Test Book

Teorie pedagogiche / Educational Theories

Gramsci e la recensione a New Schools in the Old World
Gramsci and his New School in the Old World commentary

Pietro Maltese

Ricercatore a tempo indeterminato di Pedagogia Generale e Sociale



Sommario

Questo saggio analizza un paragrafo dei Quaderni del carcere di Gramsci relativo a un commento del Sardo a una recensione di un volume di Washburne e Stearns nel quale sono raccontate alcune esperienze europee di scuole attive. Adottando una lettura diacronica e filologica e ragionando sulle fonti originali di cui Gramsci poteva disporre, lo scritto, inoltre, ricostruisce brevemente i modi in cui la letteratura pedagogica ha trattato questo testo gramsciano.

Parole chiave

Attivismo, Gramsci, Washburne


Abstract

The essay considers a paragraph from Gramsci’s Quaderni del carcere, where the Author analyzes a work from Washburne and Stearns about some didactic European experiences. Through a diachronic and philologic perspective, discussing over Gramsci’s historical sources, the article briefly describes Gramsci’s influence over pedagogic literature.

Keywords

Activism, Gramsci, Washburne


Introduzione

In questo articolo si analizzerà una nota dei Quaderni del carcere di Gramsci sovente chiamata in causa nel campo degli studi pedagogici per rimarcare l’anti-spontaneismo educativo dell’intellettuale comunista. Si tratta del § 119 del Q. 9, dove, commentando una recensione di Guido Ferrando a New Schools in the Old World di Carleton Washburne (scritto in collaborazione con Myron M. Stearns) apparsa nel settembre del 1931 sulla rivista «Il Marzocco», Gramsci allude ad alcune criticità delle esperienze attivistiche ivi narrate. Si tratta, di fatto, di appunti, su cui la letteratura ha insistito senza, talvolta, impegnarsi in una lettura diacronica e attenta ai dettagli filologici — le cui potenzialità si svelano a partire dal 1975, anno di pubblicazione dell’edizione critica dei Quaderni del carcere curata da Valentino Gerratana, benché intuibili pure in precedenza — o soprassedendo sul carattere a-sistematico delle gramsciane meditazioni carcerarie, ascrivibile tanto alle condizioni di scrittura, quanto al modo di riflettere del loro autore. Senza, cioè, tenere conto della «frammentarietà formale» delle pagine composte durante la reclusione, della «non sistematicità sostanziale […] intrinseca al metodo e al pensiero»[1] del Sardo, della natura «provvisoria», «aperta e processuale» della «struttura» di quei testi.[2]

 

Il Quaderno 9 e le «Quistioni scolastiche»

