Vol. 6, n. 2 ottobre 2020

Bisogni educativi speciali

Le associazioni della disabilità: tra Stato e società civile

L’emergere di una questione sociale e le prime associazioni

Matteo Schianchi1

Sommario

Le associazioni di persone con disabilità hanno svolto un ruolo importante nel portare le questioni relative alla disabilità nell’agenda nazionale in Italia. Queste organizzazioni hanno avuto la tendenza a rappresentare singole categorie di persone con disabilità o, più recentemente, a formare grandi federazioni: un dialogo del mondo della pedagogia e della didattica con questa realtà è necessario per una comprensione più completa della disabilità.

Parole chiave

Disabilità, associazioni, Stato sociale, Convenzione Onu.

special educational needs

Disability associations: between State and civil society

The emergence of a social issue and the first associations

Matteo Schianchi2

Abstract

Associations for persons with disabilities have played an important role in bringing issues related to disability onto the national agenda in Italy. These organisations have tended either to represent fragmented subsets of people with disabilities or, more recently, to form large federations: a dialogue between the world of pedagogy and didactics and this world is necessary for a more complete understanding of disability.

Keywords

Disability, associations, welfare state, inclusion, UN Convention.

Le associazioni delle persone con disabilità e dei familiari si sono costruite una posizione di rappresentanza nello scenario politico-sociale italiano. Tale ruolo ha fatto avanzare i temi della disabilità contribuendo «alla costruzione di nuovi comportamenti e consapevolezze nella sfera pubblica e nei modelli di cittadinanza» (Mura, 2007, p. 413). Nel contempo, l’esperienza e la gestione diretta delle molte situazioni e condizioni di cui è fatta la disabilità ne fa un soggetto con specifiche forme di conoscenze ed expertise (Mura, 2004).

Nondimeno, quando chi si occupa di disabilità in una prospettiva pedagogica e didattica incontra le associazioni, tra le due istanze, specie su scala nazionale, emergono alcuni antagonismi: è accaduto, ad esempio, attorno alle concezioni e alle modalità per la riforma del sostegno scolastico (Ianes, 2016). Al crocevia della disabilità si giunge con posizioni, culture, approcci propri della storia e dei campi di riferimento dei soggetti in causa. Forse anche per questo è ridotta la letteratura italiana di stampo pedagogico che affronta la questione. È ugualmente parziale la ricostruzione storica sul movimento associativo (Schianchi, 2014; Griffo, 2015) fatta spesso di testi celebrativi, di memoria, di respiro ora locale ora nazionale, raramente attestati su criteri scientifici o di più ampia analisi sociale.

Propongo dunque una storia del movimento associativo per metterne in luce non solo una cronologia, ma una serie di temi e questioni principali. In conclusione, mi soffermo su alcuni nodi che interrogano la relazione tra ricerca pedagogico-didattica e mondo associativo.

L’emergere di una questione sociale

La presenza di individui con diverse menomazioni (fisiche, intellettive, sensoriali e psichiche) è parte della storia umana; la cosiddetta pedagogia speciale ha modificato completamente lo statuto di queste persone, ma è la Prima Guerra Mondiale che inventa quella che oggi chiamiamo «disabilità», dando il via a una riflessione sul tema (Schianchi, 2012). Con la grande guerra, l’impatto numerico e sociale del fenomeno assume proporzioni inedite. Prima di allora, per esempio, stando ai numeri degli assistiti, gli infermi erano meno di 100 mila (Schianchi, 2019b); nel 1918, le pensioni erogate a soldati infermi erano oltre 450 mila (Bracco, 2012).

La disabilità diventa un tema politico-sociale come non lo era mai stata prima. La risposta è data, anzitutto, all’interno dei dispositivi pubblici e della prima formulazione dello Stato sociale che imprime significati e dinamiche inediti. Ancora oggi, la nostra concezione di disabilità è legata allo Stato, alla dimensione pubblica. La nascita delle istituzioni pubbliche per la disabilità e delle prime associazioni è simultanea.

