Vol. 6, n. 2 ottobre 2020

Filosofia dell’educazione

Fra educazione morale e anomia

Una ricognizione sull’opera di Émile Durkheim

Giorgio Manfré1

Sommario

L’obiettivo principale di questo contributo è di esaminare e sistematizzare alcuni aspetti salienti dell’opera di Durkheim per farne emergere l’impostazione teorica complessiva e il quadro ermeneutico di riferimento riguardo alla formazione della società moderna. Attraverso un percorso che affronta analiticamente i problemi durkheimiani dell’educazione morale e dell’anomia, l’articolo si concentrerà in particolare sull’attualità di questi concetti rispetto alle sfide che il pensiero sociologico e pedagogico si trovano ad affrontare nella contemporaneità.

Parole chiave

Durkheim, educazione morale, anomia, società, modernità.

Philosophy of education

Moral education and anomie

A survey of Émile Durkheim’s work

Giorgio Manfré2

Abstract

The main objective of this contribution is to examine and systematise the central elements of Durkheim’s work in order to highlight its underlying theoretical approach and its interpretive frame of reference regarding the emergence of modern society. In particular, the article focuses on the concepts of moral education and anomie in order to highlight their relevance in relation to the challenges faced by sociological and pedagogical thinking in the contemporary world.

Keywords

Durkheim, moral education, anomie, society, modernity.

Introduzione

Affrontare il tema dell’educazione morale nell’opera di Émile Durkheim (1858-1917), significa fare riferimento agli scritti dello studioso di Épinal che segnano la transizione da La divisione del lavoro sociale a quelli per così dire ascrivibili alla fase più matura della sua produzione, che gravitano attorno a Le forme elementari della vita religiosa. In particolare, la questione morale esprime ed enfatizza la componente sostanziale di questa transizione, poiché è proprio riflettendo su di essa che Durkheim inizia a intuire che oltre alla coercizione, alla società va riconosciuto anche un carattere di desiderabilità, vale a dire ciò che consente l’interiorizzazione delle norme morali, su cui si costruisce tanto l’educazione quanto la personalità individuale. D’altra parte, c’è da considerare che per Durkheim l’orientamento morale rappresenta una delle caratteristiche costanti dell’agire societario formalmente istituzionalizzato e, quindi, in ogni suo scritto esso compare piuttosto regolarmente come uno degli aspetti salienti dello stesso discorso generale sulla società, sulla sua natura nonché sul suo modo di condizionare il comportamento individuale. Si tratterà allora di allargare la prospettiva di osservazione alla sua più ampia produzione scientifica, nel tentativo di far emergere i tratti teorici essenziali da cui il problema dell’educazione morale e quello dell’anomia assumono e sviluppano un senso specifico.

Educazione morale e società

Nella ristretta gamma dei fatti sociali che agiscono in modo incisivo al livello della costruzione della personalità individuale, un ruolo di primo piano è assunto, per Durkheim, dall’educazione. Ma cosa è esattamente l’educazione? Recita il saggio L’educazione, la sua natura e il suo ruolo: «l’educazione è l’azione esercitata dalle generazioni adulte su quelle che non sono ancora mature per la vita sociale. Essa ha come scopo di suscitare e sviluppare nel bambino un certo numero di stati fisici, intellettuali e morali che a lui richiedono sia la società politica nel suo insieme, sia l’ambiente speciale al quale egli è particolarmente destinato» (Durkheim, 1992, p. 51). L’educazione non è altro che la socializzazione metodica delle nuove generazioni. La definizione trova ulteriore forza argomentativa quando Durkheim (1969; 1992) inizia a considerare il rapporto individuo/società (ossia il modello «al massimo grado» generale del rapporto sociale), come ciò che si esprime nella relazione fra le generazioni e quindi, perciò stesso, nei termini di un rapporto educativo. A ciò Durkheim aggiunge un elemento particolarmente rilevante: affinché il rapporto educativo, possa effettivamente considerarsi tale, esso dovrà esplicitarsi nella trasmissione di contenuti normativi e valoriali, tra le cui componenti necessarie e inalienabili ci sono, soprattutto, le credenze e le pratiche morali.