Il Q. 9, ricevuto tra gennaio e febbraio del 1929, comincia a essere usato in primavera per realizzare traduzioni dal russo. Queste sono, però, con buone probabilità abbandonate nell’autunno, tant’è che in una lettera di novembre a Tania Schucht il carcerato dichiara di tradurre solo dal tedesco, pur ripromettendosi di ricominciare, l’anno successivo, a tradurre dal russo.[3] Dopo tre anni, il Q. 9 viene ripreso, finendo per costituire una continuazione della parte miscellanea del Q. 8. Steso, escluse le traduzioni, tra l’aprile e il novembre del 1932, il Q. 9 è un «quaderno “misto”»,[4] composto da due blocchi di note miscellanee e da un blocco tematico omogeneo sul Risorgimento (29 §§, dal § 89 al § 118, poi ricopiati e rielaborati quasi integralmente nel Q. 19). Il § 119, che dà l’avvio al secondo blocco miscellaneo, è intitolato Quistioni scolastiche e tale titolo era già stato adoperato in un testo B del Q. 6 del gennaio del 1932 in cui Gramsci riprende un articolo del «Corriere della Sera» del 7 gennaio del quale si sottolineano «osservazioni interessanti» su corsi ed esami di Stato per gli ingegneri. Sulla falsariga del pezzo giornalistico, la nota stigmatizza l’assetto totalmente frontale delle lezioni e il relativo limitato assorbimento, da parte dei discenti, della mole di nozioni trasmesse; in secondo luogo, evidenzia il dato paradossale per cui, in sede d’esame, i candidati riescano a rispondere ai quesiti difficili, ma non a quelli facili. Dopodiché, Gramsci esibisce considerazioni che mettono in discussione, per l’istruzione terziaria, il «sistema […] delle lezioni-conferenze senza “seminario”» e il consueto modo di far svolgere gli esami, colpevole di creare una non proficua «psicologia tradizionale degli esami». Le due materie risultano connesse. In tal senso, sono chiamati in causa gli «appunti» e le «dispense» di norma concernenti le «quistioni “difficili”», essendo, parimenti, gli insegnanti abituati a insistere «sul difficile» poiché convinti dell’esistenza di un’«attività indipendente dello studente per le “cose facili”». È un circolo vizioso: lo studente — in specie prima degli esami — ripassa, infatti, solo il difficile, ne è «ipnotizzato». Il paragrafo si chiude ponendo sul tappeto interrogativi dirimenti: «all’Università si deve “studiare” o “studiare per saper studiare”? Si devono studiare “fatti” o il metodo per studiare i “fatti”?» (Q. 6, pp. 843-844). Inoltre, tra il marzo e l’aprile del 1932, Gramsci compila un elenco di temi da svolgere, i «Raggruppamenti di materia», la cui prima voce è «Intellettuali. Quistioni scolastiche» (Q. 8, p. 936). Sembra stia parlando del Q. 12, scritto verosimilmente tra maggio e giugno del 1932 ricopiando e rielaborando testi del Q. 4, ospitante riflessioni sugli intellettuali, sull’organizzazione scolastica (Q. 12, p. 1517), sulla «scuola unica» quale via d’uscita dalla «crisi del programma e dell’organizzazione scolastica» (Q. 12, pp. 1530-1531 e pp. 1534-1538), sul principio educativo scolastico (Q. 12, pp. 1540-1543), sulla funzionalità pedagogica delle lingue morte (Q. 12, pp. 1544-1546), sulle problematicità della scolarità di massa (Q. 12, pp. 1547-1550) e, di fatto, abbandonato, composto, com’è, da 3 paragrafi che non esauriscono l’imponente riflessione in merito svolta tra il 1929 e la primavera del 1932. Un indizio dell’abbandono è dato dalla fattura del quaderno: un registro di 21,8 cm x 31,2 cm, mentre la maggior parte dei quaderni è di formato inferiore, identici al Q. 12 sono solo il 13 e il 18.[5] Tali dimensioni lasciano spazio a chi volesse pensare che Gramsci — che le trovava poco comode — avesse in mente di stendere un quaderno speciale più voluminoso di quanto poi si presenti il Q. 12. Il Q. 12 non include il § 206 del Q. 6 e leggendo l’edizione del 1975 si ha l’impressione che pure il § 119 del Q. 9 sia stato scartato. Sennonché, grazie a ricerche filologicamente orientate si può avanzare l’ipotesi che il § 119 del Q. 9 sia stato stilato quando il Q. 12 era già stato abbandonato. Per decifrare la trama delle inclusioni/esclusioni di testi sulle quistioni scolastiche nel/dal quaderno che sembra racchiudere le più importanti riflessioni pedagogiche, vanno accolte le indicazioni di Gianni Francioni, secondo il quale Gramsci accarezza l’idea di un organico lavoro sugli intellettuali, in cui le quistioni scolastiche hanno un ruolo non marginale, ben prima della stesura del Q. 12. Ciò è attestato dall’inizio del Q. 8 (steso tra novembre-dicembre 1930 e i primissimi del 1931), quando è messo nero su bianco il progetto di scrittura di «Note sparse e appunti per una storia degli intellettuali italiani» e sono enumerati alcuni eventuali «Saggi principali», tra cui uno dedicato alla «scuola unica» e al suo significato «per tutta l’organizzazione della cultura nazionale» e uno sulla «scuola e l’educazione nazionale» (Q. 8, pp. 935- 936). Andrebbe, allora, rivista sia la datazione di Gerratana dell’incipit del Q. 8 (fine del 1931), sia l’ipotesi secondo cui le Note costituirebbero un nuovo programma di ricerca rispetto a quello presente nella prima pagina dei Quaderni (QM., p. 3), essendo, piuttosto, un «sommario» (una specie di «consuntivo») «che, puntualizzando e mettendo ordine a un lavoro in parte già svolto, pone le premesse per un più regolare e articolato prosieguo dello svolgimento».[6] Quindi il Q. 12 non sarebbe che il tentativo fallito di svolgere il programma esibito all’inizio del Q. 8? La somiglianza dei titoli (il Q. 12 è intitolato Appunti e note sparse per un gruppo di saggi sulla storia degli intellettuali e della cultura in Italia) consiglia di rispondere positivamente. Per lo meno sulle prime, esso verrebbe, cioè, «concepito […] come collettore unico delle note sparse sugli intellettuali».[7] Cionondimeno, leggendolo, si ha l’impressione che svolga la prima voce dei Raggruppamenti, non quelle delle Note. Quel che appare irrefutabile è che la rubrica Quistioni scolastiche non abbia seguito (mancando seconde stesure). Su tale sorte possono darsi molte risposte: altri gli interessi che vanno imponendosi, altri gli input provenienti dall’ambiente esterno, differenti le suggestioni che affollano il cervello di chi continua a credere di incidere sul corso delle cose pur rinchiuso tra quattro mura — per non parlare delle condizioni fisiche. La tesi dello scrivente è che si verifichi uno slittamento del nucleo delle problematiche delle Quistioni scolastiche in altri territori in cui le medesime istanze vengono tradotte in altri linguaggi.