Nel marzo 1917 è istituita l’Opera nazionale per la protezione e l’assistenza agli invalidi di guerra che prevede: assistenza sanitaria (ricovero, protesi, riabilitazione); assistenza materiale (pensioni di inabilità per militari invalidi), assistenza sociale (istruzione e reinserimento lavorativo). È la prima grande legge in fatto di disabilità. Nel gennaio 1917, Aurelio Nicolodi, rimasto cieco in guerra, fonda l’Associazione nazionale per ciechi di guerra. Il coinvolgimento delle persone che vivono sulla propria pelle la disabilità è un aspetto di forza e di legittimazione delle associazioni. Qualche mese dopo, l’Associazione nazionale per ciechi di guerra si unisce all’Associazione nazionale fra i mutilati e gli invalidi di guerra (ANMIG), i cui primi tre congressi (1918-1920) pongono temi decisivi: sostegno morale e materiale dei propri aderenti attraverso un intervento presso i pubblici poteri e le amministrazioni; ruolo di intermediazione tra aziende e lavoratori. Di matrice apolitica, ANMIG ha un orientamento patriottico e auspica la nascita di un movimento estraneo alle tradizionali concezioni politiche. Tra il 1920 e il 1921 ANMIG sostiene alcune iniziative locali per un più efficace riconoscimento del diritto alle pensioni di guerra. La spinta politica di questa associazione è travolta dal fascismo che ha fatto rientrare nella sua orbita i sodalizi di ex combattenti e invalidi (Pavan della Torre, 2015).

Nel 1919 era intanto nata la Lega proletaria mutilati invalidi reduci orfani e vedove di guerra (Isola, 1990). Nel 1920 sorge l’Unione italiana Ciechi (UIC) che partecipa ai lavori della riforma scolastica (1923) che estende l’obbligo della scolarità per ciechi e sordomuti. Gli istituti dei ciechi sono trasformati in organi scolastici. Per alunni con disabilità intellettive sono istituite le classi differenziali: al momento è solo una misura formale priva di attuazioni. È dunque chiaro l’impatto dei sodalizi nell’evoluzione di alcuni dispositivi delle politiche pubbliche, ma anche il fatto che legittimità pubbliche e forme di assistenza hanno un carattere eterogeneo e variabile legato al tipo di disabilità.

Nel 1922 Enrico Giuseppe Prestini fonda la Federazione Italiana delle Associazioni fra i Sordomuti (FIAS). Nel 1924 nasce l’Unione Sordomuti Italiani. Nell’ottobre del 1925, Gaetano Pilati, imprenditore edile, socialista, mutilato a un braccio e segretario della Lega proletaria mutilati invalidi è ucciso da tre sicari fascisti. La fascistizzazione delle associazioni è l’unica possibilità della loro esistenza. Emblematica è la figura di Carlo Delcroix: nel 1917, rimasto cieco e mutilato in un’operazione di sminamento di una bomba, è tra i fondatori di ANMIG e suo presidente dal 1924. In questo stesso anno viene eletto parlamentare nella Lista nazionale fascista, per essere rieletto per altri due mandati (1924, 1929, 1934). Nel 1938 l’ANMIG è controllata dal direttorio del Partito nazionale fascista e si dispone il riconoscimento dell’anzianità a far data dal 1924 ai mutilati iscritti al partito. Nel 1939 Delcroix è consigliere della Camera dei Fasci e delle Corporazioni. Contrario all’alleanza con la Germania, viene arrestato nell’ottobre del 1943. Dopo la guerra, si lega al partito monarchico diventandone deputato (1953).

In quegli anni nascono altre associazioni. Nel 1932 nasce l’Ente Unico dei sordi italiani (riconosciuto nel 1942). Nel 1933 viene fondata a Milano l’Associazione nazionale fra lavoratori mutilati e invalidi del lavoro (ANMIL): l’ente ha vita molto breve (è ricostituita nel 1943) a causa dell’arresto di alcuni aderenti rilasciati dopo alcune rimostranze.

