Vol. 6, n. 1, aprile 2020

Filosofia dell’educazione

Mounier (ancora) oggi?

Luca Odini1

Sommario

Il contributo si propone di portare alla luce alcuni aspetti salienti del pensiero di Mounier per farne emergere l’impostazione teoretica e il quadro ermeneutico di riferimento. Attraverso un percorso che affronta i temi dell’antropologia della persona, del corpo, della prospettiva sociale e educativa del suo pensiero, si vuol far rilevare l’attualità di questi spunti per il frangente contemporaneo che il pensiero pedagogico si trova a vivere.

Parole chiave

Mounier, storia della pedagogia, antropologia della persona, corpo, società.

PHILOSOPHY OF EDUCATION

Mounier (still) today?

Luca Odini2

Abstract

This contribution aims to illustrate some of the salient aspects of Mounier’s philosophy in order to highlight both its theoretical approach and its hermeneutic frame of reference. Addressing his themes of the anthropology of the person, the body, and the social and educational perspective of his thinking, the essay aims to highlight the relevance of these ideas to the current circumstances facing educational thought.

Keywords

Mounier, history of educational thought, anthropology of the person, body, society.

Introduzione

L’inizio del Ventunesimo secolo si sta caratterizzando per una grande vitalità di temi e problemi che conducono l’umanità a elaborare paradigmi, possibilità e sperimentazioni sempre nuovi che pongono domande e interrogativi, a volte anche radicali, alla scienza dell’educazione. Se appare infatti inevitabile chiedersi quale sia la cornice che individua la linea d’orizzonte della paideia contemporanea, è inevitabile anche domandarsi come si possa immaginare di superare i rischi a cui un certo tipo di visione può condurre il sapere pedagogico. Non ci sfugge infatti la radicalità delle domande che il contesto attuale pone al sapere educativo, perché se gli interrogativi sono profondi, è altrettanto vero che le ricadute sull’operatività di queste questioni sono similmente consistenti.

Il contributo che vogliamo portare cerca di cogliere se all’interno del contesto storico, sociale e culturale contemporaneo, sia possibile leggere il pensiero di Mounier come un ancoraggio in grado di offrire un orizzonte che renda ragione di una paideia saldata a un’antropologia innervata di umanesimo. Terremo come sfondo la domanda di Acone che si chiedeva: «la paideia occidentale di fine-secolo, tendenzialmente universalizzabile (come universale è il Logos della tecnica nel senso dell’occidentalizzazione della Terra) in bilico tra neo-umanesimo e neo-nichilismo, riuscirà a produrre una nuova idea generale di regione regolativa, oltre la tecnica e la scienza-tecnologia […]?» (1994, pp. 21-22). E non dimenticheremo anche che il contesto odierno ci porta a sottolineare un ulteriore rischio potenzialmente più pericoloso, quello di essere condotti, senza quasi rendercene conto, a trovarci immersi in un pensiero che riduce l’educazione al semplice apprendimento di tecniche e conoscenze per formare il futuro produttore. Baldacci utilizza una bella metafora per descrivere la situazione attuale:

La metafora del bivio, che adoperiamo per connotare la situazione della scuola, riprende intenzionalmente quella usata da Maritain (1963) con Education at the Crossroads. Quest’opera, del 1943, si situava nell’epoca di una grave crisi mondiale, e il bivio che prospettava allora l’autore — al netto della sua polemica anti-pragmatista — era quello tra democrazia e totalitarismo. Oggi, la democrazia è di fronte a una nuova forma di totalitarismo, sicuramente più morbida e seducente di quella di allora, ma nondimeno tale: la dittatura del mercato. Una dittatura legittimata grazie all’egemonia politico-culturale dell’ideologia neoliberista (2018, p. 9).

Tenendo conto di questo sfondo, in questo saggio, riprendendo alcuni nuclei del pensiero di Mounier, cercheremo di comprendere se gli spunti di questo pensiero possano essere ancora attuali e abbiano ancora qualcosa da dire a chi si trova quotidianamente impegnato nell’agire educativo.