 

La recensione di Ferrando

Prima di raccontare e commentare New Schools, Ferrando, a mo’ di premessa, constata come negli ultimi 50 anni l’uomo sarebbe «riuscito […] a dominare la natura», ma non a «conquistare se stesso» o a raggiungere «piena conoscenza e padronanza della propria natura». A questo punto, rimarca le nuove problematiche («morali e spirituali») sorte a fronte del progresso, da ritenersi il «substrato della grave crisi economica, politica e religiosa di carattere mondiale». Probabilmente si riferisce alla crisi del 1929, ma non si poteva parlare di essa in New Schools. Difatti, quantunque Ferrando ne dati la pubblicazione al 1930, il volume fu dato alle stampe nel 1926 (per non dire che l’anglista lo attribuisce al solo Washburne). La chiave di risoluzione di questa crisi sarebbe il rinnovamento delle scuole, visto il carattere «internazionale» e globale del problema educativo: essendo, d’altronde, le «creature umane […] su per giù le stesse in tutte le parti del mondo», allora «i sistemi educativi […] corrispond[erebbero] più o meno in tutto il mondo».[8] Dopo tali riflessioni, Ferrando passa a descrivere le tipicità comuni ai contesti scolastici sparsi in giro per il pianeta, la prima delle quali consisterebbe nell’impartire l’istruzione «in maniera meccanica e uniforme senza» fare attenzione alle «speciali disposizioni, attitudini e […] abilità» dei singoli. Dunque programmi uguali per tutti e materie sul cui reale interesse suscitato mai ci si interroga. Né nelle scuole elementari rese obbligatorie un po’ ovunque, ci si impegnerebbe per far sì che il discente impari a mettere a frutto lo scarso contenuto appreso pure su un terreno etico, non solo economico. In altre parole, la scuola elementare non assolverebbe ai suoi compiti basilari. Ciò che non farebbe neanche la scuola secondaria, gravata da «programmi […] troppo rigidi e uniformi», rei di non permettere l’incontro di teoria e pratica e poco interessanti e utili per i giovani. È il problema di un modello «puramente teoric[o]», che scommette sullo «sforzo mnemonico» senza porsi il dubbio di verificare, in modi altri rispetto al dispositivo dell’esame, l’utilità di quanto appreso dai discenti: «se cultura significa saper applicare le proprie cognizioni alla vita», scrive Ferrando, «la maggior parte dei giovani escono dalle scuole secondarie […] senza possederla».[9] Successivamente a queste critiche, il recensore sciorina gli obiettivi di un’educazione nuova, presentando il «grande pedagogista americano […] Washburne» e il suo testo, descritto come «magnifico, equilibrato, […] ricco di acute osservazioni». Ferrando è entusiasta e grazie alla sua penna il lettore italiano viene a conoscenza del viaggio europeo dell’intellettuale statunitense presso 12 scuole nuove. La prima scuola visitata da Washburne e citata da Ferrando è la Public School di Oundle, antica istituzione inglese, «descritta efficacemente anche da» Herbert G. «Wells»[10] e degna di menzione per aver introdotto «corsi manuali e pratici»[11] accanto a quelli tradizionali, così coniugando lavoro manuale e intellettuale.[12] La seconda è la «scuola media femminile di Streatham Hill, più audace nelle sue innovazioni», dove s’applica il Dalton Plan, definito uno «sviluppo del metodo Montessori».[13] E Washburne e Stearns sono chiari nel rimarcare l’influenza montessoriana su Helen Parkhurst e nel sottolineare l’esplicito richiamarsi della direttrice della scuola di Streatham Hill (Rosa Bassett) al metodo parkhurstiano.[14] Sulla scorta del testo originale, Ferrando registra, poi, un «grave difetto»: essendo «libere di seguire le lezioni pratiche e teoriche che desiderano», a patto di svolgere, entro la fine di ogni mese, il «programma […] loro assegnato», le giovani rimanderebbero proprio agli ultimissimi giorni del mese lo «svolgimento del loro compito», a detrimento della «serietà dei loro studi» e con conseguenze negative per i docenti, sommersi dal lavoro in certi periodi, quasi inattivi in altri.[15] Invero, gli autori di New Schools per un verso sembrano non imputare il difetto al Dalton Plan, ma alla sua applicazione nella scuola di Bassett,[16] per l’altro parlano di «weakness of the Dalton Plan», precisando «as carried out in London and in some schools in the United States» e specificando «as the Dalton Plan is gradually improved and modified it is reasonable to expect that this grave defect will eventually be done away with».[17] Il Dalton Plan viene, cioè, presentato quale modello perfettibile, la recensione sembra, però, attribuire il difetto al metodo in sé, ed è probabile che tale sia stata la lettura gramsciana. La terza scuola evocata da Ferrando è quella di Edward Frances O’Neill, nel villaggio di Kearsley, le cui peculiarità risiederebbero nell’abolizione del programma e finanche di ogni «metodo didattico». I risultati registrati sono detti «sorprendenti».[18] La quarta esperienza («esempio ancora più sbalorditivo di riforma dei sistemi scolastici») è quella delle scuole di Amburgo dirette da Johannes Gläser con chiare tensioni libertarie, centrate sui bisogni dei fanciulli (il loro slogan è Vom Kinde aus) e con un’impostazione talmente radicale da bandire qualsivoglia obbligo. Le cognizioni acquisite al termine del percorso scolastico di 8 anni non risulterebbero «organic[he] e complet[e] come quelle degli alunni delle altre scuole». Cionondimeno, sarebbero «più vari[e], più viv[e]». Nell’acquisirle, i discenti manifesterebbero «meglio la loro natura». Comunque, il recensore problematizza l’esperimento, definendolo, con Washburne e Stearns, la «reductio ad absurdum della libertà della scuola» e aggiungendo: «quanti credono nell’organizzazione non possono non ammettere che si è andati troppo oltre in questo disprezzo per le regole».[19] Ferrando si limita, infine, a nominare la «scuola progressista del Belgio» (di Ovide Decroly); la scuola di Roger Cousinet, che svilupperebbe «l’abitudine allo sforzo collettivo e alla collaborazione»;[20] la scuola di Glarisegg in Svizzera, le cui fonti di ispirazione sarebbero Cecil Reddie, John Haden Badley, Hermann Lietz[21] e in cui si insisterebbe sul «senso della libertà e responsabilità»;[22] la «scuola umanitaria in Olanda», sita nella municipalità di Laren, fondata nel 1904 da un’organizzazione religiosa e veicolatrice di valori sociali positivi;[23] le scuole cecoslovacche, una a Krnsko, che combina lo spontaneismo delle scuole di Amburgo o di quella di Kearsley con «gli obiettivi dell’istruzione formale come accade in scuole del tipo di quella di Bedales»,[24] e una, per fanciulli infermi, posta su una collina prospiciente Praga e gestita da František Bakule,[25] entrambe orientate a dare «massima importanza all’ambiente».[26] In conclusione, l’articolo foraggia un rinnovamento tale da far andare la scuola incontro ai «bisogni e agli interessi degli alunni», da stimolare la loro libertà, da collegare la «vita della scuola» con quella «esteriore».[27]