Già in questi anni sono evidenti alcuni aspetti decisivi: le associazioni si profilano come corpo intermedio, tra politica e società civile, con una partecipazione politica attiva e diretta; lo sviluppo di una impronta categoriale della disabilità; l’esclusione e i conseguenti tentativi di legittimazione di categorie e tipologie di disabilità per rientrare nei dispositivi pubblici. Si pone, per esempio, il tema degli invalidi civili che non rientrano nelle suddette categorie. Nel 1939, a Bologna, Giordano Bruno Guidi e una quarantina di persone con menomazioni fisiche intendono dar vita a un’associazione ostacolata dalla forza pubblica per adunanza sediziosa. La prima Associazione di invalidi civili in Italia è fondata da Guidi nell’ottobre 1945.

Disabilità e Stato sociale

La posizione di rappresentanza sociopolitica della disabilità ha continuamente posto le associazioni all’interno dello spazio pubblico costituito dalla natura stessa dello Stato sociale italiano #CHIEDERE AD AUTORI# nella sua formulazione definitiva col secondo dopoguerra.

La Costituzione italiana sancisce l’uguaglianza tra tutti i cittadini, la loro pari dignità sociale e legale, indipendentemente da condizioni personali e sociali, tra cui la disabilità. Inoltre «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3). L’art. 38, nel sancire il fondamentale diritto al mantenimento e all’assistenza sociale, individua due categorie di persone, riconoscendo a entrambe il diritto all’uguaglianza: i lavoratori e i cittadini inabili, sprovvisti di mezzi di sostentamento. Alla luce di questa distinzione, però, come considerare l’art. 3 che sostiene la piena partecipazione politica, economica e sociale del Paese di tutti i lavoratori? A tale partecipazione non hanno diritto gli inabili impossibilitati a lavorare? Cos’è il pieno sviluppo della persona umana sancito all’art. 3 se non comporta, per tutti, quella partecipazione? L’art. 38 introduce alcuni diritti, ma costruisce un vuoto, insinua una variabilità interpretativa che lascia alle leggi la possibilità di sancire il confine tra chi può partecipare alla vita della comunità e chi, non potendo provvedere a sé tramite lavoro, deve sottostare a regimi specifici che, in pratica, inficiano la proclamata uguaglianza di tutte le persone.

Di fatto, il lavoro è usato come termine di paragone per definire la disabilità. Secondo quella che è stata definita handicapologie, gli infermi si trovano, dal Medioevo sino all’avvento dello Stato sociale, con dispositivi eterogenei e a impatto variabile, fra gli incapaci: si tratta di popolazioni escluse da ogni partecipazione agli scambi produttivi (Castel, 1995, p. 85). Il tema si pone anche per la costruzione del Welfare State che si dispiega su due piani separati: lavoro e assistenza (Stone, 1984). Le evoluzioni delle politiche pubbliche in fatto di disabilità si sono dunque prodotte, in sintesi, all’interno di distinzioni tra piani separati dello Stato sociale, tra categorie distinte di cittadini. Ciascun Paese ha poi formulato il proprio impianto che, per l’Italia, è stato interpretato secondo un modello particolaristico che affonda le radici nelle protezioni sociali introdotte a fine Ottocento. Le prestazioni hanno come punto di riferimento una categoria, un ceto o un gruppo e sono differenziate sulla base dello «status» acquisito dall’individuo tramite la partecipazione al mercato del lavoro e l’affiliazione categoriale (Ascoli, 2011).

In questo quadro, parte del lavoro delle associazioni italiane è consistito nell’acquisire una posizione e una legittimità come soggetto specifico, necessaria al riconoscimento giuridico-medico per poter accedere allo Stato sociale. Si pone così un’altra questione. Se per alcuni si tratta di accedere allo Stato sociale (riconoscimento, cura, riabilitazione), mentre altri vi sono già inseriti, come è possibile pensare una dimensione sociale più generale, al di fuori della dimensione assistenziale?

Il secondo dopoguerra

Il movimento associativo si sviluppa fortemente nel dopoguerra. Nel marzo del 1945 si costituisce a Roma l’Unione Nazionale Mutilati per Servizio, fondata in realtà nel 1937 a Brescia su impulso di Andrea Gaspari, tenente dell’esercito rimasto mutilato. Nel novembre del 1954 è istituita a Roma l’Associazione Italiana Assistenza Spastici (AIAS) su iniziativa di alcuni genitori. Tale sodalizio ha un ruolo decisivo nella promulgazione della legge n. 218/1954 per la cura riabilitativa, scolastica e educativa per bambini discinetici poveri.

