RECENSIONE
Vol. 8, n. 2, ottobre 2022 — pp. 108-111
Biesta G.J.J.
Riscoprire l’insegnamento
Milano,
Raffaello Cortina Editore (2022)
Nel dibattito scolastico, da qualche anno, il tema dell’insegnamento non riveste più un ruolo di primo piano. La parola d’ordine degli ultimi periodi è quella del passaggio dalla scuola centrata sull’insegnamento a quella centrata sull’apprendimento. In Italia, questa svolta risale almeno alle Indicazioni curricolari nazionali del 2001 (e alla massiccia campagna pedagogica che le accompagnò), che lanciavano le unità di apprendimento come nuovo modello di organizzazione della formazione scolastica. Col progredire dell’egemonia neoliberista, e col primato delle dottrine del capitale umano (che assegnano alla scuola il compito di equipaggiare i futuri produttori di un adeguato stock di conoscenze e di competenze), l’apprendimento è poi diventato essenzialmente una strutturazione di prestazioni cognitive misurabili attraverso test oggettivi di profitto. E tutti i processi e gli esiti educativi che non ricadono nel raggio della misurabilità sono declassati come secondari (quando non sono liquidati come fantasie pedagogiche). Così, sistemi di valutazione a livello nazionale e internazionale controllano la produttività scolastica nei termini delle prestazioni d’apprendimento rilevate. E la qualità dell’insegnamento viene a sua volta stimata sulla base del livello degli apprendimenti conseguiti dagli studenti.
Rispetto a questa situazione, il libro di Biesta si pone decisamente controcorrente, riaprendo in modo autorevole e coraggioso la questione dell’insegnamento, e con essa quella del compito educativo della scuola. Anticipo la tesi che sosterrò più avanti: questo merito di Biesta va al di là delle specifiche concezioni che egli avanza. Queste ultime si possono condividere o no, o accettare solo in parte. Ma le questioni che egli solleva hanno in ogni caso la capacità di rimettere in movimento la riflessione pedagogica, troppo spesso ormai adagiata sulla concezione mainstream (sopra sommariamente ricordata). E non si tratta di un merito da poco. D’altra parte, Gert Biesta — docente di Public Education alla Maynooth University (Irlanda) e di Educational Theory and Pedagogy presso l’Università di Edimburgo — è oggi una delle voci più autorevoli del dibattito pedagogico internazionale, e uno degli studiosi più citati nella pubblicistica del settore. Si deve perciò sottolineare l’importanza di mettere per la prima volta a disposizione del lettore italiano una sua opera (grazie all’iniziativa dell’editrice Raffaello Cortina e dei curatori del volume, Francesco Cappa e Paolo Landri), auspicando che ne seguano altre.
In questa sede, non posso dare un riassunto organico di quest’opera. Mi limiterò, perciò, ad accennare ad alcuni passaggi particolarmente rilevanti.
Biesta osserva che, rispetto all’attuale enfasi sull’apprendimento (solitamente appannaggio di coloro che si pretendono schierati a favore dell’innovazione), il ruolo dell’insegnamento è spesso difeso dai conservatori — che lo connettono per lo più alla necessità di ripristinare il principio di autorità, che vedono oggi compromesso. E qui Biesta compie la prima mossa: le cose stanno davvero così? Difendere il ruolo dell’insegnamento significa ipso facto schierarsi dalla parte della conservazione? Egli lo nega, e dichiara di volere assumere l’insegnamento da un punto di vista progressista. Ma allora, la scuola centrata sull’apprendimento difesa dagli innovatori? A questo proposito, Biesta avanza la critica di quella che definisce come la learnification, ossia la riduzione di tutta la problematica dell’educazione e dell’istruzione in termini di apprendimento, trascurando questioni educative più ampie e pregnanti, a partire dal cruciale problema delle finalità. Si tratta della mossa per la quale egli è più noto, e che implica delicate questioni epistemologiche. Si pensi alla teoria dei livelli logici dell’apprendimento di Gregory Bateson (Verso un’ecologia della mente, Milano, Adelphi, 1976), che mostra la complessità, l’ampiezza e la profondità dei processi d’apprendimento rispetto alla mente umana. E che fa pensare che l’educazione sia strettamente legata a tali processi.
Credo però che la critica di Biesta alla learnification acquisisca il suo pieno significato se viene collegata a quella che egli definisce come l’«industria globale della misurazione dell’istruzione» (p. 8). Si tratta cioè del complesso dei sistemi di valutazione degli apprendimenti scolastici nei termini di prestazioni oggettivamente controllabili, ai quali abbiamo sopra accennato. Se muoviamo da questa connessione, la learnification consiste essenzialmente nella riduzione della formazione scolastica a un insieme di performance misurabili con i test oggettivi di profitto. E a questo proposito, la critica di Biesta rappresenta una vera e propria boccata d’ossigeno per una scuola che sta diventando cianotica. Siamo sicuri che la formazione scolastica si esaurisca negli apprendimenti misurati dall’INVALSI o dalle indagini Pisa? Non stiamo perdendo di vista un senso più ampio e impegnativo dell’educazione e dell’istruzione? Non ne stiamo trascurando aspetti cruciali e finalità fondamentali? Ed è sensato, è ragionevole, sostenere che ci si deve concentrare soltanto su ciò che è misurabile e rendicontabile? Sono interrogativi che fa nascere la lettura di Biesta. Ma proseguiamo.