 

Il § 119 del Quaderno 9

Il § 119 del Q. 9 è un resoconto-commento dell’articolo del «Marzocco» e dando una scorsa al Fondo Gramsci si constatano decine di numeri del periodico — d’altronde Gramsci era solito leggerlo sin da quando risiedeva in Sardegna. Pur non essendo, nel Fondo, conservato il n. 37, dove si trova la recensione, non vi sono dubbi che Gramsci l’abbia consultato, tant’è che nel § 116 del Q. 9 (del settembre del 1932) fa riferimento a un’altra recensione, nel medesimo fascicolo, di una biografia di Carlo Felice scritta da Francesco Lemmi e nel § 120 del Q. 9, databile, anch’esso, al settembre del 1932, parla di un testo di Aldo Sorani apparso sempre nel n. 37. Per non dire che il nome di Ferrando compare in altri passaggi: in un paragrafo del secondo blocco miscellaneo del Q. 4 Gramsci cita un suo articolo nel «Marzocco» dell’aprile del 1932 (QM, pp. 845-846) e nel § 87 del Q. 9 segnala un suo resoconto, sempre nel «Marzocco», di The British Commonwealth Education Conference. Il § 119 del Q. 9 segue fedelmente lo scritto ferrandiano, omettendo di discutere la premessa, che non dovette apparire di particolare interesse. Quanto alla Public School di Oundle, dopo aver adoperato, per descriverla, quasi alla lettera le parole dell’anglista romano, Gramsci apre una parentesi tonda alla quale affida le sue considerazioni, giudicando meccanico l’accostamento di teoria e pratica ivi sperimentato e paventando il pericolo che esso risulti «uno snobismo»:

Si sente dire di grandi intellettuali che si divagano facendo i tornitori […]: non si dirà per questo che siano un esempio di unità del lavoro manuale e intellettuale. Molte di tali scuole moderne sono […] di stile snobistico che non ha niente a che vedere — altro che superficialmente — colla questione di creare un tipo di scuola che educhi le classi […] subordinate a un ruolo dirigente […] come complesso e non come singoli. (Q. 9, p. 1183)