Nel 1956, Alvido Lambrilli, Franco Quaranta e Raffaele Leone fondano a Taranto l’Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi Civili (ANMIC) che è tra i soggetti che indicono la prima manifestazione popolare a sostegno delle persone disabili; nel 1960 organizza il primo convegno nazionale sui temi della disabilità. Il suo crescente peso politico ne fa un ente di diritto pubblico (1965) con un ruolo decisivo nel raddoppio dell’importo delle pensioni di invalidità (1969).

Nell’ottobre 1957, a Bologna, nasce l’Associazione Nazionale Invalidi per Esiti di Poliomielite (ANIEP). Nel marzo 1958 sorge a Roma, sulla spinta di un gruppo di genitori guidati da Maria Luisa Ubershag Menegotto, l’Associazione Nazionale Famiglie di Fanciulli Minorati Psichici (ANFFAS dal 1960). Nel 1959 l’Associazione aveva inviato ai rappresentati del governo un testo in cui si indicavano azioni per il miglioramento delle condizioni delle persone con disabilità psichica e dei loro congiunti. Nel 1960 sorge l’Associazione Nazionale Invalidi Civili (ANICI). Nel dicembre 1961, a Trieste, Federico Milcovich fonda l’Unione italiana lotta alla distrofia muscolare (UILDM), impegnata anche nel campo della ricerca scientifica. Nel 1962 una piattaforma unitaria di queste associazioni ottiene la prima legge sul collocamento al lavoro. In precedenza, il tema del lavoro aveva trovato risposte specifiche per singole categorie: assunzione di centralinisti telefonici ciechi (1957); disposizioni per l’assunzione obbligatoria di persone sordomute (1958).

Tra la metà degli anni Cinquanta e la fine degli anni Sessanta, la promozione delle istanze delle associazioni ha come momento di maggiore visibilità le manifestazioni di piazza note come marce del dolore (1954, 1961, 1964). Si è trattato di eventi dal grande significato simbolico che hanno portato alla ribalta la questione in termini politico-sociali accelerando alcuni riconoscimenti legislativi (provvidenze economiche, collocamento obbligatorio, legge-quadro del 1971) in una sorta di reazione a catena (Selleri, 1983). La marcia del dolore del 1961 sostiene le istanze degli invalidi civili; quella del gennaio 1968 subisce alcune cariche da parte della polizia e porta a uno sciopero della fame di dieci giorni davanti al Parlamento.

Il fervore politico e sociale degli anni Sessanta e Settanta coinvolge anche il mondo della disabilità. Non abbiano echi di quanto stesse avvenendo nel mondo anglosassone con le prime formulazioni del modello sociale della disabilità e del concetto di vita indipendente, ma le movenze italiane non sono meno significative. Emergono istanze legate alla deistituzionalizzazione, all’integrazione scolastica e all’inserimento sociale. Molti movimenti si sviluppano a partire da esperienze del volontariato laico e religioso: crescono cooperative sociali per i servizi di assistenza territoriali (in antitesi con le istituzioni totali) e per l’inserimento lavorativo. Il movimento è legato, in parte, a quello per la chiusura dei manicomi.