Antropologia della persona

Per iniziare questo percorso dobbiamo cercare prima di tutto di chiarire se l’autore assegnava alle parole utilizzate lo stesso campo semantico che utilizziamo noi. Per questo in prima istanza cercheremo di comprendere se sia possibile individuare una definizione di cosa si debba intendere per persona, ma veniamo subito spiazzati:

Si possono definire solo gli oggetti posti al di fuori dell’uomo, e che l’uomo può porsi sotto gli occhi. Invece la persona non è un oggetto: essa anzi è proprio ciò che in ogni uomo non può esser trattato come un oggetto. […] Mille fotografie ben accastellate non possono fare un uomo che cammina, pensa e vuole. [...] La persona è un’attività vissuta di autocreazione, di comunicazione e di adesione, che si coglie e si conosce nel suo atto, come movimento di personalizzazione (Mounier, 2004, pp. 29-30).

La persona quindi non può mai subire o essere compressa o ridotta a una definizione unica, statica, semplicemente perché non può essere ridotta a un insieme di caratteristiche a sé stanti o di funzioni scollegate le une dalle altre, deve essere letta invece, secondo quest’ottica, come una sorta di centro di orientamento unitario, di polo. Non possiamo quindi estrapolare un aspetto della persona e assolutizzarlo pensando di sradicarlo o di isolarlo dalla globalità e dalla complessità della persona stessa. Perché in tutte queste sfaccettature della persona vi è un’attività unificante di continua creazione e organizzazione di senso del nostro essere che non si lascia percepire e irretire come oggetto tra gli oggetti.

Un altro aspetto che cogliamo dalle parole di Mounier completa il primo perché ammonisce: «ciascuno ha la propria verità solo in quanto è unito a tutti gli altri» (2004, p. 40). La persona quindi non si può definire una volta per tutte ma si può cogliere solo come un Mit-sein («essere con») che ne costituisce la strutturazione originaria e consente, oltre a un’apertura che possiamo chiamare orizzontale, verso gli altri, anche un’apertura verso un’eccedenza, verso la possibilità dell’oltre. L’universo della persona si fonda quindi non tanto su definizioni monolitiche o assiomatiche ma su due movimenti: il primo che accentua un aspetto che potremmo chiamare di intimità, di raccoglimento, di vita soggettiva e interiore, il secondo che comprende e anzi si integra con l’apertura all’altro. Si apre quindi in questo senso l’affermazione dell’unità della condizione umana che condivide un futuro e un orizzonte di senso perché il singolo non può mai, in quest’ottica, pensarsi senza l’altro.

Questo ci consente già di rilevare due aspetti fondamentali che possono essere declinati in ambito educativo: la persona è sempre un unicum ed è sempre qualcosa in più della mera addizione di aspetti e caratteristiche psicologiche, biologiche, chimiche e sociali. E ogni persona quindi viene vista e va rispettata come centro e polarità di riferimento per un significato e un orizzonte mai statico, che si costruisce nella relazione con sé stessi e con gli altri.

La persona quindi, pur essendo un unicum, deve necessariamente essere letta come un unicum che rifugge da definizioni e si deve cogliere come coscienza in situazione, come ha giustamente rilevato Melchiorre (1997, p. 9). Significa che l’esperienza pur soggettiva della corporeità e della soggettività arrivano a confluire in una unità esistenziale, che non può essere sottomessa a una definizione rigida e limitante. Appare allo stesso modo evidente come la persona sia in ogni caso residuo ineludibile (Mounier, 2004, p. 50) di ogni possibile esercizio di lettura e di analisi dell’esistente (Melchiorre, 1997, pp. 7-8).

