte di quanti sono chiamati a valutare, della delicatezza del processo e del compito che hanno da assolvere non è superfluo. La scuola di ogni ordine e grado dovrebbe rappresentare un luogo in cui le giovani identità vadano autenticamente prendendo forma e necessitano, pertanto, della possibilità di esprimersi, di sperimentare e anche di sbagliare, senza la paura di un giudizio sanzionatorio o di una competizione classificatoria e squalificante.

Nella consapevolezza di avere il compito esistentivo di tentare la propria realizzazione nel mondo e trovare una propria collocazione nella società, pure performativa, è dal confronto con se stessi che dovrebbero generare, evolvere e perdurare l’idea e la pratica di un benessere personale, inconfutabile e inalienabile. Al cospetto della recente istituzionalizzazione del merito a livello ministeriale, tali considerazioni si ammantano del senso pedagogicamente utopistico che segna il cambiamento possibile e praticabile verso una scuola in cui il merito, più che assecondare un agire performante — sporadico o comunque funzionale alle verifiche degli apprendimenti —, promani dall’impegno costante a imparare e da una ricerca di progressivo ampliamento delle conoscenze e miglioramento di abilità e competenze personali.

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https://www.istruzione.it/valutazione-scuola-primaria/allegati/ordinanza-172_4-12-2020.pdf

https://www.senato.it/istituzione/la-costituzione/parte-i/titolo-ii/articolo-34


1 Università degli Studi di Macerata, Dipartimento di Scienze della formazione, dei beni culturali e del turismo.

2 University of Macerata, Department of Education, Cultural Heritage and Tourism Sciences.

Vol. 9, Issue 2, October 2023

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