Nel 1966, a Fermo, nasce la Comunità di Capodarco: tredici persone disabili e un giovane prete, don Franco Monterubbianesi, avviano una vita in comune all’interno di una villa abbandonata. Nel 1968 nasce l’Associazione italiana sclerosi multipla (AISM). Nel 1973 sorge Famiglie Italiane Associate per la difesa dei diritti degli audiolesi (FIADDA). Nel 1976, Rosanna Benzi, dal suo polmone d’acciaio, dirige la rivista Gli Altri che, con il notiziario Informazione e riabilitazione (fondazione don Gnocchi), costituisce la prima iniziativa italiana strutturata del mondo della disabilità di informazione con un impatto più generale e con l’obiettivo di uscire da una sorta di autoreferenzialità. La rivista diretta da Benzi lancia campagne di sensibilizzazione su alcuni temi tra disabilità ed emarginazione sociale, contro le barriere architettoniche, per le agevolazioni fiscali, per il diritto alla sessualità. Dall’esperienza di Benzi nasce nel 1979 la Lega nazionale per il diritto al lavoro degli handicappati; in precedenza (1976) era nato il Fronte Radicale Invalidi (poi Lega Arcobaleno), fondato da Bernardini Tescari, focalizzata su: diritti in termini di servizi (più che di emolumenti economici), abbattimento delle barriere architettoniche, diritto al lavoro. Agli sviluppi che portano alla legge del 1977, che sancisce il diritto alla frequenza scolastica di tutti gli alunni con disabilità in un unico ciclo scolastico, partecipano anche le associazioni. Una delle figure di riferimento dei provvedimenti che portano a questa svolta decisiva è Mirella Antonione Casale, nella veste di dirigente scolastico e di madre di una figlia con disabilità legata ad ANFFAS.

Nel 1979 nascono diversi sodalizi: a Roma l’Associazione Italiana Paraplegici, organismo di tutela e di promozione della qualità della vita di chi ha lesioni midollari; a Milano la Lega per i diritti degli handicappati (LEDHA) che riunisce le associazioni lombarde e intende difendere i diritti e la dignità delle persone con disabilità e dei familiari; infine, l’Associazione Bambini Down, poi AIPD.

Nel corso degli anni Ottanta si sviluppa un dibattito sulla natura dello Stato sociale relativo alla disabilità, sulle sue caratteristiche che ne fanno un sistema complesso, frammentato e lacunoso. Nel 1980 molte realtà associative, guidate della Lega Nazionale per il Lavoro degli Handicappati, elaborano una proposta di legge d’iniziativa popolare per la riforma del collocamento obbligatorio: le 120.000 firme raccolte sono presentate al Parlamento e al Presidente della Repubblica (1980). La crescita del numero di associazioni in questi anni è legata anche allo sviluppo del volontariato. Si registra una maggior partecipazione di persone con disabilità e familiari, ma anche una frammentazione delle istanze e delle culture. Questo implica la necessità di più forti aggregazioni tra le associazioni, almeno su alcuni grandi temi.

La necessità di creare un fronte associativo comune si sviluppa dalla prima metà degli anni Ottanta e coinvolge: Federhand per le associazioni campane, Coordinamento Sanità e Assistenza in Piemonte, Comitato Unitario Invalidi per le associazioni toscane e Coordinamento in Sicilia. Il processo di unificazione delle associazioni risponde alla necessità di una partecipazione attiva nella definizione delle politiche e degli interventi sulla disabilità, anche in relazione alla costruzione del Sistema sanitario nazionale e alle deleghe regionali in materia di sanità. Il mondo delle associazioni è inoltre attraversato da una crescente insofferenza sia per l’esistenza di velocità diverse del welfare (forti distinzioni previdenziali e assistenziali in relazione al tipo di invalidità, forti squilibri Nord-Sud), sia per le mediazioni delle associazioni più grandi con le istituzioni, concentrate più sugli interessi dei sodalizi rispetto ai diritti delle persone con disabilità e dei familiari.

In questo contesto nasce anche l’espressione dopo di noi per identificare strutture e servizi che possano farsi carico dell’esistenza dei figli con disabilità quando i genitori non saranno più in vita. Questa istanza esclude l’idea dei grandi istituti come soluzione e prevede servizi anche durante noi.

Nel corso degli anni Ottanta nasce l’Associazione nazionale genitori soggetti autistici (ANGSA, 1985) e si sviluppano organizzazioni legate a forme di disabilità fino a quel momento non diagnosticate (Associazione Italiana Sclerosi Laterale Amiotrofica AISLA, 1983).