In questo senso, comportarsi moralmente vuol dire agire attenendosi a una norma volta a orientare la condotta da seguire in una determinata circostanza ancora prima di trovarsi di fronte alla necessità di assumere una decisione. Si tratta di un dovere che in qualche modo l’individuo ha interiorizzato nell’ambito del processo educativo grazie all’azione di un’autorità, di un potere morale che esercita un ascendente sull’educando e che quest’ultimo riconosce come superiore. Da questo punto di vista, afferma perentoriamente Durkheim, lo spirito di disciplina è «la prima fondamentale disposizione di ogni comportamento morale» (Durkheim, 1969, p. 495). La disciplina si rivela come un «fattore sui generis dell’educazione» cui affidare la disposizione morale del ragazzo: essa consente di insegnargli a contenere i desideri nonché a circostanziare gli elementi e il contesto della propria attività. Una sorta di esercizio della volontà individuale sugli impulsi e gli appetiti più smodati. Tuttavia, come rileva l’Autore, «la disciplina non serve unicamente alla vita morale propriamente detta, ma ha un’azione che si estende oltre» (Durkheim, 1969, p. 504). In essa viene esercitata una funzione decisiva per la formazione del carattere e della personalità di cui, mi sembra di poter affermare, uno studio sull’educazione deve necessariamente occuparsi.

Per meglio contestualizzare questo importante assunto è opportuno chiarire, in primo luogo, che per Durkheim la personalità deve essere puntualmente distinta dall’individualità (Durkheim, 1972; Hawkins, 1977; Manattini, 2000; Paoletti, 2003). Tale distinzione viene inizialmente formulata ne Il Suicidio e spesso riproposta proprio a conferma della sua considerevole rilevanza concettuale. In essa, infatti, si esplicita e prende forma la concezione durkheimiana dell’homo duplex. L’uomo va considerato in termini di duplicità poiché — egli dice — in lui convivono in costante tensione due livelli distinti dell’essere: uno proprio al suo essere fisico (individualità) e uno al suo essere sociale (personalità). Il primo livello si riferisce alla corporeità, ossia a quella dimensione dell’esistenza che di per sé non consentirebbe all’uomo di proiettarsi concretamente al di là dell’ordine naturale delle cose. Benché sia proprio l’individualità a conferire all’uomo quel carattere specifico che lo rende unico e irripetibile rispetto a qualsiasi altro suo simile, qualora rimanesse a questo livello, non riuscirebbe a elevarsi — o a essere tanto diverso — rispetto agli animali. La sua struttura biologica è connotata da istinti e appetiti incontrollati, fondamentalmente egoistici, che certo non rappresentano quella che lo stesso Durkheim considera la più autentica natura dell’essere umano: la sua socialità. È quest’ultima a caratterizzare il secondo essere che alberga nell’uomo e che dà luogo a un effettivo salto di qualità. La socialità, per l’Autore, è ciò che realizza l’umanità in ogni individuo, ovvero una personalità, essendo proprio quest’ultima — e non l’individualità! — a costituire quel livello di realtà sui generis che, appunto nell’elaborazione di elementi sociali, segna uno scarto rispetto alla condizione animale. La personalità, da questo punto di vista, fa dell’uomo il degno rappresentante dell’umanità poiché essa si forma e si consolida nella continua interazione con il sociale: gli elementi che la compongono e che la rendono tale sono, insomma, elementi di natura sovraindividuale.

Ciò che all’Autore preme sottolineare è che l’individuo è sì essenziale al fine della costruzione di una realtà umana, ma di per sé è insufficiente: c’è bisogno che l’individualità faccia esperienza della società, la cui azione di contenimento la renderà una personalità vera e propria, con un’identità sociale ben strutturata, ben disciplinata, non egoistica. La dimensione biologica della vita, per sua natura intrinsecamente egoistica, proiettata alla mera sopravvivenza, deve elevarsi alla dimensione incorporea della vita sociale poiché soltanto in questo modo potrà poi essere morale, cioè compiutamente umana e meritevole di rispetto.