Il commento è tranchant e i temi posti in campo complessi: come realizzare una reale unità di lavoro manuale e intellettuale a partire dalla formazione scolastica? Reale unità, però, che, se davvero posta in essere, implica il mutamento dell’ordine sociale. Cosa che non rientrerebbe nei piani delle scuole moderne, le quali, caso mai, contribuirebbero alla mobilità sociale dei singoli. Scuole che, perciò, non sarebbero politicamente e pedagogicamente progressive. Quanto alla scuola di Streatham Hill, Gramsci procede come per la Public School di Oundle e, senza virgolettare, riporta sostanzialmente alla lettera il resoconto di Ferrando, aprendo, poi, una parentesi in cui riversa le proprie impressioni. Qui, per la prima e unica volta nei Quaderni, usando, però, le virgolette, è nominato il «sistema Dalton», quel che «il Ferrando chiama “uno sviluppo del metodo Montessori”» (Q. 9, p. 1184). La decisione di virgolettare sembrerebbe la spia del fatto che il prigioniero non sia particolarmente informato sulle esperienze d’oltreoceano e forse neppure sulla pedagogia montessoriana, diversamente non avrebbe scelto di attribuire ad altri una constatazione tutto sommato scontata. In ogni modo, il suo giudizio è deciso: «Il sistema Dalton non è che l’estensione alle scuole medie del metodo di studio seguito nelle Università italiane, che all’alunno lasciano tutta la libertà per lo studio» (Q. 9, p. 1184). E non è futile ricordare che poco prima, agli inizi di agosto, Gramsci citi il sistema Dalton in una lettera alla moglie Giulia in URSS: «Pensi che il sistema […] Dalton possa produrre dei Leonardi, sia pure come sintesi collettiva?».[28] Trattasi d’una domanda retorica cui rispondere negativamente, e se certamente Gramsci aveva già sentito parlare del Dalton Plan, è la lettura dell’articolo ferrandiano che lo conduce a evocarlo in quell’epistola, presupponendone la conoscenza da parte della compagna, avendo esso avuto una certa diffusione durante la NEP.[29] Rispetto alla scuola di O’Neill, Gramsci riporta quanto scritto da Ferrando e di nuovo vanno esaminate le riflessioni tra parentesi, in cui si problematizza la generalizzabilità di quella esperienza — dove, ad esempio, reclutare insegnanti «sufficienti numericamente allo scopo»? — e si allude a potenziali «inconvenienti […] non […] riferiti» e al fatto che il modello di Kerseley «potrebbe», al limite, «essere una scuola di élites o un sistema di “doposcuola”, in sostituzione della vita familiare» (Q. 9, pp. 1183-1184). Quanto alle scuole di Amburgo, Gramsci segue il resoconto ferrandiano. In ultimo, nomina le altre scuole accennate nell’articolo sul «Marzocco» e, a chiusura del paragrafo, tra parentesi, scrive: «è utile seguire tutti questi tentativi che non sono altro che “eccezionali” forse più per vedere ciò che non occorre fare, che per altro» (Q. 9, p. 1185). Una stroncatura, che, rielaborandola, richiama vagamente un’affermazione di Ferrando a commento delle scuole di Amburgo: «se un educatore non può in complesso approvare quello che si fa, o meglio che non si fa, in questa scuola di Amburgo, pure questo esperimento lo porta a disapprovare molte cose che si fanno nelle scuole comuni». L’affermazione, per altro, ricalca un parere presente in New Schools.[30] Nel complesso, Gramsci avanza critiche interessanti, ma, lo si accennava, non sembra avere conoscenze approfondite dell’attivismo americano. Basti dire che il nome di John Dewey si ritrova una sola volta nei Quaderni, all’interno di una citazione. Non può, altresì, escludersi che conoscesse (anche solo superficialmente) altre esperienze attivistiche. Possedeva, infatti, L’école active di Adolphe Ferrière nell’edizione francese in due tomi del 1922. Solo il primo, tuttavia, presenta il timbro carcerario e il visto del direttore pro tempore Amaducci. Questi esercita tale funzione dal marzo del 1929 sino alla fine di maggio di quell’anno ed è in questo arco di tempo che entra in prigione il primo tomo del lavoro ferrièriano. Entrambi i tomi risultano, comunque, consultati, essendo le pagine aperte da un tagliacarte. Ebbene, in questa edizione viene citato e discusso O’Neill[31] (nel secondo tomo) così come Cousinet (in entrambi).[32] Si può, però, sostenere che Gramsci abbia riconosciuto i riferimenti ferrandiani alla scuola di Kearsley in quanto trattata da Ferrière? Se vanno segnalate come infondate le osservazioni di chi ha sostenuto che Gramsci abbia per sbaglio chiamato E.F. O’Neill il fondatore di Summerhill (Alexander S. Neill),[33] non possiamo dire se il nome di O’Neill fosse rimasto impresso nella sua memoria, né sapere se abbia consultato il primo tomo di L’école active per approfondire le questioni discusse nella recensione. Al proposito, bisogna ricordare le restrizioni previste dai regolamenti carcerari in ordine al possesso, in cella, di libri: i libri di Gramsci si trovavano in un magazzino ed egli poteva attingere dopo aver depositato i volumi in precedenza trattenuti in cella, che non dovevano oltrepassare un numero abbastanza esiguo. Un meccanismo farraginoso e stressante. Ciò detto, nelle Lettere e nei Quaderni, Ferrière non è nominato, né tantomeno Washburne, a eccezione del § 119 del Q. 9. Il pedagogista statunitense non è citato neppure nell’edizione del 1922 di L’école active, visto che l’esperimento delle scuole di Winnetka prende avvio nel 1919. Washburne viene menzionato solo in edizioni successive, stesso dicasi per Wells.