I lavori da cui scaturisce la legge quadro 104/1992 hanno segnato un ulteriore momento di svolta nella rappresentanza associativa con l’istituzione di un ampio gruppo di lavoro presso il Dipartimento agli Affari Sociali della Presidenza del Consiglio. Vi partecipano oltre trenta associazioni. I dissidi interni al mondo associazionistico sorti in tale occasione portano alla nascita di: Federazione italiana per il superamento dell’handicap (FISH, 1993) e Federazione tra le associazioni nazionali dei disabili (FAND, 1997).

Si fondano poi le sezioni italiane del movimento per la vita indipendente (ENIL, 1991) e di Disabled Peoples international (DPI, 1994). Oltre che nelle istanze proposte dai contesti internazionali di loro pertinenza, queste associazioni trovano ispirazione nel lavoro sui diritti umani delle persone con disabilità realizzato nel contesto delle Nazioni unite. A metà degli anni Novanta si sviluppano reti di associazioni in dialogo con le istituzioni e le reti associative europee: Consiglio nazionale sulle disabilità (CND, European Disability Forum), Consiglio italiano dei disabili per i rapporti con l’Unione europea (CIDUE).

Nuovo welfare e Convenzione Onu

Negli anni Novanta cresce il numero di associazioni locali. È il segno dello sviluppo del volontariato, di un maggior protagonismo delle persone con disabilità e dei familiari, della necessità di radicare nella dialettica sociopolitica dei singoli territori diritti e necessità di varia natura (dall’assistenza al tempo libero allo sport) a confronto con istanze che erogano servizi socioassistenziali. La diffusione del web dà impulso a nuove modalità di comunicazione e organizzative, alla nascita di organizzazioni informali, allo sviluppo di battaglie specifiche. Nascono anche nuove organizzazioni che si indirizzano sulla partecipazione politica diretta (MID, ANIDA, MEDA).

Da allora, il movimento associativo ha dovuto confrontarsi con un ridisegno dello Stato sociale che introduce enti che stanno in logiche diverse, comprese quelle del mercato, «con la conseguenza che le politiche sociali si configurano come l’espressione di una molteplicità di soggetti attraverso una redistribuzione di potere e d’iniziative» (Ripamonti, 2011, p. 4). Il concetto di governance è il tentativo di riconfigurare la relazione pubblico-privato secondo una comune strategia d’intervento che sembra vedere le parti impegnate verso un interesse collettivo. Questa evoluzione, fra pubblico e privato, porta ad azioni collettive che non hanno un carattere rivendicativo ma principalmente regolativo (Biorcio e Vitale, 2016). Il riconoscimento delle associazioni nel welfare è sancito da alcune leggi (n. 283/2000, n. 328/2000) che ne individuano un tassello decisivo nell’erogazione di alcuni servizi. Si riconosce uno storico ruolo di rappresentanza, mediazione e azione, ma, allo stesso tempo, si pongono interrogativi sull’identità e le funzioni delle associazioni (Mura, 2007).

Negli ultimi anni, le grandi federazioni hanno sostenuto l’approvazione della Convenzione Onu su diritti delle persone con disabilità (2006) diventata anche legge italiana (n. 18/2009). Questo documento internazionale è stato un volano decisivo per la condivisione di concetti e linguaggi trasversali alle diverse categorie di disabilità; ha costruito, come mai era accaduto prima, un orizzonte collettivo all’interno di un mondo associativo frastagliato e diviso a livello locale e in grandi federazioni. La concezione della disabilità basata sul modello dei diritti umani proposta dalla Convenzione pone fine, almeno sul piano formale, alle distinzioni tra cittadini diversi (lavoratori-disabili) sancite dal modello di welfare costruitosi dal secondo dopoguerra. Permangono, nondimeno, logiche e dinamiche legate alla strutturazione storica dell’accesso al welfare. Inoltre, le involuzioni generali dello Stato sociale e le logiche neoliberiste che vi si sono introdotte pongono le associazioni stesse in una situazione paradossale: si trovano sia a sostenere i concetti della Convenzione, sia a difendere uno Stato sociale tipicamente assistenziale.

In questo scenario sono avvenute alcune manifestazioni di piazza con la partecipazione delle grandi federazioni (Roma 2010, 2012) e sono emerse nuove realtà associative (nel novembre 2012 i membri del Comitato 16 novembre onlus hanno protestato a Roma, pronti e pronte a lasciarsi morire, per affermare il diritto costituzionale alle cure).