Per Durkheim, agire moralmente significa soltanto — e qui la sua analisi non è esente da criticità poiché perde di vista la distinzione fra forma e sostanza (Bortolini, 2005) — adoperarsi in vista di un interesse collettivo. Secondo questa logica, la morale inizia sempre in concomitanza al sociale. Tuttavia, affinché una simile consonanza fra morale e società possa in qualche modo sussistere, è necessario che quest’ultima costituisca una realtà la cui natura sia qualitativamente altra (emergente) rispetto a quella dei singoli membri. Occorre, in una parola, che ci sia un essere sociale nel senso forte del termine. Come dire: siamo esseri morali se e nella misura in cui siamo prima di tutto esseri sociali. L’egoismo, da questa prospettiva, è relegato fra i sentimenti amorali. L’unico essere morale è quindi, per l’Autore (1969), la società. Essa è tanto il fine quanto l’artefice della morale, nonché delle azioni che a essa si ispirano. A sostegno di questa tesi, Durkheim aggiunge poi un’argomentazione di carattere storico: il fatto, cioè, che la morale muta le proprie forme a seguito delle trasformazioni delle società e delle diverse culture. La stessa cosa può essere detta anche a proposito della morale individuale, in particolare laddove i doveri nei confronti di se stessi costituiscono modelli ideali che, la società, per un qualche proprio interesse ci induce a realizzare.

Rispetto a quanto sostenuto finora, ciò che emerge è non solo che la società, agli occhi di Durkheim, trascende l’uomo in termini di grandezza materiale, ma anche — forse, soprattutto! — per la sua potenza morale. Essendo la fonte di ogni autorità morale, la società è, in effetti, ciò che costitutivamente ci disciplina, ci limita, ci contiene.

L’interiorizzazione della morale

Tuttavia, se la si intendesse soltanto come disciplina (dovere), la morale durkheimiana verrebbe ad assumere una forma piuttosto stringente di limitazione della natura umana, quando non addirittura come qualcosa che si erge in contrapposizione con quest’ultima. Ma le cose non stanno affatto in questo modo. All’interno della morale, infatti, l’Autore (1969) si premura di distinguere due elementi fra loro sostanzialmente interrelati: da un lato, il dovere e, dall’altro, il bene.

Il dovere non è altro che la morale che vieta e impone in modo prescrittivo. È la morale severa, inflessibile, che dispone coercitivamente. L’ordine cui, in buona sostanza, si deve obbedire. Il bene, invece, è la moralità che si mostra come cosa buona, come ideale da perseguire volontariamente o cui aspirare con spontaneità e convinzione.

Ebbene: la disciplina morale può essere efficacemente trasmessa all’individuo nella misura in cui gli venga reso al tempo stesso doveroso e desiderabile abbracciare i precetti della coscienza collettiva, ossia della società. Occorre, in altri termini, che la società sia desiderata per se stessa. Solo così i valori morali comuni — che sono sì in parte costrittivi — potranno poi essere interiorizzati e, in quanto tali, sentiti come propri e «naturali». Ecco allora perché la morale può essere realizzata al livello fattuale solo laddove c’è senso di appartenenza, attaccamento al gruppo. «La moralità ha inizio semplicemente con l’appartenenza a un gruppo umano, qualunque esso sia» (Durkheim, 1969, p. 533). Si badi, però: non come legame ad altri individui in quanto tali, bensì in ragione del fatto che essi sono considerati come l’espressione di un valore qualitativo superiore, come portatori di interessi rispetto a loro trascendenti. A tale riguardo è utile ribadire che anche la relazione educativa identifica il suo nucleo valoriale nella dimensione morale. Qui, per l’Autore, il processo trasmissivo di contenuti morali ha successo nella misura in cui, nel bambino o nel ragazzo che sia, inizia a manifestarsi l’essere sociale propriamente detto. È pertanto la trasmissione intergenerazionale dei valori morali ciò che consente alla società di riprodursi attraverso la formazione della personalità (la quale poi non è altro che il prodotto di un’azione sociale sulla natura individuale). D’altra parte, dice Durkheim (1969), quando nasce, il bambino è pressoché unicamente l’espressione della propria natura individuale: una tabula rasa su cui non è ancora stato scritto nulla. Certo, ci sono in lui delle disposizioni e dei caratteri che vanno ascritti alla propria dotazione biologica ereditaria, ma queste di per sé non sono rappresentative di ciò che comunemente si intende per uomo civilizzato: sia perché si collocano in quella sfera delineata come istintiva e riduttivamente animalesca, quindi non specificamente o propriamente umana, ma soprattutto in ragione del fatto che esse sono ritenute la naturale manifestazione dell’egoismo e dell’asocialità. L’educazione, di contro, si propone di intervenire proprio per modificare questo stato di cose, sovrapponendo all’essere egoista e asociale che viene al mondo, un altro che sia invece in grado di condurre una vita morale e sociale (Durkheim, 1992). La società dunque «non si limita a sviluppare l’organismo individuale nel senso tracciato dalla sua natura, a rendere visibili delle potenzialità nascoste che non chiedono che di rivelarsi. Essa crea nell’uomo un essere nuovo» (Durkheim, 1992, p. 52). Una sorta di seconda nascita, proprio come accade nei riti di iniziazione.