Guadagnata questa che potremmo definire come esperienza della soggettività, appare inevitabile definire come questa sia assolutamente incarnata in una corporeità, che è vincolata come parte stessa del mio essermi cosciente. Sarà anzi proprio attraverso il corpo e questa coscienza incarnata che Mounier esprimerà l’idea che ognuno di noi è esposto non solo a se stesso come corpo e come coscienza, ma esposto a se nel mondo e nella trascendenza.

È evidente quindi come il secondo aspetto sia imprescindibile per cogliere una delle caratteristiche fondamentali del nostro essere persona, ovvero quello dell’essere-in-relazione. Quest’esperienza è altrettanto originaria quanto sfuggente perché, se implica quell’incarnazione cui accennavamo sopra, allo stesso tempo è uno sguardo che si riesce a cogliere solamente uscendo dal recinto dell’autoriflessività ed esponendosi all’altro, agli altri, al mondo e nel mondo. Attraverso dunque l’incarnazione della coscienza colta come in situazione, si è aperta nettamente la strada alla possibilità dell’essere in trascendenza. Possiamo infatti affermare, riassumendo quanto fin qui assunto, che questa è sì fondazione della persona incarnata, ma colta come essere in relazione a un essere fisico, corporeo, a un essere riflessivo, a un essere relazionale e comunitario, fino ad aprirsi verso un essere trascendente.

Ed ecco il secondo punto emergere quasi spontaneamente: la persona può conoscersi, crescere, svilupparsi solamente come movimento di apertura verso la propria interiorità e verso gli altri. Senza questa dimensione comunitaria e sociale qualsiasi uomo verrebbe snaturato di un elemento che lo rende proprio e gli consente questa unicità. La persona è letta quindi come residuo ineludibile di ogni analisi sull’esistente (Melchiorre, 1997, p. 7).

Il corpo

Da qui Mounier parte con un’analisi dell’esperienza del corpo che ci consente alcune riflessioni. Scrive infatti: «Il mio corpo non è un oggetto fra gli oggetti, il più vicino fra tutti: come potrebbe unirsi altrimenti alla mia esperienza di soggetto? […] Non posso pensare senza essere, né essere senza il mio corpo: per mezzo suo io sono esposto a me stesso, al mondo, agli altri, è per mezzo suo che sfuggo alla solitudine di un pensiero che sarebbe soltanto il pensiero del mio pensiero» (2004, p. 51). Vediamo dunque come viene riportata al centro la questione del corpo, non inteso come strumento o come mezzo per il piacere o per il solo soddisfacimento di un bisogno o come macchina per produrre. Nietzsche è riuscito a dare una fotografia di alcuni aspetti che riteniamo salienti e ci condizionano nella visione del nostro corpo e corrono il rischio di avere evidenti ricadute di carattere educativo, scrive: «Ciò che provano i sensi, ciò che lo spirito riconosce, non ha mai un fine in se stesso. Ma i sensi e lo spirito ti vorrebbero convincere che sono essi la fine di tutte le cose: tanto sono pieni di vanità» (Nietzsche, 2000). L’ottica di Mounier che abbiamo indicato riporta una visione esattamente contraria all’inganno che vuole indicare Nietzsche e indica come centrale la questione del corpo come condizione noetica vera e propria, che rifugga da ogni dualismo di carattere gnoseologico e che si sforza di mostrare il più chiaramente possibile il nesso che il corpo ha con la verità del mio essere e dell’essere di ognuno di noi. La domanda è tanto antica quanto radicale, suona come quella di Euripide che si interroga se il nostro vivere non sia in realtà un esser morti. In questo senso appaiono fondamentali gli studi fenomenologici di Husserl (1950; 1988; 2000) e di Marcel (1980; 1987a; 1987b) che tracciano una sorta di fil rouge che arriva fino in Italia con i lavori già citati di Melchiorre (1960; 1997), che indica come il corpo possa essere considerato originaria manifestazione o come espressione di un senso d’essere. Non possiamo quindi limitarci a considerare il corpo come un meccanismo accidentale e meramente biologico, è un punto fondamentale di orientamento e di significato della coscienza, che riempie di senso e orienta verso l’altro attraverso il quale potrà riconoscersi (Melchiorre, 1997, p. 90).