 

La ricezione del § 119 del Q. 9

È noto: sino al 1975 era possibile leggere i Quaderni per il tramite di 6 antologie tematiche curate da Felice Platone, supervisionate da Palmiro Togliatti e pubblicate tra il ’48 e il ’51 da Einaudi. Il § 119 del Q. 9 fu inserito nella seconda antologia data alle stampe (Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, 1949), che raccoglieva, ex multis, i testi del Q. 12 e quelli immediatamente percepiti e percepibili come pedagogici. Fu, in sostanza, grazie a una raccolta, che, se non somigliava propriamente a una monografia, tuttavia ridimensionava il carattere frammentario delle note carcerarie, che la pedagogia italiana s’accostò al § 119. Negli anni successivi, il fronte marxista pedagogico sarebbe stato impegnato in un dibattito con quello laico, liberalsocialista, deweyano, nel corso del quale più volte avrebbe fatto ricorso al § 119 del Q. 9.[34] Apparve, invero, presto chiaro come le considerazioni gramsciane sulle scuole nuove fossero da ritenere, al netto della loro eventuale condivisibilità, frutto d’una conoscenza non profonda, ciò, però, non condusse ad analisi filologicamente accurate. Così, recensendo un volume di Roberto Mazzetti su Giuseppe Lombardo Radice, Dina Bertoni Jovine scriveva: «dubbio è il giudizio che [...] Gramsci dà delle scuole attive nelle quali vede una stretta parentela col Montessorismo, per esempio di quelle che […] seguono il piano Dalton».[35] Ma non era Gramsci a scorgere la parentela, quanto Ferrando sulla scorta di Washburne e Stearns. La fase del più diretto confronto con i deweyani si chiude con gli anni Sessanta e l’ultima eco s’ebbe con gli interventi dei pedagogisti al convegno di studi gramsciani del 1967. Tra essi, va qui menzionato quello di Borghi, il quale, dopo avere rimarcato le conoscenze poco «estese», da parte di Gramsci, dell’attivismo — e aver attribuito ciò alla condizione di reclusione, che non avrebbe permesso al prigioniero di «attingere le necessarie informazioni di prima mano ricorrendo alle fonti principali di quella dottrina», ipotesi, questa, che tratta Gramsci da ricercatore universitario aduso a rintracciare le fonti per portare a termine un saggio e non da intellettuale militante, per quanto studioso rigoroso, che riflette sulla sconfitta della rivoluzione in Occidente e i modi della costruzione dell’egemonia —, a proposito del § 119 del Q. 9 osservava: «Gramsci manifesta un’apertura notevole verso questi esperimenti di scuole d’avanguardia, e mostra di interessarsi particolarmente alla scuola di O’Neill».[36] Al di là del fatto che l’aver dedicato qualche rigo in più alla scuola di Kearsley non implica che Gramsci ebbe un interesse particolare per essa, stupisce la constatazione relativa all’apertura. È, caso mai, un interesse interlocutorio e tendenzialmente critico quello che traspare dal § 119 del Q. 9. Né è del tutto vero, come segnalato da uno dei massimi studiosi di Gramsci nel campo pedagogico, che quando il Sardo «si trova a parlare di Washburne, di O’Neill, di Cousinet o del metodo Montessori, il suo pensiero finisce per ricorrere, in mancanza di dati e di notizie più precisi, […] allo “spontaneismo ginevrino”».[37] Più pertinente e filologica la lettura manacordiana, anche perché non solo il pedagogista romano poté consultare i manoscritti originali, ma ebbe l’accortezza di visionare la recensione del 1931 (stesso dicasi per Giovanni Urbani qualche anno prima).[38] Mario Alighiero Manacorda ammette che le osservazioni sul Piano Dalton possano «apparire più o meno pertinent[i]» e riconosce come le critiche gramsciane non concernano tanto o solamente il puerocentrismo spontaneistico, ma anche, se non soprattutto, il mero accostamento di lavoro intellettuale e manuale. È il problema della «scuola del lavoro»,[39] in effetti, quello che più emerge dal § 119 del Q. 9. Pur chiusa la stagione del confronto con l’attivismo, il § 119 del Q. 9 non ha smesso di costituire una bussola per pensare il presente. Sicché, in alcune pagine pedagogiche degli anni Settanta troviamo appaiate, fatte le dovute differenze, «le pedagogie non direttive, l’anti-autoritarismo, i […] tentativi di contro-scuola e di scuole alternative» sorti dopo il 1968 e le scuole nuove di cui parla Gramsci.[40] Scema, negli anni Ottanta, l’interesse per l’autore dei Quaderni, in concomitanza della vittoria del paradigma delle scienze dell’educazione, della de-politicizzazione dei discorsi sull’educazione, dell’indebolimento (non in ultimo accademico) del fronte marxista. Non vengono, tuttavia, meno letture poco approfondite che non è qui il caso di rammentare. Preme, in conclusione, accennare ad alcune acute considerazioni di Dario Ragazzini della seconda metà degli anni ’70, il quale spiegava la tutto-sommato-sommaria contezza gramsciana dell’«attivismo pedagogico» e del «pragmatismo» con «la loro assenza dal campo culturale e dalla pratica educativa» del nostro Paese. Il «confronto» con queste correnti sarebbe stato «estraneo ai […] propositi» di Gramsci, consistenti nella traduzione in Italia del leninismo, «senza che questo […] significasse assumere una posizione angustamente nazionale, ma […] concentrando l’attenzione sull’Italia con una visione generale dei processi europei e mondiali». L’interesse dei pedagogisti per i rapporti tra Gramsci e l’attivismo sarebbe stato, insomma, più «basato su motivazioni» della comunità dei ricercatori «che non su ragioni intrinseche al lavoro» del Sardo?[41] Il ragionamento coglie il contrassegno pratico-politico della ricerca del carcere, ciò detto, chi scrive è propenso a ritenere che il mancato approfondimento dei temi attivistici e l’abbandono delle Quistioni scolastiche sia da inquadrare entro un percorso di scrittura contraddistinto da battute d’arresto, accelerazioni, ripensamenti, e da comprendere tenendo conto del principio della traducibilità reciproca. La teoria della traducibilità dei linguaggi elaborata in carcere è, cioè, uno strumento eccezionale per cogliere l’isomorfismo tra critica dello spontaneismo pedagogico e critica dello spontaneismo politico.[42] Critiche che sboccano nello studio dell’egemonia come rapporto pedagogico.

