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Filosofia dell’educazione / Philosophy of education

L’educazione tra ideologia e fraternità


Luca Odini

Assegnista di Ricerca – Università degli Studi di Verona



Sommario

Il contributo, dopo una breve riflessione e chiarificazione sul significato del termine ideologia, si propone di evidenziare come l’idea di educazione e di scuola che abbiamo sia stata a mano a mano influenzata da un’impostazione di stampo neoliberista. A partire da un’analisi storica sulla costruzione di questo impianto ideologico, si vogliono rileggere alcuni passaggi dell’esperienza educativa contemporanea alla luce di un paradigma alternativo che sia in grado di restituire dignità all’impostazione di un pensiero pedagogico che ponga come temi e riferimento imprescindibili la democrazia, l’uguaglianza e la solidarietà.

Parole chiave

Neoliberismo, Educazione, Fraternità.


Abstract

The contribution, after a brief reflection and clarification on the meaning of the term ideology, aims to highlight how the idea of education and school we have has been gradually influenced by a clear neoliberal approach. Starting from a historical analysis on the construction of this ideological system, we want to reread some passages of the contemporary educational experience in the light of an alternative paradigm that is able to give back full dignity to the setting of a pedagogical thought that considers as themes and indispensable reference democracy, equality and solidarity.

Keywords

Neoliberism, Education, Fraternity.


Il presente contributo, partendo da alcune chiarificazioni di carattere terminologico e passando attraverso un percorso storico critico, intende mostrare come l’idea di educazione e di scuola che abbiamo risenta di una chiara impostazione ideologica costruita nel corso del tempo.

Sosterremo come solo partendo da questa presa di coscienza sia possibile rileggere l’esperienza reale ed essere in grado di proporre un paradigma alternativo per l’agire educativo, capace di individuare un orizzonte di senso diverso, frutto di un’impostazione del pensiero evidentemente schierato.

Il nostro punto di vista è sicuramente influenzato da una prospettiva che intende porre come temi e punti di riferimento imprescindibili quelli della cittadinanza, della democrazia, dell’uguaglianza e della solidarietà, come parole d’ordine nella costruzione di un pensiero in grado di collocare l’educazione e le sue prospettive nell’orizzonte contemporaneo. Non ci sfuggono complessità religiose, filosofiche e sociali, ma la nostra impostazione vuole essere critica fino in fondo, per sfuggire da principi dogmatici e conservare un libero esame del reale.

Nella prima parte di questo contributo vogliamo sottolineare come il panorama storico, sociale e educativo in cui ci troviamo immersi non sia semplicemente frutto del caso o del succedersi di eventi che rispondono a presunte leggi economiche o di natura, ma derivi invece da scelte ideologiche ponderate che hanno prodotto evidenti risultati che intendiamo criticare.

Nella seconda parte vogliamo riproporre alcuni argomenti che sono sempre stati presenti nell’esperienza umana e nella storia delle idee, ma che oggi vengono reiteratamente sacrificati a favore di ideologie di carattere totalmente diverso.

La domanda sottesa a questa analisi è: quale tipo di educazione e quale prospettiva immaginiamo per la scuola del futuro? A quali sfide sociali deve rispondere quest’idea di educazione?

Affrontiamo dunque il primo aspetto: l’analisi. Da più parti si definisce il secolo nel quale viviamo come post-ideologico e la caratteristica che pare contraddistinguerlo è data dal crollo delle ideologie che avevano caratterizzato il secolo scorso; si parla di fine della storia o di fine delle grandi narrazioni della storia, ma è davvero così?

I primi lavori che hanno sostenuto un argomento di questo tipo sono stati quello di Lyotard (1981) e Fukuyama (1992), che esprimono a più riprese come il post-moderno debba essere ricondotto a quel momento storico in cui le grandi ideologie del Novecento perdono la loro funzione di orientare e interpretare il mondo e il reale. Secondo queste letture, dopo il crollo del muro di Berlino si è aperta una nuova era in cui non trovano più spazio ideologie contrapposte o utopie di tipo egualitario o socialiste. Una pennellata realistica di quanto si stesse costruendo questo clima viene dalla famosa affermazione di Margareth Thatcher, che in più interviste del 1982 afferma: “There is no such thing as society”. La società non esiste, esistono i singoli individui.