Quest’impostazione apre evidenti ricadute che implicano il rapporto con l’altro per il riconoscimento di sé stessi, ma anche la possibilità di un’apertura ulteriore. Potremmo seguire in questo caso il percorso di Mounier:

Qual è il termine del movimento di trascendenza? […] Il personalismo cristiano va fino in fondo: per esso tutti i valori si raccolgono nell’appello singolare di una Persona suprema. Si domanderanno prove della trascendenza, del valore dei valori. Poiché appartiene all’universo della libertà, la trascendenza non è oggetto di dimostrazione. La sua certezza si esprime nella pienezza della vita personale e crolla con le sue cadute. Il soggetto può allora divenire insensibile al valore e questo suo disinganno ontologico può mutarsi in odio (2004, p. 106).

Per Mounier la trascendenza è possibile perché inserita nella libertà, perché la libertà è per il filosofo affermazione della persona stessa senza la quale saremmo come degli zimbelli nell’universo. La libertà dunque come affermazione della persona è il primo passaggio che si deve compiere per il dischiudersi del mondo dei valori, tra i quali a capofila è posta la felicità. È possibile dunque cogliere un fil rouge che parte dalla persona e ci ha condotto a compiere un percorso attraverso il corpo verso la verità, la libertà, la trascendenza e la felicità.

Ecco nella possibilità di questa apertura all’altro e di questa libertà, vediamo l’opportunità di questo fondamento dialogico non escludente che, salvando ciò che rende veramente l’uomo tale, lascia aperta la possibilità che l’altro possa essere anche l’Altro. In questo senso allora viene ritrovata e fondata la possibilità della relazione come elemento imprescindibile nella categoria dell’educativo, la rivincita del corpo come condizione e come opportunità noetica, come anche l’apertura a una finestra trascendente che restituisca la bellezza di questa possibilità.

Lo snodo sociale

Ci pare quindi che proprio attraverso il corpo, seguendo lo spunto di Melchiorre (1997, p. 14), il pensiero di Mounier ci porti direttamente a considerazioni che riguardano l’aspetto più sociale e politico che cercheremo di evidenziare. Abbiamo appena guadagnato il fatto che la persona è coscienza situata che non si costituisce di solo spirito ma è inverata nella carne viva del corpo, che chiama l’alterità, che ricerca relazione, che è fatta di relazione perché il corpo stesso si costituisce come ponte. Ponte di conoscenza verso sé stessi, ma anche tensione conoscitiva verso l’altro.

In questo senso Mounier non concepisce la logica personalista come una logica dell’identità pura, bensì come una logica di chi cerca la propria immagine nell’altro, attraverso la luce dell’altro. È una vera e propria rivincita della materia che «tesse il cammino della verità e disegna il volto degli uomini, scrive le nostre vicissitudini, è la compagna di tutto il dramma. […] Senza la materia, il nostro slancio spirituale si perderebbe nel sogno o nell’angoscia; la materia lo piega e gli mette ostacoli, ma gli infonde anche vigore ed energia. Basta che lo spirito sappia affrontarla con animo esigente» (1955, pp. 55-56).

Ecco che è proprio la necessità di questo animo esigente che risveglia in noi il senso, la possibilità di educare anche ad altro attraverso la materia. Perché la materia, la carne, è la chiave dell’apertura al sociale. Sempre le parole di Melchiorre ci guidano in questa disamina e in questo passaggio significativo, perché: «questa logica dell’esistenza personale va nel senso dell’essere e non nel senso dell’avere: l’avere implica un rapporto con l’altro, ma piuttosto che un rapporto di comunione è uno sforzo di possessione; nell’avere non esco da quel che sono per cercarmi nell’essere dell’altro, ma cerco di ridurre l’altro nel mio proprium e perciò l’altro continua a rimanermi estraneo» (1997, p. 12). L’avere dunque, parafrasando le parole stesse di Mounier, è un sostituto degradato dell’essere, e ci conduce ad arrivare a quello splendido paradosso indicato da Melchiorre stesso: «si tratta, in altri termini, di aprire il possesso alla comunicazione, di possedere depossedendo, rendendo non solitaria la proprietà» (1997, p. 13).

