Vol. 6, n. 2 ottobre 2020

Teoria della formazione: contesti professionali

La formazione degli insegnanti

Dalla scuola dell’infanzia all’università: contenuti, metodi e prospettive

Michele Corsi1

Sommario

L’articolo analizza l’intero quadro della formazione docente: dalla scuola dell’infanzia all’università. In una prospettiva temporale che dal passato prossimo si affaccia su un futuro a oggi poco prevedibile, tracciandone lo stato dell’arte, transitando attraverso i Corsi di Laurea al riguardo e i vari itinerari formativi trascorsi o tuttora vigenti, sino alle passarelle giuridiche e di percorso previste all’interno di questo pacchetto, per giungere, infine, a dar conto dell’attuale configurazione dei Corsi di Sostegno e dell’ipotesi di modifica in cantiere, a oggi ritenuta maggioritaria, con una specifica attenzione alla fascia degli allievi che va dai 3 agli 11 anni. L’articolo, quindi, in un secondo momento esamina il cuore dell’attività docente e cioè l’insegnamento, in merito ai due segmenti costitutivi, e interrelati fra loro, dell’istruzione e dell’educazione, sullo sfondo di una società, e delle sue varie componenti, in cambiamento veloce, caratterizzate da una forte retroazione positiva, come pure all’interno di un contesto scuola, attualmente connotato da crisi ed emergenze, sconosciute o con un impatto decisamente minore fino a qualche decennio fa. Ci si apre, infine, a proposte di innovazione radicale del comparto scolastico-universitario, dalla specifica formazione dei suoi docenti all’interconnesso ripensamento delle attività d’insegnamento, così da essere davvero all’altezza dei tempi e rispondere alle sfide del presente. Nondimeno a livello universitario, la cui mission è quella di formare i professionisti di domani.

Parole chiave

Scuola, università, insegnamento.

Educational theories: professional contexts

Teacher training

From nursery school to university: content, methods and perspectives

Michele Corsi2

Abstract

The article analyses the entire framework of teacher training: from nursery school to university. It moves on a timeline from the recent past towards a future that is no longer predictable, outlining the current situation, transiting via specific degree courses and the various training programmes offered or on offer, right up to the legal pathways envisaged as part of this package. Finally, it provides an account of the current set-up of support courses and of the hypothesis of on-site changes, now considered a prevailing trend, with specific attention to the age group of pupils between 3 and 11 years. It then proceeds to examine the core of a teacher’s work, namely, teaching, with regard to the two integral and interrelated elements it comprises: instruction and education. All this against the backdrop of a society and its various components which is in constant flux and is marked by distinct positive feedback, just as in a school context currently characterised by crises and emergencies, which were either unheard of or decidedly less impactful until a few decades ago. In the end, it opens up to radically innovative proposals in the education sector: from specific teacher training to the interconnected rethinking of teaching activities, in order to truly rise up to the challenges of our present times. Not least at the level of universities, whose mission it is to train tomorrow’s professionals.

Keywords

School, university, teaching.

Per entrare in argomento

Uno dei focus iniziali di questo contributo sarà il percorso di laurea quinquennale e a ciclo unico degli insegnanti della scuola dell’infanzia e della scuola primaria.

Analizzato su due crinali e in una prospettiva a tre velocità.

Un primo crinale, che indagheremo rapidamente, si colloca in una sorta di contesto rappresentato dai nuovi rapporti, e in progress, tra questo Corso di Laurea e i Corsi di Laurea in Scienze dell’educazione e della formazione (L-19) e in Scienze pedagogiche (LM-85), chiaramente per quanto riguarda la relazione tra questi ultimi due e la LM 85-bis.

Un secondo crinale, invece, concerne in particolare, e in forma longitudinalmente più ampia, la formazione degli insegnanti (Domenici, 2018):

  • dalla scuola dell’infanzia alla scuola secondaria superiore;
  • sul versante della formazione sia iniziale che permanente;
  • per estendersi sino alla docenza universitaria (Di Pol e Coggi, 2017).

In una logica di sistema che finisce col riguardare pressoché l’intero ambito della formazione docente.