La crescita delle associazioni, così come il distinguersi di alcune di loro dalle grandi federazioni è in realtà un fenomeno più articolato legato alla partecipazione della società civile nel suo complesso all’interno di uno scenario in cui si registra una svalutazione delle tradizionali forme e rappresentanze dei classici soggetti politici. Per il mondo della disabilità questa nuova partecipazione non è avvenuta per distacco o scissione dai tradizionali soggetti di rappresentanza, ma ha prodotto nuove modalità. Da una parte sembra esserci una maggiore consapevolezza dei propri diritti individuali; il non trovare istanze di tutela e rappresentanza in formazioni già esistenti porta a una partecipazione diretta attraverso la creazione di proprie associazioni, più che attraverso l’affiliazione ad associazioni già esistenti. Questa vivacità, tuttavia, deve confrontarsi con alcuni nodi critici.

Anzitutto con le evoluzioni, o meglio le involuzioni, del Welfare State. Il fatto di essere, ormai legittimamente, un soggetto a pieno titolo dello stesso Stato sociale non sempre permette uno sguardo critico e radicale su questo scenario. Il dibattito sul tema della segregazione delle persone con disabilità ancora presente nonostante la lunga fase di de-istituzionalizzazione avviata nel corso degli anni Settanta è stato tutto sommato timidamente accolto nel mondo associativo nel suo complesso nonostante sia stato avviato proprio al suo interno (Merlo e Tarantino, 2018). Altre dimensioni, oltre a una serie di difficoltà legate a un mancato ricambio generazionale nella direzione delle associazioni locali e nazionali, non fanno parte di un diffuso dibattito nel mondo associativo: la precarizzazione dei lavoratori del sociale, il monopolio di un paradigma sanitario in luogo di un approccio sociale alla condizione di disabilità, la diffusione di logiche neoliberiste e di funzioni aziendalistiche nella gestione dei servizi, la gestione individualistica delle dimensioni sociali (Tramma, 2015; Della Valle e Cellini, 2017; Iori, 2018).

Conclusioni

Come si diceva inizialmente, le distanze tra istanze pedagogiche e mondo associativo sono frequenti. Mi auguro di aver fornito in questa sede chiavi di lettura utili a comprendere meglio, al di là delle lotte di potere e del diritto di primogenitura ad avere voce in capitolo, le dinamiche e le logiche attraverso cui si è configurato il tessuto associativo, comprese le contraddizioni.

I due mondi sono oggi accomunati dal loro essere travolti da alcune dinamiche decisive: la crisi dei servizi e delle agenzie educative, con il relativo disagio professionale (Palmieri, 2018) si somma alle involuzioni dello Stato sociale. A differenza del passato, in cui il principale punto di incrocio sembrava essere genericamente la disabilità, oggi sono certamente condivisi i quadri di riferimento teorici e sociali.

Il modello sociale della disabilità è ormai il criterio e la cultura di riferimento. Su questo fronte, la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (ICF, 2001) e la Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, nella definizione stessa di disabilità intesa come legata a logiche di dinamiche e contesti, e non di fattori personali, sono un terreno condiviso. È ormai chiaro che la disabilità non può più essere considerata una specificità intrinseca degli individui, ma una caratteristica la cui gestione chiama in causa i contesti e le figure professionali. Si ridisegna sul piano concettuale la partecipazione delle persone ai processi sociali, di apprendimento, di espressione di sé. Il modello bio-psico-sociale e ICF costituiscono una filosofia, e una procedura stessa attraverso cui realizzare, per esempio, il lavoro didattico (Lascioli e Pasqualotto, 2019; Ianes, Cramerotti e Scapin, 2019).

La condivisione di questo orizzonte ha portato a pensare e realizzare numerose collaborazioni tra istituzioni accademiche e associazioni del territorio per progetti specifici (Curto e Marchisio, 2013; Zappaterra, 2018; Curto e Marchisio, 2020).