Mounier quindi individua nella sua critica all’uomo borghese il male di voler avere per evitare di essere, e questo conduce l’uomo alla paura e all’angoscia, a rinchiudersi in una dialettica solipsistica. Melchiorre lo cita magnificamente poche righe dopo: «L’amore del denaro nasce in definitiva appunto da questo, dall’angoscia della trascendenza» (1997, p. 14). Capiamo quanta forza queste parole possono avere per l’uomo d’oggi imbrigliato nella dialettica che citavamo all’inizio, perché l’uomo borghese è l’uomo rinchiuso in questo solipsismo individualistico, che conduce a quella che Mounier stesso chiama la «metafisica della solitudine integrale».

Attraverso questo passaggio Mounier ci fornisce l’accesso a una visione comunitaria. Forzando la mano, suggerisce: «È necessario vedere l’individualismo in tutta la sua ampiezza. Non è solo una morale; è la metafisica della solitudine integrale, la sola che ci rimanga quando abbiamo perduto la verità, il mondo e la comunione con gli uomini» (1955b, p. 57). Da qui illustra tre tipi di solitudine: 1) la solitudine di fronte alla verità; 2) la solitudine di fronte al mondo; 3) la solitudine di fronte agli uomini. In questo contesto l’uomo dell’Occidente è stato plasmato: «dall’individualismo rinascente, e lo è stato, per quattro secoli, attorno a una metafisica, a una morale, a una pratica della rivendicazione. La persona non è più una parte attiva nel tutto, non costituisce più un centro di fecondità e di dedizione, ma è focolaio di discordia. Impossibile parlare di umanesimo» (1955b, p. 59).

La critica all’uomo borghese quindi è critica all’uomo che ha paura, all’uomo che vuole la sua vita garantita e che per questo si rinchiude, è un sistema di costumi che, parafrasando Mounier stesso, organizza l’individuo su queste attitudini di isolamento e di difesa. Per questo la sua critica: «l’individuo non è che la persona contratta nella sua individualità, nella assolutezza della sua solitudine e del suo proprium: è perciò attitudine all’accumulazione e poi difesa a oltranza dell’aver accumulato» (Melchiorre, 1997, p. 15).

Ma l’analisi di Mounier non si ferma qui, se si arrestasse a questo punto si costituirebbe solamente come un’analisi storica e un invito vagamente moralistico: nei fatti propone una sostanziale riabilitazione dell’ordine comunitario in cui viene bandito qualsiasi criterio di esclusività. La proprietà stessa con il suo fondamento è inseparabile dalla considerazione del suo uso, cioè dalla sua finalità:

In questa prospettiva ciò che va, dunque, bandito è ogni criterio di esclusività: non nell’amministrazione dei beni, ma nel loro uso. E la comunità nell’uso dei beni, a sua volta, esige che l’ordine sociale debba costituirsi a partire da un’etica dei bisogni reali delle persone: i servizi sociali dovranno dunque avere un’assoluta priorità sul profitto, e i valori prodotti dovranno essere investiti per la totalità dei produttori. Il bene dell’uno e quello della comunità si costituiscono a vicenda» (Melchiorre, 1997, p. 17).

Il passaggio finale dunque che Mounier compie è un passaggio completo e complesso, che non può prestare il fianco a rivisitazioni unilaterali, ma deve essere letto partendo dal cuore del pensiero personalista.

Le ricadute educative

Evidenziata l’articolazione e la complessità di alcuni aspetti del pensiero di Mounier, cerchiamo ora di declinare questi snodi per coglierne l’attualità delle provocazioni educative e comprendere se possano fornirci una cornice in grado di dialogare anche con il presente.