Se l’educazione vuole allora essere a tutti gli effetti morale, essa dovrà operare attraverso modalità proprie all’agire genuinamente sociale; dovrà, in buona sostanza, essere capace di trasmettere alle giovani menti la coscienza collettiva che contraddistingue il senso di appartenenza al gruppo degli adulti. Diversamente, secondo l’Autore, essa non avrà centrato il suo obiettivo. Pertanto, il primo compito dell’educazione morale consiste nel collegare il bambino alla società a lui più prossima: la famiglia, appunto. In seguito, sarà l’istituzione scolastica a dover potenziare ulteriormente il legame tra i giovani e la società in genere. A questo proposito, il problema che si pone Durkheim è: in che modo indurre nel contesto scolastico i ragazzi al rispetto della disciplina, tenendo presente che la sua osservanza assume un carattere propriamente morale solo quando tale rispetto costituisce la trasposizione esterna di un sentimento interno? Di là dalle considerazioni espresse ne L’educazione morale sul ruolo determinante del Maestro o riguardo al valore irrinunciabile della patria, in quasi tutti gli altri suoi scritti egli non riesce più a nascondere un certo pessimismo in ragione dei mutamenti da lui stesso osservati nel progressivo dispiegamento della modernità: così che, all’iniziale certezza normativa della morale si sostituisce la crescente preoccupazione per l’anomia.

Il problema dell’anomia e le due immagini di società

È ora il momento di analizzare il complesso ordine di significato che Durkheim (1962; 1969) attribuisce alla parola «anomia». Va detto, in primo luogo, che egli indica come anomico sia un comportamento (individuale o di gruppo) sia un contesto. Si tratta in ambedue i casi di assenza — o del venir meno — delle norme sociali. E, dunque, della società. Tuttavia, ciò non esaurisce il quadro definitorio di cui si avvale l’Autore per sviluppare la sua argomentazione sul tema: per lui, infatti, esistono due differenti immagini di società (Durkheim, 1962) — rispetto alle quali, a fronte di un comportamento o di una situazione anomica, si riscontra appunto una carenza normativa (Piazzi, 1973) — che richiedono una spiegazione piuttosto articolata.

La prima immagine di società ha a che fare con l’ordine simbolico e ideativo che normalmente si configura nei termini della pratica del gruppo, proprio nel momento della sua iniziale effervescenza creativa. In questo caso il riferimento principale è la coscienza collettiva, con i suoi valori sovraindividuali. Si tratta della società ideale, nel senso di una rappresentazione che il gruppo elabora di se stesso e dei possibili contesti di interazione fra i suoi membri. La parola chiave qui è: valori.