 

Bibliografia

Baldacci M. (2017), Oltre la subalternità. Praxis e educazione in Gramsci, Roma, Carocci.

Bertoni Jovine D. (1958), G. Lombardo Radice e Maria Montessori, «Riforma della Scuola», n. 11.

Broccoli A. (1972), Antonio Gramsci e l’educazione come egemonia, Firenze, La Nuova Italia.

Covato C. (1976), Il marxismo e la pedagogia, «I Problemi della Pedagogia», n. 2-3.

Ferrando G. (1931), Nuove scuole nel vecchio mondo, «Il Marzocco», n. 37.

Ferrière A. (1922), L’école active, 2 voll., Genève-Paris, Forum.

Francioni G. (1984), L’officina gramsciana. Ipotesi sulla struttura dei «Quaderni del carcere», Napoli, Bibliopoli.

Francioni G. (2016), Un labirinto di carta. (Introduzione alla filologia gramsciana), «International Gramsci Journal», vol. 2, n. 1, pp. 1-6.

Francioni G. (2017), L’eredità di Gramsci tra filosofia, filologia e politica, intervista a cura di F. Frosini, «Filosofia Italiana», n. 2.

Frosini F. (2000), Il divenire del pensiero nei «Quaderni del carcere» di Antonio Gramsci. Appunti per una rilettura, «Critica Marxista», n. 3-4.

Gramsci A. (1967), La formazione dell’uomo. Scritti di pedagogia, a cura di G. Urbani, Roma, Editori Riuniti.

Gramsci A. (1975), Quaderni del carcere, Torino, Einaudi.

Gramsci A. (1996), Lettere dal carcere 1926-1937, Palermo, Sellerio.

Gramsci A. (2009), Quaderni del carcere. Edizione anastatica dei manoscritti, vol. 1 e 6, Cagliari, Biblioteca Treccani-Unione Sarda.

Gramsci A. (2017), Quaderni del carcere 2. Quaderni miscellanei (1929-1935), Edizione Nazionale degli Scritti di Antonio Gramsci, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana.

Manacorda M.A. (1962), Dogmatismo dinamico nel pensiero di Gramsci, «Riforma della Scuola», n. 4.

Manacorda M.A. (1970), Il principio educativo in Gramsci. Americanismo e conformismo, Armando, Roma.

Moss H.K. (1990), Gramsci and the Idea of Human Nature, «Italian Quarterly», n. 119-120, pp. 7-19.

Rossi P. (a cura di) (1969), Gramsci e la cultura contemporanea, Roma, Editori Riuniti.

Ragazzini D. (1976), Società industriale e formazione umana nel pensiero di Gramsci, Roma, Editori Riuniti.

Washburne C. e Stearns M.M. (1926), New Schools in the Old World, New York, The John Day Company.

[1] G. Francioni (1984), L’officina gramsciana. Ipotesi sulla struttura dei «Quaderni del carcere», Napoli, Bibliopolis, p. 150.

[2] F. Frosini (2000), Il divenire del pensiero nei «Quaderni del carcere» di Antonio Gramsci. Appunti per una rilettura, «Critica Marxista», n. 3-4, p. 108.

[3] Cfr. la Nota introduttiva al Quaderno 9, in A. Gramsci (2009), Quaderni del carcere. Edizione anastatica dei manoscritti, vol. 6, Cagliari, Biblioteca Treccani-Unione Sarda, pp. 4-5.

[4] G. Francioni, Come lavorava Gramsci, in A. Gramsci, Quaderni del carcere. Edizione anastatica dei manoscritti, vol. 1, op. cit., p. 46.

[5] Cfr. G. Francioni (2017), L’eredità di Gramsci tra filosofia, filologia e politica, intervista a cura di F. Frosini, «Filosofia Italiana», n. 2, p. 187; si veda pure: G. Francioni (2016), Un labirinto di carta. (Introduzione alla filologia gramsciana), «International Gramsci Journal», n. 1, p. 23.

[6] G. Francioni, L’officina gramsciana, op. cit., pp. 78-79.

[7] G. Francioni, L’officina gramsciana, op. cit., p. 85.

[8] G. Ferrando (1931), Nuove scuole nel vecchio mondo, «Il Marzocco», n. 37, p. 2. Simili considerazioni si trovano pure in C. Washburne, M.M. Stearns (1926), New Schools in the Old World, New York, The John Day Company, p. XI.

[9] G. Ferrando, Nuove scuole nel vecchio mondo, op. cit. p. 2.