Il primo elemento che ci sentiamo di individuare, seguendo l’ordine che abbiamo impostato, è il tema della complessità della persona e dell’impossibilità di ridurla a una definizione statica, per centrarsi nell’ottica della relazionalità. Un’impostazione di questo tipo non può forse fornire degli stimoli dialoganti per gli studi sulle progettualità che stanno sempre più emergendo nelle sperimentazioni e nei modelli educativi che si declinano in contesti nuovi e solo parzialmente esplorati? Pensiamo al tema di come la forma famiglia stia mutando nel corso del tempo, e di come questa realtà porti potenzialità e sfide nuove da affrontare, che urtano con sacche di resistenze e di pregiudizio o discriminazione ancora oggi presenti: «nonostante i progressivi riconoscimenti sociali del genere femminile e i cambiamenti culturali che hanno portato a una politica di promozione delle pari opportunità all’interno e al di fuori della coppia, gli studi più recenti continuano a evidenziare la persistenza del principio della divisione secondo il sesso e della dominazione sociale del genere maschile su quello femminile» (Loiodice, 2014, p. 9). Una cornice che richiama alla necessità della relazione e del riconoscimento non può contribuire a quel ripensamento delle identità di genere e della ristrutturazione delle trame relazionali che giustamente richiama Loiodice?

Nuovamente Loiodice indica come necessario un «ripensamento radicale dei modelli tradizionali delle identità di genere a partire da una ristrutturazione dei nuovi rapporti di coppia e di famiglia» e ciò «richiede una riflessione approfondita in un’ottica interdisciplinare e transculturale» (2014, p. 9). Proprio in questo senso il richiamo al riconoscimento della verità di cui è portatore l’altro come possibilità di riconoscimento e di riflessione su sé stessi, sul proprio ruolo, sulla propria identità da costruire all’interno della relazione, non ha echi che rimandano agli auspici di Mounier (2004, p. 40)? Se è vero infatti che possiamo coglierci solo e originariamente come un Mit-sein («essere con») che costituisce la nostra strutturazione originaria, ciò può corrispondere a una buona base e a un possibile punto di partenza per

ripensare nuove logiche relazionali, rifondando innanzitutto la relazioni inter-genere a partire dal rapporto di coppia, utilizzando appunto la formazione come quel congegno capace di generare pensieri, produrre emozioni, alimentare affetti, instaurare relazioni ispirate e governate dai principi del rispetto e delle differenze responsabilmente assunte come principio regolatore delle molteplici diversità che si incontrano all’interno del nucleo familiare: diversità di genere, innanzitutto, ma anche di genealogia, di età, di ruoli, di compiti, di biografie (Loiodice, 2014, p. 11).

Il richiamo che abbiamo evidenziato di Mounier al riconoscimento dell’altro attraverso la materia, attraverso il corpo e attraverso la differenza, potrebbe costituire una possibilità di approfondimento di quel principio della differenza che evidenzia Cambi (1987; 2001, p. 19), come opportunità che si colloca «nel cuore del progetto educativo, come rispetto per le diversità, come volizione delle alterità, come amore e ricerca verso il rimosso, il negato, l’emarginato. Si deve avvicinare la differenza come principio e come valore, poiché ci rimanda al pluralismo dell’“essere” e la sua ricchezza/complessità, che è il criterio intorno al quale può costituirsi il messaggio pedagogico del postmoderno» (2001, pp. 19-20).