Assecondando questo comune modo di pensare si è aperto lo spazio per una società diversa, in cui archiviate le ideologie novecentesche, si veniva inaugurando una nuova era. Un’era, quella in cui stiamo vivendo, in cui si vive un tempo di adeguamento massificato a una non scelta vera e propria, raccontata come l’unico mondo possibile: quello di un paradigma capitalistico che non ha bisogno nemmeno di giustificarsi perché appare come onnicomprensivo e onnipervasivo. Appare dunque una fase nuova di questa avventura, che poco ha a che fare con quanto il passato ideologico ci racconta.

A questo punto è necessario chiarire che cosa si intenda con il termine ideologia e come si possa declinare nel contesto che abbiamo indicato. Bauman (2014), in un suo approfondito lavoro, ripercorre la parabola dell’ideologia e, dopo un excursus storico sul termine stesso in cui mostra come in passato avesse assunto significati ambivalenti, inizia a evidenziare come più ci si inoltri nel Novecento, più il termine incominci ad assumere una valenza positiva e quasi imprescindibile per una lettura del reale: «Il nome di ideologia è stato assegnato alle cornici cognitive che permettono ai vari frammenti di esperienza umana di sistemarsi ordinatamente e di formare un modello riconoscibile e dotato di senso. Le cornici sono condizioni di conoscenza, ma in quanto tali non sono parti di essa […] bloccano il flusso altrimenti inarrestabile delle sensazioni, trattenendo soltanto quelle conformi al modello formato e lasciando scorrere via le altre» (Bauman, 2014, pp. 121-122).

La sua analisi prosegue avvertendo come «qualunque cosa sia stata l'ideologia, è stata anche una dichiarazione di intenti da parte dei suoi predicatori: un impegno preso con la società, l'espressione della disponibilità a prenderla su di sé o a condividerla. […] Tutte le ideologie sono nate dalla non-accettazione dello status quo, e soprattutto dalla sfiducia nella capacità della realtà di emendare. Tutte le ideologie sono nate come progetti da attuare mediante una collaborazione attiva» (Bauman, 2014, p. 128).

Nell’indagine di Bauman si inserisce anche un’interessante analisi sul ruolo dell’intellettuale, che in un contesto come quello indicato appare quasi del tutto marginale, perché si arrende, in modo più o meno consapevole, a prendere atto di una specifica contingenza o di una cornice particolare e dominante, arrivando a negare la storia stessa del mondo. Se la cornice è diventata infatti una parte naturale delle cose, anzi, viene confusa con le cose stesse, e se le leggi della natura o un appiattimento della vita e della storia arrivano a essere comprese e assimilate come condizione esistenziale dell’uomo stesso, ecco come allora la figura stessa dell’intellettuale perde di significato e di importanza, perché smarrisce il suo ruolo e il suo senso nell’omologazione imperante.

Bauman nota a ragione come «l'ascendente esercitato dall'ideologia al culmine della mo­dernità è stato, notoriamente, un bene ambiguo. Ma lo stesso vale per la sua fine. […] Dobbiamo ancora renderci conto dei co­sti che comporta vivere senza alternative, senza guide e para­metri, “lasciando che le cose vadano come devono andare” e dichiarando che le conseguenze sono tanto inevitabili quanto impreviste» (Bauman, 2014, p. 134).

Assodato quindi che è decisamene fuori luogo parlare oggi di fine delle ideologie o di società post-ideologica, cerchiamo di comprendere se il presente in cui ci troviamo a vivere sia il frutto del caso e di particolari contingenze storiche, o se non si tratti invece di un disegno preordinato.

Questo ribaltamento del concetto e del paradigma della natura e delle cose come di uno stato dato una volta per sempre, senza nessuna possibilità di modificazione perché appunto naturale è, come ci dice Bauman, citando Bordieu, esattamente come descrivevamo: «L'apoteosi neoliberale del mercato confonde les choses de la logique avec la logique des choses, mentre le grandi ideologie della modernità, con tutte le loro controversie, concordavano su un punto: la logica delle cose così come sono sconfigge e contraddice ciò che detta la logica della ragione. L'ideologia contrapponeva la logica alla natura; il discorso neoliberale priva la ragione di potere naturalizzandola» (Bauman, 2014, p. 131).