La seconda immagine di società riflette un orientamento concreto e operativo: consiste in un complesso di funzioni al tempo stesso differenti e specifiche, combinate all’interno di rapporti definiti. È questa l’immagine più conosciuta e che viene comunemente riferita al gruppo inteso nella sua connotazione precisa: quella delle istituzioni, degli assetti politico-territoriali, dei codici, delle regole di condotta, ecc. In questo caso, la società è ritenuta un assetto strategico e funzionale, un dispositivo sistemico di adattamento e di risposta organizzata rispetto al suo ambiente esterno. La parola chiave qui è: struttura.

Ora, nel contesto di una disamina sul concetto di anomia, è legittimo sostenere che fra le due forme di società sussiste una correlazione di ordine essenzialmente diacronico. Come dire: la società strutturata strategicamente rappresenta il momento successivo che rende concreto sul piano funzionale la fase dell’ideazione collettiva e dei relativi valori che la precede. Quest’ultima, oltretutto, è l’ipotesi più pertinente alla riflessione di Durkheim (1962) e perfino la più accreditata da parte di suoi numerosi interpreti (Lukes, 1984; Steiner, 2004; Turner, 1993). Ciò nondimeno la questione rimane aperta poiché l’Autore (1962; 1969; 1971) precisa che i due tipi di società formano un tutt’uno, costituiscono due facce della medesima realtà le quali, tuttavia, esigono di essere analiticamente distinte. In sintesi: o si osserva la società come aggregato di effervescenza ideativa e di valori, oppure la si osserva come insieme organizzato e funzionale. Certo, la sua realtà rimane il tutto, ma in ogni caso la sua stessa comprensione impone un procedimento di tipo analitico.

Sennonché, le due immagini di società iniziano ad assumere consistenza teorica nel quadro schematico da lui elaborato (Durkheim, 1962) riguardo al processo storico che conduce alla nascita della società moderna. È proprio all’interno di questo schema che le due società vengono innanzitutto messe in relazione a situazioni cronologicamente ben specificate: mentre l’immagine di società che si caratterizza come insieme di valori comuni trova un chiaro riscontro nel contesto storico che va dalla comunità primitiva a quella medievale, l’immagine di società che si caratterizza come struttura funzionale trova un riscontro altrettanto chiaro nel contesto storico riferibile all’epoca moderna. La prima forma societaria viene inoltre accostata alla «solidarietà meccanica», ossia alla coesione sociale incentrata sulla «coscienza collettiva», mentre la seconda alla «solidarietà organica», ossia alla coesione sociale incentrata sulla «divisione del lavoro sociale».

Ebbene, rimanendo coerenti con l’argomentazione storiografica di Durkheim, è lecito affermare che le due tipologie di società appaiono fra loro inconciliabili: come è noto, infatti, ne La divisione del lavoro sociale le stesse possibilità di sviluppo della seconda tipologia vengono fatte scaturire dalla progressiva dissoluzione della prima.

Le due immagini di società si trovano così a coincidere con le due possibili interpretazioni durkheimiane del concetto di anomia (Durkheim, 1969). Precisamente: anomia come assenza di società, nel senso di mancanza di valori; e anomia come assenza di società, nel senso di mancanza di adeguate strutture funzionali (Piazzi, 1973). Nel primo caso ci si trova di fronte a una situazione o a un comportamento anomica/o poiché i valori non influiscono sufficientemente sulla situazione, e/o nella misura in cui non sono stati interiorizzati, quando cioè non agiscono come condizione necessaria del comportamento. Nel secondo caso ci si trova di fronte a una situazione o a un comportamento anomica/o poiché nella circostanza non vi è una conveniente regolazione sotto il profilo tecnico-funzionale o si riscontra una certa inadeguatezza riguardo alla divisione del lavoro sociale; oppure ancora laddove il comportamento non è sufficientemente integrato al livello delle istituzioni — quest’ultime intese non tanto come espressioni valoriali, quanto piuttosto come strategie razionali e soprattutto adattative.