Invece, le tre velocità temporali che prenderemo in considerazione sono:

  • ieri (che ci è ben noto);
  • soprattutto, l’oggi;
  • e, infine, il domani.

Il domani più immediato, che è maggiormente prevedibile, perché quello più distante è decisamente imprevedibile.

Essendo la materia della formazione degli insegnanti una materia politicamente sensibile da sempre, e pertanto in continua evoluzione. Anche troppo.

Basti pensare al percorso triennale di «Formazione, Insegnamento, Tirocinio» (il cui acronimo è FIT) per la formazione e il reclutamento degli insegnanti della scuola secondaria di primo e secondo grado, di cui alla Buona Scuola e alla legge n. 107 del 2015, e ai Governi Renzi e Gentiloni, e per il quale, praticamente sino a ieri, tanto impegno è stato profuso da molte Conferenze universitarie italiane e da un numero consistente di colleghe e colleghi di molteplici settori scientifico disciplinari; totalmente accantonato e archiviato, poi, dal primo Governo Conte e dall’allora Ministro Bussetti.

E domani?

E dopodomani?

Ma nessuno gridi allo scandalo.

Da Moratti a Mussi, da Gelmini a Giannini, a Fedeli, abbiamo registrato, infatti, costantemente un tale comportamento.

Vengo, quindi, al contesto.

La «materia»

Prendiamo le mosse dalla recente riforma della L-19 (nel 2018) e dai due nuovi indirizzi in «Educatore professionale socio-pedagogico» ed «Educatore dei servizi educativi per l’infanzia».

Di cui pure alla legge n. 205/2017, commi 594-601, come al precedente, basilare, disegno di legge «Iori e Altri». E anche al DM n. 378 del 9 maggio 2018 a firma della Ministra Fedeli.

E nondimeno a taluni commi dell’ultima legge di bilancio 2018 che favorisce l’assunzione, nei presidi sociosanitari, anche dei laureati in L-19 e lauree conseguenti.

Di cui pure al «Corso di qualificazione per Educatore professionale socio-pedagogico» per quanti già lavorano nelle strutture pubbliche e private, ma non dispongono del necessario titolo di studio.

Con un curricolo di 60 crediti formativi universitari: 32 di ambito pedagogico e 16 di dominio psico-sociologico, e 12 crediti formativi universitari di Project Work finale.

Una materia, questa, che riguarda i Dipartimenti che hanno attivi i Corsi di Laurea in L-19 per un intero triennio: dal 2018 al 2020.

Ma ciò che interessa, in specie, i Dipartimenti di Scienze della formazione è l’obbligo di attivare, nella interconnessione della L-19 con la LM-85 bis, uno specifico Corso di Formazione di 60 CFU che consenta, a tempo debito, ai laureati nella LM-85 bis di disporre, oltre al titolo di studio in Scienze della formazione primaria, della qualifica necessaria per poter operare, ed essere assunti, pure come educatori nei servizi educativi per l’infanzia. Il Corso va attivato:

  • anche nella direzione del passaggio dei laureati in Scienze dell’educazione e della formazione alla LM-85 bis;
  • con il connesso riconoscimento dei CFU precedentemente conseguiti, per i laureati in L-19, e l’ammissione al terzo anno, previo il superamento del test di ammissione;
  • ma, soprattutto, per il transito dei laureati in Scienze della formazione primaria verso l’ambito dei servizi per la prima infanzia.

In merito a ciò, la Conferenza Universitaria di Scienze della formazione già elaborò a suo tempo, il 23 febbraio 2018, una proposta di curricolo, con tanto di settori scientifico-disciplinari e relativi crediti formativi universitari, contenuti tematici, ecc.

E veniamo adesso più compiutamente al focus di questo contributo.

Quello che dovrebbe partire anche, a breve, tanto per i laureati in Scienze della formazione primaria che per quanti altri sono in possesso di lauree che prevedono, tra i loro sbocchi occupazionali, l’insegnamento, è la seconda edizione del Corso di Sostegno (Cottini, 2017) di 60 CFU.

Con la clausola aggiuntiva che, nel combinato disposto tra i commi rimasti in vigore della legge n. 107/2015 e la pressione esercitata al riguardo dalle associazioni di categoria (FISH, FAND, ecc.), un siffatto percorso di sostegno potrebbe essere ulteriormente portato a 120 CFU.