Proseguendo nell’analisi storica possiamo renderci conto di come negli ultimi cento anni il paradigma neoliberale si sia imposto in un modo così potente e onnipervasivo che, nonostante la crisi del 2008 abbia parzialmente incrinato la cieca fiducia in questi ideali, anche i suoi critici più ferventi oggi faticano a immaginare alternative percorribili.

Basta qualche rudimentale nozione di storia o di storia delle idee e dell’economia per scoprire come, agli inizi del Novecento, il neoliberismo non fosse assolutamente immaginato come il naturale punto di arrivo dell’accumulazione capitalistica, ma si sia trattato di un vero e proprio programma politico costruito pezzo per pezzo. Come accennavamo, gli studi che abbiamo a disposizione mostrano come un centinaio d’anni fa i pensatori neoliberisti rappresentassero un’esigua minoranza e fossero ai margini di quello che potrebbe essere definito come il pensiero dominante dell’epoca (Peck, 2010, p. 40). Che cosa ha reso possibile la costruzione di questa ideologia neoliberale, quali sono stati gli ingredienti che hanno contribuito a questa ribalta?

Diversi studi (Mirowsky e Plehwe, 2009; Mirowsky, 2013; Stedman Jones, 2012) mostrano come il pensiero neoliberale sia riuscito a trasformare in profondità il tessuto sociale, ideologico e materiale della società, attraverso una plasticità di dottrina che ha fatto immaginare che alla fin fine il termine neoliberismo stesso non abbia alcun senso, viste le sfaccettature e le differenze con cui viene declinato nei vari Paesi e nelle varie condizioni storiche in cui si trova inserito: «Tanta versatilità ha reso il neoliberismo un progetto alle volte contraddittorio, ma gli ha anche permesso di avere successo proprio perché queste contraddizioni sono state trasformate in tensioni produttive» (Srnicek e Williams, 2018, p. 81).

Al netto di tutte le indagini di questo tipo di cui la letteratura è estremamente ricca, a noi interessa notare in primo luogo come questo processo e questa ascesa a paradigma unico del mondo siano stati costruiti e mantenuti e, in secondo luogo, quali effetti questa ideologia porti nella nostra vita quotidiana, in particolare nel campo che ci è proprio, quello dell’educazione.

Per quanto riguarda il primo aspetto, ovvero la costruzione scientifica del paradigma neoliberale, ci potrebbe bastare ricordare come cellule di resistenza del pensiero neoliberale, che pareva perdere colpi sotto l’emergere di un pensiero marcatamente collettivista prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, vennero costruite con la nascita del Centre International d’Études pour la Rénovation du Libéralisme, con lo scopo esplicito di far sopravvivere l’esperienza liberale facendo nascere una nuova forma di liberalismo, i cui protagonisti furono, oltre a diversi esponenti teorici del liberalismo classico e ordoliberisti tedeschi, i liberali della London School of Economics e F. Hayek e L. von Mises. Lo scoppio della guerra frenò lo sviluppo dell’organizzazione ma non la fermò, tanto che sotto la spinta e l’intuizione di Hayek stesso si formò un vero e proprio collettivo di pensiero neoliberale che inaugurò la sua ascesa egemonica (Peck, 2010, pp. 22-23) nella costituzione della Mont Pelerin Society, che grazie a ingenti finanziamenti riuscì a dare fiato alle idee e ai pensieri del gruppo di Hayek e costituì l’architrave portante della costruzione del pensiero neoliberale (Peck, 2010, p. 48).