C’è tuttavia un antagonismo tra mondo della pedagogia e della didattica e mondo associativo che, anche all’interno dell’orizzonte condiviso, continua a proporsi. Allorché, nell’ambito della ricerca pedagogica e della didattica, si è sposato il modello ICF, tale approccio è considerato ancora di stampo medico da parte di alcune istanze associative che prediligono l’approccio basato sui diritti umani proposto dalla Convenzione Onu (Alves, Bosisio Fazzi e Griffo, 2010). Tale distanza è confortata dai Disability Studies in Education (DSE) che, nella lecita critica agli attuali processi dell’educazione inclusiva, intendono indirizzare la ricerca pedagogica verso forme di insegnamento e apprendimento che spostino l’accento dalle caratteristiche dell’individuo a un’analisi delle barriere alla partecipazione e all’apprendimento incontrate dagli alunni all’interno del sistema scolastico (D’Alessio, 2013, p. 115).

È innegabile il fatto che alle persone con disabilità spettino diritti umani imprescindibili. È innegabile che i principali ostacoli alle pratiche educative inclusive, come quelle scolastiche, siano legate al rinnovarsi di una «tradizionale tendenza della scuola a riconoscere e comprendere le situazioni problematiche solo in funzione di una particolare categoria» (Dovigo, 2008, p. 18). In questo senso, non è sufficiente adottare il modello ICF, ma è necessaria una nuova lettura delle differenze, dei processi educativi che, nella pratica corrente, restano basati su modelli riduzionisti e di etichettamento, basati sul deficit. Tuttavia, le nuove pratiche didattiche e pedagogiche non possono essere intraprese, semplicemente, considerando le menomazioni (termine, peraltro, della cultura medica) come un accessorio che sta nella diversità umana. Quelle menomazioni (specie se complesse) incidono nel vissuto degli individui. Ciò non significa avvallare né giustificare qualsiasi atteggiamento discriminatorio fondato sulla presenza di quelle menomazioni, né è possibile pensare che siano le linee guida e le indicazioni ministeriali (su cui si basa spesso anche la formazione agli studenti universitari) a rappresentare il fulcro delle evoluzioni nel campo della disabilità. Significa invece che quelle diverse modalità di funzionamento (legate alle menomazioni) implicano articolati sistemi di relazioni, accorgimenti, partecipazioni. Non realizzarli è discriminatorio, negare la complessità della loro realizzazione è ideologico.

Il terreno su cui il mondo della pedagogia e della didattica e il mondo associativo possono trovare punti di incontro è proprio quello dell’elaborazione teorica, oltre che pratica che muova dal principio che i servizi (alla persona, scolastici, ecc.), le politiche e i dispositivi che li conformano, così come gli stessi modelli o framework di spiegazione (modello sociale, ICF, Convenzione Onu) sono sempre costruzioni socioculturali. Rendere i servizi didattici e pedagogici più inclusivi significa confrontarsi con una complessità che non può essere letta né risolta per principio, ma impone di confrontarsi nella pratica su terreni in cui i saperi, le esperienze e le culture di approcci diversi alla disabilità devono poter convergere, più che confliggere.

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1 Ricercatore presso il Dipartimento di scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Milano Bicocca. Sui temi della disabilità ha pubblicato La terza nazione del mondo. I disabili tra pregiudizio e realtà (Feltrinelli, 2009), Storia della disabilità. Dal castigo degli dèi alla crisi del welfare (Carocci, 2012), Le social derrière le handicap. Etude historique du cas italien (L’Harmattan, 2019), Il debito simbolico. Uno studio di storia della disabilità in Italia tra Otto e Novecento (Carocci, 2019).

2 Researcher at the Department of Education Sciences at the University of Milano-Bicocca. He has published the following titles on disability La terza nazione del mondo. I disabili tra pregiudizio e realtà (Feltrinelli, 2009), Storia della disabilità. Dal castigo degli dèi alla crisi del welfare (Carocci, 2012), Le social derrière le handicap. Etude historique du cas italien (L’Harmattan, 2019), Il debito simbolico. Uno studio di storia della disabilità in Italia tra Otto e Novecento (Carocci, 2019).

Vol. 6, Issue 2, October 2020

 

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