Con altri 60 CFU da acquisire prima di accedere al Corso di Sostegno vero e proprio: che rimarrà sempre di 60 CFU, ma che sarà riformato.

E ci sono già delle previsioni curricolari in proposito.

L’ipotesi in cantiere, in specie per Scienze della formazione primaria, è la seguente.

Quella, cioè, di metter mano all’attuale tabella della LM 85-bis (forse, oggi, è la previsione data per maggioritaria) con un curricolo aggiuntivo, specifico in materia, di 60 CFU, da poter frequentare sia durante il quinquennio che dopo. A misura delle 400 ore quando Scienze della formazione primaria era quadriennale e con due indirizzi: infanzia e primaria, e con una ulteriore passarella, allora, tra questi due percorsi.

Da tener conto, comunque, che la nuova tabella della LM-85 bis (di cui alla Commissione Israel) ha appena 9 anni di vita. Mentre la prima edizione di questo Corso di Laurea risale al 1998. Dunque, sarebbero già a tre cambiamenti in 20 anni.

E per la secondaria?

Oltre ai 24 CFU, unico baluardo rimasto in piedi del percorso FIT, prima, dal 1998 al 2007, avevamo le SSIS (biennali, più un quinto semestre aggiuntivo di 60 CFU per il sostegno).

Poi, dal 2011 a praticamente a ieri, abbiamo avuto due edizioni di TFA (annuali di 60 CFU): uno per insegnante curricolare e un altro per insegnante di sostegno.

E anche qui tre versioni, con oggi il PF24.

È evidente che, sinora, le logiche di sistema tra la formazione e l’accesso ai ruoli per la scuola dell’infanzia e quella primaria, per un verso, e la secondaria, per altro, e il Corso di Sostegno, per altro ancora, sono tutte da venire, costruire, ecc.

Contenuti, metodi e prospettive

E, ora, il cuore del presente contributo.

Insegnare: contenuti, metodi e prospettive. Dove per «insegnare» intendiamo educare e istruire al tempo stesso, secondo la lezione di Scheffler (1972).

Con l’educazione, che è di fronte, oggi, a nuove sfide e a nuovi disagi, quali ad esempio (per limitarci solo ad alcuni indicatori più rilevanti):

  • una società in cambiamento veloce (Ciancio, 2016), caratterizzata da una forte retroazione positiva (Watzlawick, Beavin e Jackson, 1971);
  • un alunno e uno studente che sono profondamente cambiati. Per la scuola dell’infanzia e quella primaria: con due picchi, al presente, rappresentati dall’aumento significativo dell’autismo e dell’iperattività, oltre alle varie disabilità di sempre, e quindi la domanda su come intervenire, da non risolvere certamente col buonismo. Per la secondaria di primo grado: con le emergenze ingravescenti del bullismo e di una più diffusa indisciplina studentesca in crescita. E per la secondaria di secondo grado: con nuovi disagi e nuove forme di devianza, oltre alle precedenti, e al fenomeno in aumento della droga. Nondimeno, con la manifestazione in progress, non più archiviabile, da sottacere o da non prendere nella dovuta considerazione, della condizione omosessuale tra gli adolescenti e i giovani (con l’uso di siti specifici ad hoc, genderless, ecc.);
  • sullo sfondo di: una crisi della famiglia in spaventosa evidenza e una pari crisi dell’adultità (per cui, spesso, «i problemi dei giovani sono gli adulti»); con riferimento pure alla crisi economica e occupazionale, che si accompagna a una ampliata eclisse del progetto (Corsi, 2011) e al venir meno dell’educazione come «promessa», di cui allo stesso paradigma («Se… allora…») che intercorre tra l’educazione e la promessa (Corsi, 2001). Con il conseguente furto della speranza a danno dei più giovani. E, infine, le problematiche che derivano dai bisogni di alunni e studenti immigrati, sempre più presenti, nelle nostre scuole, con una pedagogia e una didattica interculturale, ancora tutte da fondare adeguatamente e da realizzare compiutamente.

Di questo, e in avanti, l’offerta didattico-formativa della LM-85 bis non può non tenere conto. Sul versante, in particolare, dell’educazione.