Chiarito che l’enfasi sull’apprendimento non è necessariamente progressista, Biesta compie un’ulteriore mossa problematizzando il rapporto tra l’insegnamento e l’apprendimento. Solitamente si pensa che la funzione dell’insegnamento sia quella di produrre o di facilitare l’apprendimento, ma questo significa accettarne una visione riduttiva e semplicistica. Una versione ampia e impegnativa dell’insegnamento lo mette in connessione non solo con l’istruzione, ma con l’educazione. Il compito dell’insegnamento, cioè, è prioritariamente un compito educativo. Il nesso tra insegnamento e educazione non è inedito. Per esempio, era stato tematizzato con la consueta acutezza da George Simmel (Schulpädagogik, 1922; trad. it., L’educazione come vita, Udine, Mimesis, 2019, pp. 77-107), sebbene con le categorie disponibili all’epoca (a partire da quella della Bildung). Ma riproporre questa connessione nell’epoca della learnification e dell’industria globale della misurazione è una scelta coraggiosa e altamente significativa.
Veniamo all’ultima mossa teorica a cui accenneremo (ma che avrebbe bisogno di una trattazione estesa). Il quadro culturale di riferimento prescelto da Biesta per ripensare l’insegnamento nella connessione con l’educazione (oltre che con l’istruzione) è la filosofia di Emmanuel Lévinas. Si tratta di uno dei più grandi pensatori della seconda parte del Novecento. Anche chi (come il sottoscritto) non assume la sua opera come riferimento primario, non può che riconoscere l’importanza e la fecondità di molti suoi aspetti. Come è noto, la filosofia di Lévinas (faccio riferimento alla sua raccolta di saggi Tra noi, Milano, Jaca Book, 2016) vede la soggettività come fondata sul rapporto con l’altro (il cui volto si dà come un centro di radicale alterità che ci interpella e ci giudica), e pone tale rapporto nei termini della responsabilità nei confronti dell’altro. Muovendo da tale filosofia, l’insegnamento non si pone come un atto egologico, bensì eterologico, come un rapporto con l’altro che si configura in termini etici ed esistenziali, più che conoscitivi. A partire da questa concezione, Biesta presenta l’insegnamento nei termini di un compito educativo che non è fondato egologicamente sull’insegnante, bensì sulla sua responsabilità etica rispetto alla soggettività dello scolaro. E tale compito è quello di «rendere possibile l’esistenza adulta di un altro essere umano nel e con il mondo. [… Ossia] nell’accendere il desiderio di voler essere nel e con il mondo in modo adulto, cioè in quanto soggetto» (p. 15). Al di là dell’astrattezza con cui è presentato questo compito educativo, non deve sfuggire il tentativo di caratterizzarlo secondo un orizzonte di senso ampio e profondo, lontano dai riduzionismi della learnification. E questa mi pare l’esigenza pedagogica posta da Biesta.
Questo implica che l’insegnamento ponga tra le sue coordinate quella della emancipazione (da qui il profilo progressista dell’insegnamento), alla quale Biesta dà una caratterizzazione originale, riprendendo in forma critica le teorie di Freire e di Rancière. In estrema sintesi (ma sarebbe necessaria un’analisi articolata), egli non lega l’emancipazione alla definizione di specifiche strategie didattiche, bensì a un atteggiamento pedagogico verso lo scolaro. Si tratta, cioè, di assumere un atteggiamento di profonda fiducia verso le possibilità dello studente, al di là delle prove di sé che questi è in grado di dare nell’immediato, schiudendogli così un futuro aperto e affrancato da ipoteche precostituite. In altre parole, ponendosi in dissenso verso le concezioni deterministe (che ritengono che l’educabilità di un soggetto sia vincolata dal suo corredo genetico o dal suo ambiente sociale), Biesta indica che per ogni scolaro l’educazione è un’avventura aperta, i cui esiti non sono prevedibili o predeterminabili. Questo atteggiamento va mantenuto anche con lo scolaro, negandogli la possibilità di dichiararsi incapace, richiamandolo a superare il senso di impotenza, a farsi carico di sé e della propria soggettività, a tentare quello che può apparirgli impossibile. Si tratta di un atteggiamento di natura etico-esistenziale (ma anche politica), più che conoscitiva, e che si definisce sul piano pedagogico, prima ancora che didattico. Si può, anzi, osservare che tale atteggiamento pedagogico appare preliminare all’adozione di qualsiasi specifica strategia didattica, il cui senso sarebbe fin dall’inizio depotenziato da un’eventuale scarsa fiducia nelle possibilità dello scolaro. Per analizzare la struttura del compito educativo e le implicazioni inerenti all’emancipazione occorrerebbe però un saggio, anziché una recensione.
Concludendo, il volume di Biesta solleva importanti domande sulla scuola, sull’educazione, sull’istruzione, sull’insegnamento e sui suoi rapporti con l’apprendimento. Ciò che mi preme sottolineare è che anche chi non condivide le sue risposte non può fare a meno di riconoscere l’importanza delle questioni che egli solleva. Come si è accennato, Biesta asserisce che con l’insegnamento il soggetto è interpellato in quanto tale, è sollecitato ad assumere la propria soggettività, gli si rifiuta la pretesa di essere incapace di sollevarsi ad essa. Bene. Analogamente, si può dire che questo libro interpella il lettore, lo spinge a sollevarsi al di sopra di un pigro adagiamento sui luoghi comuni della scuola neoliberista, della learnification e dell’industria globale della misurazione dell’istruzione. Lo sollecita, kantianamente, a ripensare la questione della scuola e dell’insegnamento con la propria testa.
Massimo Baldacci