In breve, quando Durkheim descrive l’anomia nella società in cui vive fa indubbiamente riferimento all’assenza di regole, ma queste stesse regole sono sempre regole morali, ovvero regole intese come l’espressione dei valori costruiti dal gruppo per la riproduzione del gruppo medesimo. Ne Il Suicidio dice anche che si tratta dell’assenza di adeguate strutture integrative, ossia della mancanza di istituzioni in grado di coordinare al livello funzionale specifiche situazioni e specifici comportamenti, ma anche in questo caso si riferisce a istituzioni e a strutture come complesso di regole morali. C’è dunque anomia non solo e non tanto per mancanza di istituzioni, ma soprattutto quando quest’ultime, seppur presenti, non riescono a essere l’espressione dei valori di gruppo. Nel caso della società moderna, Durkheim mostra la sua preoccupazione per l’anomia nei termini di assenza del secondo tipo di società, ma ciò in ragione del fatto che questo non è affatto in grado di realizzare il primo.

Ma cosa accade con la formazione della modernità di così dirompente da far ravvisare all’Autore, tra le pieghe del suo stesso processo costitutivo, una considerevole crescita dell’anomia? Accade che, con le grandi rivoluzioni, si assiste all’ascesa al potere della borghesia e alla conseguente affermazione di un sistema di produzione basato sulla divisione del lavoro, e con essi al successo sul piano semantico dell’uguaglianza e della libertà quali valori universali. Da parte sua, Durkheim è pienamente consapevole tanto del ruolo, per così dire, sociologicamente rivoluzionario della borghesia, quanto del processo di autonomizzazione dell’individuo dai gruppi di appartenenza che essa stessa sancisce. Lo si evince chiaramente quando ne Le regole del metodo sociologico scrive che «oggi il problema consiste nel cercare ciò che la morale deve diventare in una società come la nostra, caratterizzata da una crescente concentrazione e unificazione, da un numero sempre maggiore di vie di comunicazione che pongono in rapporto le sue diverse parti, dall’assorbimento della vita locale nella vita generale, dal progresso della grande industria, dallo sviluppo dello spirito individualistico che accompagna la centralizzazione di tutte le forze sociali, e così via» (Durkheim, 1963, p. 161). Lo sviluppo dello spirito individualistico di cui parla l’Autore è appunto quello spirito borghese che incarna, per dirla nei termini di Giuliano Piazzi (1995), l’idea di un individuo che costruisce la propria identità personale non più nelle appartenenze collettive o di gruppo, ma nella proclamazione dell’Io, cioè unicamente in se stesso. Si tratta di una personalità intraprendente e piena di sé, la cui caratteristica essenziale consiste proprio nel non avere, al livello delle appartenenze identitarie, particolari vincoli o radici. In questo senso, la persona borghese esprime una struttura mentale molto flessibile e senza dubbio più adeguata alla forma del mercato e della libera concorrenza.