Quando invece parliamo di istruzione, focalizziamo la nostra attenzione:

  1. sulle discipline e soprattutto sulle didattiche disciplinari;
  2. sugli insegnamenti, i laboratori e il tirocinio in sistema fra loro;
  3. sulla didattica frontale e le didattiche di gruppo.

In particolare, per la LM-85 bis. Ma anche per tutti quei Corsi di Laurea che guardano anche all’insegnamento e per professionalità future a oggi nemmeno ipotizzabili, nell’ottica di una formazione e una professionalità docenti in continua evoluzione (Schön, 2016).

Date queste premesse, insegnare, allora, è:

  1. insegnare ad apprendere, e non solo istruire. Per rendere i nostri studenti universitari protagonisti nell’era dei media (Stramaglia, 2012; 2016);
  2. educare alla libertà (pensante e pesante), nella responsabilità e nell’autonomia (Corsi, 2003);
  3. educare alla creatività (Bruner, 1964), quale zona di transito fra le finalità appena citate.

Mi si consenta adesso, prima di concludere questo paragrafo, di ritornare, sia pure brevemente, alla scuola secondaria e ai 24 CFU o PF24, quale ultimo residuo (o avamposto per il futuro?) di un maggior centraggio sulla professionalità docente. Con la maggior cura che va dedicata ai Corsi di Laurea in chiave finalmente curricolare e con attenzione agli obiettivi da perseguire.

Su questa materia del PF24 abbiamo lungamente e unanimemente lavorato nel mio triennio di presidenza della Conferenza Universitaria di Scienze della formazione (2016-18), dando vita a una proposta complessiva colta ed equilibrata, nel rispetto della fisiologia dei nostri Dipartimenti e delle nostre residue Facoltà come dei quadri dei nostri Corsi di Laurea quali sistemi comunque in divenire di molteplici ambiti e settori scientifico-disciplinari. Perché nessun sapere e nessuna pratica formativa possono ritenere oggi di assolvere, da soli, all’intero compito, e alle numerose sfide, della formazione docente. Le sinergie sono necessarie e richieste, per scienza e coscienza (Stramaglia, 2019); e con le ulteriori sinergie, che abbiamo realizzato, con le altre società scientifiche: di psicologia, di antropologia, ecc., perché ognuno insegnasse, sia pure in accordi pluri-modulari, ciò che era di propria specifica competenza, bandendo ogni possibile deriva tuttologica.

E chiudo davvero con due domande che lascio alla vostra riflessione:

  • quale insegnante, e non soltanto di scuola dell’infanzia e primaria, ma anche della secondaria nella sua globalità, immaginiamo per la scuola e la società di domani?
  • quale professionalità docente immaginiamo in un sistema di professioni future che al presente, e per larghi tratti, non è neppure ipotizzabile?

Perché, a un celebre slogan di Dewey: «noi non insegniamo solo materie, ma a persone», va aggiunto: in contesti organizzati e da organizzare continuamente.

Prospettive e sfide per la professionalità docente universitaria e l’innovazione didattica

Rivolgersi ora anche alla docenza universitaria (Graziosi, 2010) rappresenta:

  • una significativa opportunità di sviluppo professionale, per fare sistema sull’intero versante della docenza, dalla scuola dell’infanzia all’università;
  • una reale possibilità di qualificazione delle competenze di insegnamento: metodologico-didattiche, sul versante dell’istruzione, e educative in senso proprio.

Sapendo che insegnare è, a un tempo, educare e istruire (da Comenio a Scheffler, ai giorni nostri).

Perché l’insegnamento non è solo la trasmissione di contenuti e di conoscenze da persone esperte e competenti (gli insegnanti) a persone inesperte e non competenti (gli allievi e gli studenti). E la docenza universitaria e la sua crescita qualitativa non si esauriscono unicamente nell’incremento dei singoli saperi disciplinari.

Con una battuta: l’università non è il CNR.

Esperienze formative, dunque, decisamente pilota, tutte quelle iniziative che nelle varie sedi universitarie d’Italia intendono rivolgersi alla qualificazione della professionalità dei docenti neo-assunti (dai RUtdA in avanti) e in servizio (nessuno escluso), incentrata al presente, quale necessaria scelta di campo per non correre il rischio della tuttologia o della superficialità, sull’innovazione didattica, metodologica e tecnologica.