Il richiamo di Mounier che consente, oltre a un’apertura orizzontale verso gli altri, anche un’apertura verso un’eccedenza, verso la possibilità dell’oltre, ci pare offra la possibilità di un terreno disarmato per incontrare l’altro che proviene da una cultura diversa. Il pensiero pedagogico in questo senso potrebbe essere in grado di far fiorire questo nucleo di razionalizzazione conducendo a una comunicazione efficace che possa fornire strumenti pratici in questo campo. Partendo dall’apertura al riconoscimento infatti si può schiudere il riconoscimento e l’affermazione dell’unità della condizione umana che condivide un futuro e un orizzonte di senso perché il singolo non può mai, in quest’ottica, pensarsi senza l’altro. Se è vero che le cronache quotidiane ci raccontano della difficoltà dell’incontro con l’altro, specialmente se proviene da una cultura diversa o segue un’ideologia intrisa di fondamentalismo e di ansia di riscatto umano e politico, il sapere pedagogico come sapere della formazione umana, con un riferimento antropologico di questo tipo che certamente non si ferma a Mounier ma può nutrirsi anche da lui, può costituirsi come «un sapere che carica il futuro sulle spalle del presente e vive la problematicità radicale di questo rapporto. L’intercultura è — oggi — di tutto questo (anche se non solo di questo) un segnale efficace». (Cambi, 2001, p. 25). Ma l’ottica interculturale fondata in questo senso (Fiorucci, 2000) può tranquillamente porsi come la base e lo spunto più ampio per aiutarci a vivere nel pluralismo culturale che il mondo contemporaneo ci pone dinnanzi e costruire dei percorsi di cittadinanza all’interno delle sfide che la globalizzazione continua quotidianamente a porci. Sfide che non sono mai vinte una volta per tutte ma devono essere custodite e rinvigorite nelle loro motivazioni di fondo nella cura dell’umanizzazione del genere umano.

In questo senso l’ultimo passaggio che ci sentiamo di compiere è quello della ripresa della metafora del bivio che richiamavamo in apertura. Mounier sferra una critica che ci pare colga ampiamente nel segno evidenziando i rischi di una deriva dell’uomo contemporaneo che sta emergendo in tutta la sua contraddittorietà, vista la rivoluzione tecnologica ed economica che stiamo vivendo. In una società che pone l’avere, parafrasando nuovamente le parole di Mounier, come sostituto dell’essere, non si può ridiscutere il tema della proprietà e della comunità? L’uomo di oggi, ci ricorda Mounier, è un uomo che per evitare di essere si richiude in una dialettica solipsistica in cui il possedere diventa una medicina per la mancanza dell’essere. Per evitare di essere, l’uomo figlio di quella visione neoliberista che sembra imperante oggi, rimane imbrigliato in questa sorta di metafisica della solitudine integrale in cui l’amore per il denaro e per il possesso diventano un succedaneo della relazione con sé stessi e con gli altri. L’uomo borghese è rinchiuso in questo solipsismo, e questa critica calza perfettamente anche per l’oggi se pensiamo alle problematiche educative che ci troviamo ad affrontare. Proprio dal sapere pedagogico che pensa il sapere, la conoscenza, la crescita delle persone come un’impresa comune vera e propria, che cresce nella relazione e attraverso la relazione, si può tornare a immaginare che l’incontro con l’altro possa tornare ad essere il luogo privilegiato in cui si sperimenta la comunità degli uomini. La natura sociale e cooperativa che ci stanno svelando le crescenti tecnologie, le reti, i mezzi di produzione oggi rendono questi aspetti evidenti e potenzialmente deflagranti andando esattamente nella direzione che abbiamo sottolineato. In questo contesto proprio il sapere, la comunione, la condivisione e lo sviluppo con tutti gli altri uomini può essere l’esempio più bello e lampante in grado di costituirsi come contraltare ai rischi dell’individualismo che individua Mounier.