A tal proposito è con una certa inquietudine che Durkheim si chiede se, nel nuovo contesto, potrà essere ancora sufficientemente autorevole, buona e desiderabile, quindi morale, una società basata sulla divisione del lavoro (solidarietà organica) e dunque proiettata a concedere all’individuo sempre maggiori spazi di autonomia in funzione dello sviluppo del commercio e dell’industria. In effetti, egli si accorge che la società in cui vive sta attraversando una profonda crisi morale, così che afferma: «non si riscontra nella storia una crisi grave quanto quella in cui sono impegnate le società europee da più di un secolo. La disciplina collettiva nella sua forma tradizionale ha perduto autorità come lo dimostrano le tendenze divergenti che dilaniano la coscienza pubblica e l’ansia generale che ne deriva» (Durkheim, 1969, p. 551). È questa, in buona sostanza, la preoccupazione che affligge l’Autore allorché si dedica ad analizzare la società moderna: l’impossibilità, ai suoi occhi, della persistenza di un ordine morale in una società poco incisiva nel fare presa sugli individui secondo i canoni della tradizione, soprattutto nella situazione in cui le componenti costitutive dell’ordine morale — disciplina e attaccamento al gruppo — vengono meno. Durkheim replica a tali tendenze di carattere anomico riformulandole nei termini di un orientamento che attribuisce un valore inedito alla persona, facendo appello all’autonomia della volontà: «per un ideale collettivo, si abbia la consapevolezza, la più chiara coscienza e la più completa possibile, delle ragioni della nostra condotta. È tale consapevolezza a conferire all’atto l’autonomia che la coscienza pubblica esige, ormai, da ogni essere veramente e pienamente morale […]. La moralità […] esige che la norma che prescrive questi atti sia liberamente accettata, il che significa un’accettazione illuminata» (Durkheim, 1969, p. 567 [corsivo mio]). C’è, dunque, da parte sua, l’esplicito riconoscimento dell’impossibilità di eludere la questione dell’autonomia individuale posta in essere dalla logica borghese. È così che nella modernità, secondo Durkheim, al posto di quegli aspetti normativi e valoriali che rendevano le società tradizionali delle società moralmente forti, si afferma una morale laica basata sul culto della persona privata e della sua libertà di azione. Per forza di cose, nel nuovo scenario saranno i nuovi processi educativi di matrice borghese a trasmettere fin da bambini i valori mirabili dell’individuo e con essi il senso corrispondente della morale individualistica. L’educazione borghese è, da questo punto di vista, una concezione e una prassi conforme ai bisogni e agli ideali di prosperità propri di una società competitiva, così come questa si configura dal XVII secolo fino agli inizi del XX. La definizione «educazione borghese» è entrata a far parte del repertorio concettuale pedagogico e sociologico appunto per definire il sistema educativo scolastico egemonico nella società occidentale nel periodo della prima rivoluzione industriale (Desideri, 1989). Non si tratta, dunque, come di primo acchito potrebbe sembrare, del trionfo del singolo individuo sulla società, bensì di una vera e propria ristrutturazione sociale della morale. Come mostra lo stesso Durkheim, infatti, pure «la morale individuale […] non sfugge a questa legge, ed è anzi sociale al massimo grado. Ciò che essa ci prescrive di realizzare è infatti il tipo ideale dell’uomo in questione; ed ogni società concepisce l’ideale a propria immagine» (Durkheim, 1963, p. 184). E poi prosegue: «l’individualismo morale, cioè il culto dell’individuo umano, è in realtà opera della società: è la società che ha fatto dell’uomo un dio del quale è diventata schiava» (Durkheim, 1963, p. 186).

È quindi la semantica borghese, con la sua antropologia di classe, a fornire il necessario impulso per lo sviluppo di una forma inedita di coesione sociale, volta appunto a promuovere la concezione di un individuo astratto e universale. Così, su queste basi, l’individuo generico e astratto diventa empiricamente l’artefice dell’integrazione morale, il soggetto storico destinato a rappresentare il fattore normativo che si sostituisce alla coscienza collettiva o che in modo emblematico perfino impersona la coscienza collettiva nella società moderna. Forse è proprio nella presa di coscienza di questo fatto che si spiega il pessimismo finale dello studioso di Épinal. Di certo, nella trasfigurazione della morale in morale borghese, Durkheim vede insinuarsi una potente contraddizione: se nella società moderna la dimensione sociale dell’uomo sembra non funzionare a dovere, rimane a disposizione soltanto la componente individuale, la quale, tuttavia, giacché lui stesso l’ha in precedenza ritenuta immorale, alla fine si rivela inservibile ai suoi occhi, tanto per dare forza alla morale del passato quanto per crearne una nuova.

Conclusioni

Attraverso un’immagine metaforica si potrebbe dire, riepilogando, che la posizione di Durkheim riguardo alla morale viene a un certo punto a trovarsi di fronte a un vicolo cieco. Da qui, probabilmente, la sua sfiducia sulla possibilità di potere assistere a un’evoluzione in senso positivo della condizione dell’uomo. D’altra parte, egli non può far altro che insistere sulla sua tesi: non c’è niente di morale nell’assegnare all’individuo singolo e ai suoi istinti di conservazione un valore assoluto che orienta l’agire personale, in quanto «l’attività morale si riconosce dal fatto che le regole di condotta cui essa si conforma sono suscettibili di essere resi universali: essa persegue, dunque, per definizione, fini impersonali. La moralità si genera solo nel disinteresse, nell’attaccamento a qualcosa di altro da noi stessi» (Durkheim, 1972, pp. 345-346). Ritenendo l’individuo in quanto tale sprovvisto di una propria qualità morale, agli occhi di Durkheim la moderna società borghese, non essendo in grado di suscitare senso di attaccamento al gruppo, sarà inevitabilmente una società pressoché sprovvista di morale. Non a caso, il ruolo che secondo l’Autore l’educazione dovrebbe esercitare è appunto quello di sensibilizzare nei giovani «la coscienza della necessità dell’autolimitazione». Ora che la società si rivela incapace di contenere le passioni debordanti a causa dell’assenza di adeguati spazi sociali esterni, l’unica alternativa praticabile per fronteggiare tale criticità resta quella di sensibilizzare al livello umano il potenziale interno.