Lo sviluppo professionale della docenza universitaria costituisce, infatti, una leva strategica per:

  • innalzare la qualità dell’offerta formativa, con conseguente aumento pure dei potenziali iscritti, negli anni a venire. La qualità è, infatti, la migliore azione di marketing diffuso, ben percepita dagli studenti, dalle loro famiglie e dai territori allargati;
  • migliorare i risultati di apprendimento degli studenti, favorendo quindi, per questa via, la loro medesima, futura, occupabilità;
  • ridurre la dispersione studentesca universitaria, che è tuttora seriamente preoccupante in Italia, se non addirittura tragica. Il momento critico è il primo anno di iscrizione, in cui si misurano la solidità del progetto di questi studenti, ma anche la qualità della struttura che li accoglie e la capacità dei diversi atenei di condurli al traguardo. Sicché, al secondo anno, quasi un quarto degli studenti, che si era iscritto al primo, non si riscrive. Vanno decisamente meglio, in proposito, le università specialistiche. Mentre, ad esempio, le università della Tuscia, di Napoli Parthenope, de L’Aquila, di Sassari, ecc. arrivano, persino, a tassi di dispersione del 62%. Cui si associa, drammaticamente, pure il minor numero di CFU acquisiti ogni anno rispetto ai 60 prescritti, con medie che oscillano tra i 24 e i 44 CFU. Con gli atenei, in aggiunta, di Cagliari, Benevento, Potenza, Salerno, ecc., che indossano, al riguardo, una sorta di ulteriore maglia nera;
  • contribuire al progresso sociale ed economico del Paese. Al dato precedentemente offerto va, infatti, a sommarsi anche quello per cui l’Italia è povera di laureati rispetto alla media dell’UE: ultima lo scorso anno e penultima in questo. Con solo 26 laureati a fronte di una popolazione attiva fra i 25 e i 34 anni. Seguita unicamente dalla Romania, col peggior risultato che si attesta intorno al 25,6%. Mentre la percentuale dei laureati in Europa, negli ultimi 15 anni, è cresciuta ovunque. Ben lontani, dunque, da quel tetto del 40% fissato dal programma «Europa 2020». Al contrario, il Paese più virtuoso è la Lituania col 58,7% dei laureati;
  • potenziare, infine, il livello nondimeno politico degli italiani, per il nesso esistente, e prossimo, tra la cultura e i maggiori livelli di cittadinanza di una nazione (Tarozzi, 2005; Corsi, 2011).

Così come richiesto, del resto, da tutti i documenti dell’UE, almeno dal 2007 a oggi, se non addirittura da prima. Ugualmente, dal Coordinamento Europeo delle diverse Agenzie di valutazione, al pari della stessa ANVUR italiana.

Si tratta di supportare la qualità della docenza universitaria attraverso un costante impegno in proposito, da parte sia dello Stato che delle singole università.

Ma in Italia, su questo versante, siamo ancora pressoché agli esordi.

Nonostante che questa imprescindibile e improrogabile necessità sia stata, comunque, evidenziata più volte, tanto da costituire, talora, anche una penalty, da tutte le CEV in relazione alle diverse visite che hanno portato all’accreditamento dei differenti atenei sinora ispezionati e valutati, e con riferimento ai Corsi di Studio conseguentemente autorizzati.

Per un tempo concesso di convalida e monitoraggio, peraltro, a geometria variabile.

Così da rappresentare la qualità dell’insegnamento universitario, erogato e impartito, parte integrante degli obiettivi strategici istituzionali irrinunciabili di ciascuna sede universitaria.

Tornando, ora, al complesso della documentazione e delle Raccomandazioni europee, per rispondere, non da ultimo, agli obiettivi di Europa 2020, si ri-sottolinea che il miglioramento della qualità della docenza universitaria è finalizzato a garantire ai giovani conoscenze aggiornate, globali e coerenti con il mercato del lavoro.

Con ovvio rinvio pure agli esiti occupazionali e, a monte, ai descrittori di Dublino dei differenti Corsi di Laurea attivi, sia triennali che magistrali, in filiera tra loro.