Una concezione ideologica coerente ma flessibile è riuscita, passo dopo passo, a costruire consenso attraverso la creazione di gruppi di intellettuali organici e a raggiungere il senso comune di cui siamo tutt’oggi impregnati, che rimanda alla citazione ancora una volta thatcheriana, There Is No Alternative. Il neoliberismo è diventato, come racconta in maniera paradigmatica Harvey (Harvey, 2005), la vera e originale forma della nostra esistenza ed è arrivato a influenzare in profondità il modo con cui siamo portati a relazionarci con noi stessi e con gli altri, assumendo una visione del mondo vera e propria, come il mondo così com’è. Polanyi scrive a giusta ragione: «Permettere al meccanismo di mercato di essere l’unico elemento direttivo del destino degli esseri umani e del loro ambiente naturale e perfino della quantità e dell’impiego del potere d’acquisto porterebbe alla demolizione della società [...] nel disporre della forza lavoro di un uomo, il sistema disporrebbe dell’entità fisica, psicologica e morale “uomo” che si collega a questa etichetta» (Polanyi, 1974, pp. 94-95).

Questo meccanismo non riguarda solamente l’umano, ma viene a intaccare anche l’ambiente naturale stesso, che viene a essere utilizzato e sfruttato a piacimento attraverso una logica di dominio e di possesso; velocità e precarietà sono due parole d’ordine che non riguardano più solo l’aspetto contrattualistico che ha a che fare con l’umano. La preferenza di rapporti contrattuali a breve durata e l’idea che si debba ricavare quanto più possibile nel più breve lasso di tempo possibile, unita all’incertezza che caratterizza le forme del presente, conducono a queste storture anche sul piano dell’utilizzo dell’ambiente con il suo conseguente degrado.

Non possiamo non leggere questi aspetti se non come un conseguente degrado della fabbrica del soggetto neoliberista, come recita un capitolo di un approfondito studio (Dardot e Laval, 2013, p. 414), del quale cercheremo di delineare alcune caratteristiche, per comprendere ed evidenziare come questi aspetti calzino perfettamente al contesto scolastico e educativo che stiamo costruendo giorno dopo giorno, abbandonando aspetti che riteniamo invece fondamentali non solo per rendere l’umano sempre più umano, ma anche per rendere ragione dell’utilità e dell’esistenza stessa del sapere pedagogico.

Le descrizioni che sembrano caratterizzare l’uomo contemporaneo lo rappresentano come flessibile, precario, incerto, sradicato. D’altronde, Lacan (1974, p. 116) insegna che il soggetto della psicanalisi non è una costante eterna, ma subisce l’effetto delle trasformazioni della storia e della società. Dardot e Laval scrivono: «Il nuovo soggetto, se di nuovo soggetto si tratta, deve essere colto nelle pratiche discorsive e istituzionali che alla fine del XX secolo hanno prodotto la figura dell’uomo-impresa, o “soggetto imprenditoriale”, favorendo l’imposizione di una fitta trama di sanzioni, incentivi e coinvolgimenti che generano comportamenti psichici di un tipo nuovo. Portare a compimento l’obiettivo di riorganizzare da cima a fondo la società, le imprese e le istituzioni tramite la moltiplicazione e l’intensificazione dei meccanismi, delle relazioni e dei comportamenti di mercato, tutto questo non può non implicare una trasformazione dei soggetti. […] L’uomo del neoliberismo è competitivo, completamente immerso nella competizione mondiale» (Dardot e Laval, 2013, p. 415).

Va ampiamente sottolineato come con il termine “impresa”, in questo caso, non si possa più indicare o immaginare il luogo privilegiato di maturazione dell’individuo in cui si coniugano perfettamente il desiderio di autorealizzazione, il benessere materiale e il successo economico e commerciale dato alla comunità di lavoro. «Le nuove tecniche dell’“impresa di se stessi” arrivano senza dubbio al colmo dell’alienazione pretendendo di sopprimere il sentimento dell’alienazione. […] In altri termini, la razionalità neoliberista produce il soggetto di cui ha bisogno servendosi dei mezzi per governarlo affinché si comporti davvero come un’entità in competizione che deve massimizzare i risultati esponendosi ai rischi da affrontare e assumendosi la totale responsabilità di eventuali fallimenti. […] L’impresa non è dunque soltanto un modello da imitare, ma anche una certa attitudine da stimolare nel bambino e nello studente, un’energia potenziale da sollecitare nel lavoratore. […] Stabilendo una corrispondenza strettissima tra il governo di sé e il governo della società, l’impresa definisce una nuova etica, ovvero una certa disposizione interiore, un certo ethos da incarnare per una sorveglianza di sé che le procedure di valutazione devono rafforzare e verificare» (Dardot e Laval, 2013, p. 415). La Thatcher fu esplicita nell’indicare, in un’intervista al “Sunday Times” del 7 maggio del 1988, questa razionalità: «Economics are the method. The object is to change the soul».