Su questo tema può assumere un peso strategico lo stesso Durkheim. Mi riferisco, in particolare, all’ipotesi citata a proposito delle due immagini di società analiticamente distinte — come effervescenza creativa e valoriale, da un lato e come organizzazione funzionale, dall’altro — che nondimeno, per L’Autore, formerebbero un tutt’uno: due facce della stessa realtà, come si è detto. È questa, nella prospettiva del presente contributo, l’ipotesi che finisce col rivelarsi più ricca di implicazioni teoriche. A tal riguardo, non solo Durkheim separa e poi ricongiunge i due tipi di società, ma addirittura li integra nel quadro di una relazione causalistica, poiché, nonostante tutto, per lui la società come struttura rimane in definitiva sempre funzionale alla società come valori (Durkheim, 1962; 1971). E se questo è vero sul piano generale, deve in qualche modo poterlo essere anche per la società contemporanea della modernità dispiegata: quella per intenderci, del neoliberismo finanziario e tecno-mediale che si ispira alla logica per certi versi perversa del capitale umano (Baldacci, 2019). Non si può perciò trascurare, tornando a Durkheim, che nelle pagine conclusive de Le forme elementari della vita religiosa egli si premura di operare una sostanziale rivalutazione proprio di quei risultati. La società descritta in quel contesto torna a essere la società come ideazione collettiva, la società ideale: quella, appunto, dei valori morali. A proposito dei riti collettivi, infatti, egli dice: «La società ideale non è al di fuori della società reale» (Durkheim, 1971, p. 486). Certo, al livello del suo pensiero agisce sempre una sorta di tensione empirico-trascendentale, che arriva ad assumere una connotazione esemplare, ad esempio, nel celebre passo, tratto ancora dalle conclusioni della sua ultima opera, in cui afferma che stiamo attraversando una fase di «transizione e di mediocrità morale», ma che «verrà un giorno in cui le nostre società conosceranno ancora momenti di effervescenza creativa da cui sorgeranno nuovi ideali […]» (Durkheim, 1971, p. 491). Realizzare ciò richiede, naturalmente, una forma di consenso e di partecipazione democratica (Dewey, 2000) animata a sua volta, coerentemente con la biografia intellettuale di Durkheim, da un rinnovato connubio militante tra sociologia e pedagogia sul tema sensibile dell’educazione. Ma qui, si sa, il discorso diventa davvero impegnativo.

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Watts Miller W. (1996), Durkheim, Morals and Modernity, Montreal, Mc Gill-Queen’s University Press.


1 Ricercatore confermato, Sociologia dei processi culturali e comunicativi (SPS/08), Dipartimento di Studi Umanistici, Università degli Studi di Urbino «Carlo Bo». Questo contributo è parte del programma di ricerca Prin 2017 Curricolo per l’Educazione Morale (CEM). La sfida della formazione morale dei pre-adolescenti oggi, Coordinatore nazionale del Progetto e Responsabile dell’unità operativa di Urbino (WP5), Professor Massimo Baldacci.

2 Researcher and Lecturer in Sociology of Education, Department of Humanities, Università degli Studi di Urbino «Carlo Bo». This contribution is part of the Prin 2017 research programme Curriculum for Moral Education (CME). The challenge of moral education of pre-teenagers today, National Project Coordinator and Head of the Urbino Operational Unit (WP5), Professor Massimo Baldacci.

Vol. 6, Issue 2, October 2020

 

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