Ma di quale studente parliamo?

Quale prima sfida didattica globale abbiamo di fronte?

Innanzitutto, i cardini costitutivi di un ripensamento generale della didattica universitaria nella sua generalità, e, pertanto, di un suo potenziamento qualitativo (Alberici, 2001) sono rappresentati, attualmente, dai seguenti quattro parametri interconnessi fra loro:

  • innovazione;
  • internazionalizzazione;
  • inclusione;
  • apertura al territorio e ai territori, in una visione sinergica e sistemica complessiva: dal micro al macro e viceversa.

E veniamo ai focus del secondo obiettivo del presente contributo.

Innanzitutto, il primo focus, da teorico a pratico, ovvero di «buone pratiche», e viceversa, è il carattere co/inter/trans-disciplinare che la didattica universitaria di oggi e di domani deve assumere (Stramaglia, 2019). Quale epifenomeno più recente, e maggiormente articolato e prospettico, anche della natura curricolare di ciascun Corso di Studio, sostenuta, or sono almeno tre decenni o più, da — uno per tutti — Cesare Scurati (Scurati, 2017). Ma che in Italia, ovunque e comunque, è rimasto ancora un pio desiderio.

Mentre il secondo focus è più direttamente, o squisitamente, operativo. Ed è incentrato sulla figura dello studente, in ordine al quale avanzerò però, poi, ulteriori precisazioni e sottolineature di marca squisitamente pedagogica.

Fermiamoci per adesso, in relazione a questo secondo focus, alle seguenti domande aperte:

  1. a quale categoria di studente ci rivolgiamo, oggi, a partire dalle nostre conoscenze disciplinari? Ad esempio, siamo consapevoli dei cambiamenti generazionali intervenuti? Di cosa vuol dire essere giovani oggi (Recalcati, 2019)? Abbiamo attivato forme inedite di insegnamento in risposta ai disturbi specifici dell’apprendimento? Riusciamo a dare risposta ai bisogni territoriali già citati, senza perdere di vista le componenti decentrate e delocalizzate dei saperi, o i mutamenti nella concezione dello spazio e del tempo?
  2. I nostri metodi didattici sono efficaci, oppure andrebbero ripensati? Con riferimento, ad esempio, all’approccio autobiografico, alla creazione di ambiti museali permanenti o temporanei, all’approfondimento di didattiche speciali, ecc.? Ci rendiamo conto che la mutata condizione giovanile e studentesca universitaria, nella società dei media e delle tecnologie, richiederebbe, piuttosto, un uso parziale, e nel contempo utile e mirato, della lezione frontale, oggi invece, ahimè, del tutto prevalente, se non addirittura totale, o quasi, in molte delle nostre sedi universitarie? Per ricorrere, al contrario, a un mix di metodologie didattiche intrecciate fra loro e rispondenti ai vari crinali, metodologici e contenutistici, dell’insegnamento impartito: attività online (Garavaglia, 2011) come di piccolo e grande gruppo e interattive, gruppi di lettura e di discussione, lezioni gestite in compresenza, e trasversalmente curricolari, da due o più docenti, ecc.?
  3. Infine, chiediamoci quali conoscenze e quali competenze veicoliamo attraverso i nostri saperi: educativo, psicologico, storico-artistico, giuridico, economico, architettonico-ingegneristico, enogastronomico, geografico, ecc. Nella dovuta distinzione tra le prime e le seconde, con le competenze che sono la ricaduta delle conoscenze, e tali, quindi, da richiedere, queste ultime, un approccio didattico ampio e nettamente differenziato, in merito, appunto, alle competenze proposte e da acquisire (Zaggia, 2008).

Da qui, conseguentemente, e come si è già affermato in relazione al primo focus: è possibile ripensare la didattica universitaria in termini di sconfinamento co/inter/trans-disciplinare, sia in senso teorico che prassico?

Con i due focus che, a questo punto, fanno sintesi fra loro come due facce di una stessa medaglia, rimbalzando vicendevolmente l’uno sull’altro.