[10] Ibidem. Il riferimento, tratto da Washburne e Sterns, è a The Story of a Great Schoolmaster: Being a Plain Account of the Life and Ideas of Sanderson of Oundle (1924).

[11] G. Ferrando, Nuove scuole nel vecchio mondo, op. cit., p. 2.

[12] Cfr. C. Washburne, M.M. Stearns, New Schools, op. cit., p. 13.

[13] G. Ferrando, Nuove scuole nel vecchio mondo, op. cit., p. 2.

[14] Cfr. C. Washburne, M.M. Stearns, New Schools, op. cit., pp. 14-16.

[15] G. Ferrando, Nuove scuole nel vecchio mondo, op. cit., p. 2.

[16] Cfr. C. Washburne, M.M. Stearns, New Schools, op. cit., p. 21.

[17] C. Washburne, M.M. Stearns, New Schools, op. cit., pp. 22-23.

[18] G. Ferrando, Nuove scuole nel vecchio mondo, op. cit., p. 2.

[19] Ibidem. Cfr. C. Washburne, M.M. Stearns, New Schools, op. cit., pp. 124-125.

[20] G. Ferrando, Nuove scuole nel vecchio mondo, op. cit., p. 2.

[21] Cfr. C. Washburne, M.M. Stearns, New Schools, op. cit., p. 102.

[22] G. Ferrando, Nuove scuole nel vecchio mondo, op. cit., p. 2.

[23] Cfr. C. Washburne, M.M. Stearns, New Schools, op. cit., pp. 84-85.

[24] C. Washburne, M.M. Stearns, New Schools, op. cit., p. 148 (trad. mia).

[25] Cfr. C. Washburne, M.M. Stearns, New Schools, op. cit., pp. 149-170.

[26] G. Ferrando, Nuove scuole nel vecchio mondo, op. cit., p. 2.

[27] Ibidem.

[28] a Iulca, 1 agosto 1932, in A. Gramsci (1996), Lettere dal carcere 1926-1937, Palermo, Sellerio, p. 601.

[29] La NEP (Nuova Politica Economica) è quel sistema economico misto (economia privata in specie nel settore agricolo ed economia statale in quello industriale) lanciato da Lenin nel 1921 e abbandonato nel 1929. Sotto il profilo pedagogico, questa fase si contraddistingue per l’accoglimento di motivi attivistici, per la tensione alla realizzazione di una scuola unica del lavoro (già databile all’indomani dell’Ottobre) e, in generale, per la presenza d’una serie di sperimentazioni.

[30] Cfr. G. Ferrando, Nuove scuole nel vecchio mondo, op. cit., p. 2; C. Washburne, M.M. Stearns, New Schools, op. cit., p. 125.

[31] Cfr. A. Ferrière (1922), L’école active, vol. 2, Genève-Paris, Forum, pp. 381-384.

[32] A. Ferrière (1922), L’école active, op. cit., p. 76, p. 313, p. 378.

[33] Cfr. H.K. Moss (1990), Gramsci and the Idea of Human Nature, «Italian Quarterly», n. 119-120, pp. 7-19.

[34]Ex multis, cfr. M.A. Manacorda (1962), Dogmatismo dinamico nel pensiero di Gramsci, «Riforma della Scuola», n. 4, p. 5.

[35] D. Bertoni Jovine (1958), G. Lombardo Radice e Maria Montessori, «Riforma della Scuola», n. 11, p. 20.

[36] L. Borghi (1969), Educazione e scuola in Gramsci, in P. Rossi (a cura di), Gramsci e la cultura contemporanea, Roma, Editori Riuniti, vol. 1, pp. 226-227.

[37] A. Broccoli (1972), Antonio Gramsci e l’educazione come egemonia, Firenze, La Nuova Italia, p. 173.

[38] Cfr. A. Gramsci (1967), La formazione dell’uomo. Scritti di pedagogia, a cura di G. Urbani, Roma, Editori Riuniti, nt. 48, p. 455.

[39] M.A. Manacorda (1970), Il principio educativo in Gramsci. Americanismo e conformismo, Roma, Armando Editore,

  1. 256-260.

[40] Cfr. C. Covato (1976), Il marxismo e la pedagogia, «I Problemi della Pedagogia», n. 2-3.

[41] D. Ragazzini (1976), Società industriale e formazione umana nel pensiero di Gramsci, Roma, Editori Riuniti, pp. 207-208.

[42] Sulla «traduzione tra politica e pedagoga suggerita dal pensatore sardo» cfr. M. Baldacci (2017), Oltre la subalternità. Praxis e educazione in Gramsci, Roma, Carocci, p. 169.




Autore per la corrispondenza

Pietro Maltese
Indirizzo e-mail: pietro.maltese@unipa.it
Dipartimento di Scienze Umanistiche, Università degli Studi di Palermo Viale delle Scienze, Edificio 12, 90128 Palermo


© 2017 Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A.
ISSN 2421-2946. Pedagogia PIU' didattica.
Tutti i diritti riservati. Vietata la riproduzione con qualsiasi mezzo effettuata, se non previa autorizzazione dell'Editore.

Indietro