Il sapere, il crescere insieme allora possono diventare il luogo in cui l’essere rifiorisce e in cui la persona torna ad essere una parte attiva e fondamentale nel tutto, un centro di fecondità in cui si può tornare a parlare di umanesimo e in cui la pedagogia può giocare un ruolo fondamentale orientando processi e indicando orizzonti. Ecco che si potrebbe tornare a parlare di umanesimo. Conte tematizza bene questo snodo sottolineando:

La persona, quindi, come principio, realtà in formazione, fine dell’educazione. La pedagogia come scienza post-analitica ed ermeneutica per la persona in formazione. Scienza che anziché consegnarsi all’etica della Gelassenheit, dell’abbandono all’heideggeriano itinerarium mentis in nihilum, pensa e promuove la formazione extra nihilum del soggetto nella sua essenza umana più profonda. Bildung vs Gelassenheit. Il che può tradursi, nell’oggi, affermando, ad esempio, che il destino dell’educazione non è il destino della tecnica (2003, p. 122).

Ecco nuovamente ritornare la scelta e il senso del bivio che si richiamava in apertura; utilizzare come strumento e come riferimento antropologico una struttura di pensiero come quella immaginata da Mounier può aiutare a percorrere una strada per cui «educare come umanizzare significa un’attribuzione di valore e di verità e di senso all’umanità che non può non attingere all’universale. In alternativa, rimane solo un’operazione mentale riduttiva sull’educazione e le sue possibilità» (Acone, 1997, p. 118).

Conclusioni

Ecco allora che condotti dalle parole e dal pensiero di Mounier crediamo di aver fatto emergere anche alcuni aspetti che caratterizzano il bivio che Acone e Baldacci prefiguravano e che contraddistingue la condizione culturale, sociale e pedagogica a cui assistiamo quotidianamente. Se è vero, come sottolinea Polenghi che «pedagogia allora significa pensiero critico, problematicismo, dialogo, confronto. Non significa steccati, fratture, né giochi di interessi personali o particolari. Significa avere di mira il bene comune con lo stesso coraggio a cui invita Brezinka, Mut zur Erziehung: abbi il coraggio di educare» (2018, p.4); allora grazie anche al pensiero dei classici che hanno irrorato e reso feconda la nostra scienza, possiamo ritrovare quei solchi di umanizzazione che ci consentono di riscoprire alcuni punti di riferimento che possono ancora aiutarci a leggere l’oggi e a decifrare alcuni movimenti sociali e culturali che, seppur in continua mutazione, corrono il rischio di confondersi nella nebbia di un pensiero unico. Ecco il perché della necessità, anche per noi, della riscoperta e dello studio diretto dei testi classici, per trovare l’agio e il fiato di immaginare un orizzonte coraggioso per la paideia del nuovo secolo. Un orizzonte che può riscoprire come umanizzante un pensiero che accoglie e che valorizza nuovamente l’uomo, il bene, il bene comune. Perché «un conto è essere fratelli perché unificati dall’esterno, dall’impresa e dalla sua logica, un conto è essere fratelli perché figli, ognuno unico, segnato dalla cura ricevuta, e da una vulnerabilità che orienta alla reciproca cura» (Lizzola e Tarchini, 2006, p. 23). Se è vero quest’aspetto, e se tanto e giustamente poniamo l’attenzione sul senso e sul significato della cura, ecco che

se la necessità della cura si fonda su ciò che caratterizza ontologicamente la condizione umana, si può ipotizzare che una educazione alla cura debba passare attraverso una alfabetizzazione ontologica, intesa come una riflessione sulla fragilità, vulnerabilità, relazionalità e dipendenza del nostro esserci. Tuttavia, pur essendo essenziale, questa alfabetizzazione ontologica non basta: affinché l’esserci si decida per la cura, ci vuole anche passione per il bene. Occorre saper sentire che il nostro ben-esserci non è disgiunto dall’altro e che il ben-esserci dell’altro riguarda anche noi» (Mortari, 2018, p. 72).

Riscoprire, tematizzare, dialogare con i grandi classici che la storia del nostro pensiero pedagogico ci consegna, oggi, può essere un passo che va esattamente in questa direzione.

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1 Assegnista di ricerca M-Ped/02, Università degli Studi di Verona.

2 Researcher, Università degli Studi di Verona.

Vol. 6, Issue 1, April 2020

 

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