Con riferimento, poi, alla natura teorico-pratica già evidenziata dei processi di insegnamento e al fatto, evidente e lapalissiano, che «insegniamo a persone»; confrontando, a questo riguardo, pure Morin e il suo invito a cercare di dar vita, a tutti i costi, a «teste ben fatte, e non già a teste piene» (Morin, 2000) e, ugualmente, il dato di educazione precedentemente invocato, chiediamoci: quanto le nostre università assolvono anche alla loro missione educativa?

Ricordando, in rapporto ai documenti Standards and Guidelines for Quality Assurance del 2015 e European Principles for the Enhancement of Learning and Teaching del 2017, che il nostro scopo è formare:

  • innanzitutto, adulti, e adulti sani di mente;
  • adulti liberi di e liberi da, responsabili e autonomi (Corsi, 2003);
  • quindi, cittadini attivi;
  • e futuri professionisti capaci di vivere in un mondo complesso e in continua evoluzione. Sullo sfondo, peraltro, di una società liquida (Bauman, 2008) o, addirittura già gassosa (Corsi e Stramaglia, 2009) e di una società della fretta (Bertman, 1998).

Il tutto guardando alle professioni di domani, molte delle quali, al presente, non riusciamo neppure a ipotizzare.

Dal che i nostri studenti, dapprima giovani (come si è poc’anzi argomentato), attraversano già infiniti mondi e altri, nemmeno attualmente previsti, saranno magari chiamati ad attraversare in futuro.

Ma l’università italiana, e mi taccio del nostro Ministero, guarda ancora non di rado a ieri, se non all’altro ieri, in una visione ombelicare dura a morire.

Da qui, le parole chiave — che ci dovrebbero guidare complessivamente nella scrittura dei nostri programmi di insegnamento, partendo almeno, a oggi, dalla costruzione del curricolo (Frabboni, 2002; Baldacci, 2010), per tornare a esso in prospettiva cibernetica, e con i programmi a costituire il decisivo elemento di trasformazione — sono le seguenti:

  1. i giovani attuali;
  2. gli studenti contemporanei;
  3. la loro cultura globale;
  4. dunque, la loro identità;
  5. i loro pregiudizi;
  6. il futuro che li attende;
  7. la sostenibilità stessa di questo futuro;
  8. il territorio e i territori per i quali li formiamo professionalmente.

In merito a quest’ultimo punto, ma li leggiamo davvero questi territori?

Ad esempio, sul versante personale e ambientale, siamo consapevoli dei rumori che li attraversano? Quali strategie anti-rumors, di contro, abbiamo attuato?

Sul crinale infine della public history, li abbiamo vaccinati rispetto alle possibili sirene del degrado morale e societario di non poche parti d’Italia: dalla droga alla delinquenza organizzata?

Le istituzioni universitarie hanno, quindi, la responsabilità:

  • di garantire serie e mirate opportunità di sviluppo professionale, e non solo di auto-narrarsi, passando al di sopra delle teste e dei cuori degli studenti;
  • superando una visione tuttora incentrata soltanto su ambiti strettamente disciplinari e condotta secondo approcci teacher-centered.

Dovremo passare, piuttosto, a misure student-centered, come sostiene, in particolare, tutta la letteratura didattica internazionale e nazionale, per lo meno dal 1998 a oggi. E, cioè, la cosiddetta centralità dello studente, come richiedono pure i nostri PQA, NdV, ecc.

Mi si consenta però, adesso, di lanciare uno sguardo pedagogico su questa affermazione eminentemente didattica o istituzionale.

In prospettiva squisitamente epistemologica:

  • l’oggetto della pedagogia è l’educazione, e dunque anche la formazione, l’insegnamento, ecc., come i tanti nomi dell’educazione medesima incarnata e realizzata;
  • l’educazione è, nel suo farsi e divenire, essenzialmente un rapporto educativo (De Giacinto, 1977; Corsi, 1997);
  • la centralità, pertanto, è della relazione tra studenti e docenti. Con un’enfasi, una reciproca attenzione e l’opportuna dimensione di incontro e di rispetto tra i primi e i secondi.

Da evitare quindi l’inopportuna centralità del figlio, modello attualmente tanto proposto e recitato. Porre il figlio solo al centro ne fa un figlio ulteriormente prezioso, o peggio, a scapito della stessa coppia parentale e coniugale (Corsi, 2016). Così si rischia di crescere, in un qualunque luogo educativo o istituzionale, bambini, fanciulli, adolescenti e giovani, e poi adulti e tardo-adulti: o non adulti oppure poco adulti, sdentati, spaesati (Laffi, 2014), e talora anche arroganti e autocentrati.

Con difficoltà, infine, non banali al momento del loro futuro inserimento lavorativo.

Talune università, poche in realtà, hanno pure dato vita, dai tempi dell’avvio delle SSIS e dei Corsi di Laurea in Scienze della formazione primaria, nella seconda metà degli anni Novanta, a Centri Universitari per l’insegnamento. Alcuni dei quali, però, sono, al presente, quasi delle scatole vuote ovvero sono rimaste, al momento, pressoché sulla carta, o quasi.

L’obiettivo ambizioso di questi Centri era anzi, all’atto della loro nascita, di poter produrre, quale esito finale, una certificazione delle competenze acquisite attraverso i percorsi formativi posti in essere, da riconoscere anche a fini carrieristici e retributivi.

Gradatamente l’entusiasmo e la buona benzina sono andati diminuendo, o scemando totalmente, una volta che si è preso atto, incontrovertibilmente, che:

  • la qualità della didattica non è oggetto di valutazione, almeno in sede di Abilitazione Scientifica Nazionale, mancando ancora un riconoscimento culturale e formativo, diversamente ad esempio dal mondo anglosassone, della formazione pedagogico-didattica dei docenti sia, come si è appena scritto, nel reclutamento in ingresso, sia nei generali sistemi di valutazione in servizio;
  • eccetto rare e luminose eccezioni di pochi settori scientifico-disciplinari, maggiormente in ambito scientifico e assai più raramente in quello umanistico, la ricerca didattica, e la conseguente produzione scientifica, non sono neppure oggetto, eufemisticamente, di apprezzamento. Come se fossero mera divulgazione o persino un sotto-prodotto. Quando non sono addirittura penalizzate;
  • con l’inevitabile ricaduta che la ricerca didattica si è andata fortemente riducendo nel nostro Paese;
  • e con la qualità della didattica che, attualmente, non è nemmeno, assai spesso, oggetto di premialità, in molte delle nostre sedi universitarie.

Sicché il profilo del docente universitario italiano è rimasto, tradizionalmente ed esclusivamente, centrato sulla predominanza della ricerca pura o similia.

A scapito della didattica e della conseguente ricerca contenutistica o applicata (De Giacinto, 1968; Parsons, 1968).

Ricerca in senso alto o antico che è, peraltro, un principio, o un faro, importante e strategico.

Ma va distinta, però, la ricerca libera e autonoma del singolo docente, dei suoi gruppi e delle sue Scuole e l’inopportuno suo travasamento acritico nella didattica, per richiedere, piuttosto, selezioni e traduzioni, nel passaggio dalla prima alla seconda.

Per concludere

Termino, ora, con la proposta di alcuni case studies:

  • stage e tirocini, che non vanno appaltati o sub-appaltati. Per utilizzarli, invece, per fare attraversare, ai nostri studenti, i confini tra studio e lavoro e far crescere assieme, sia per i docenti che per gli studenti, la competenza ad agire e il senso di iniziativa;
  • favorendo, nondimeno, l’avvio di approcci pure informali per la diffusione della cultura scientifica, tecnologica e artistica;
  • promuovendo la creatività a tutto campo degli stessi studenti e la loro intelligenza auto-poietica, anche in vista delle loro professionalità di domani;
  • all’insegna, davvero, di una formazione multidisciplinare.

Bibliografia

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1 Professore Emerito di Pedagogia Generale e Sociale dell’Università degli Studi di Macerata e Rettore dell’Università Telematica «Pegaso», è stato Presidente della Società Italiana di Pedagogia e della Conferenza Universitaria Nazionale di Scienze della formazione.

2 Professor Emeritus of General and Social Pedagogy at the University of Macerata and Dean of the Online University «Pegaso», he was President of the Italian Pedagogy Society and the National University Conference of Education Sciences.

Vol. 6, Issue 2, October 2020

 

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