Tutti gli argomenti che abbiamo citato in precedenza sono figli di quella che, a buona ragione ormai, possiamo definire ideologia neoliberista e che ha influenzato in buona parte, inevitabilmente, il campo dell’educazione. Basti pensare come nell’ultimo quarto di secolo la scuola abbia subito diversi tentativi di riforma, tutti in qualche modo figli di questo orizzonte ideologico. A titolo paradigmatico possiamo ricordare un famoso slogan per sottolineare come in realtà non ci siamo mai discostati da questo modello: la scuola delle tre “I”, Impresa, Internet e Inglese, che indicava una linea di orizzonte precisa che ora siamo ben in grado di decifrare.

Una scuola funzionale al sistema economico che ha come obiettivo principale quello della formazione dei produttori utilizzando in tutto il lessico vero e proprio del “capitale” e dell’ideologia, che placida ma implacabile erode una comunità di insegnanti che pare tutt’ora ergersi come baluardo di una scuola vista come comunità educativa, volta a trasmettere una cultura e una conoscenza funzionale alla crescita democratica e civile dei cittadini. Le tappe di questo percorso storico sono già state evidenziate da molti studiosi che hanno egregiamente evidenziato come questo approccio abbia influenzato trasversalmente diversi e opposti schieramenti politici e idee di scuola suscitando parecchie voci contrastanti sia da chi la scuola la pratica quotidianamente, sia da autorevoli voci del mondo accademico che condividiamo (Baldacci e Frabboni, 2009; Baldacci, 2014).

Pensiamo anche solo al fatto che dal giugno del 2018 gli insegnanti di scuola primaria e secondaria di primo grado sono chiamati a valutare le competenze delle allieve e degli allievi sui nuovi modelli ministeriali, che considereranno otto competenze europee tra cui spicca quella denominata “spirito di iniziativa e imprenditorialità”, entrepreneurship, che invita gli insegnanti a valutare (e quindi si immagina a formare) i giovani alla capacità di realizzare progetti, essere proattivi, assumersi rischi e accollarsi le proprie responsabilità (d’impresa) fin da piccoli. Inutile rilevare come tutti questi aspetti siano da ricondurre a quel falso spirito di autoimprenditorialità a cui abbiamo accennato prima.

Giunti a questo punto pensiamo che si tratti di comprendere se riteniamo davvero che quest’idea di scuola possa rendere ragione della complessità e della ricchezza del sapere pedagogico di cui siamo custodi. A noi pare ovviamente che la risposta non possa che essere negativa e ci sentiamo di abbozzare un paradigma diverso.

Prendendo in considerazione il motto rivoluzionario settecentesco “libertà, uguaglianza e fraternità”, sicuramente si è scritto, studiato e discusso molto sul tema dell’uguaglianza, ancor di più si potrebbe dire sul tema della libertà, che viene usata molto spesso per il suo verso più ambivalente (pensiamo al “libera volpe in libero pollaio”), quasi nessuna parola si è spesa invece sul tema della fraternità, lasciando probabilmente più spazio negli studi e nella discussione pubblica al tema della solidarietà.

Nel 1948 l’Onu promulgò la Dichiarazione universale dei diritti umani che all’articolo primo recita: «Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e in diritti. Sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in uno spirito di fraternità». Quanto sono diversi gli spiriti e gli auspici che aleggiano in questi giorni e quanto difficile sembra ricostruire un quadro di significato che possa fungere da cornice diversa nel contesto di un mondo talmente frastagliato che vive tante e tali contraddizioni.

Ci sentiamo però di abbozzare un percorso e un sentiero che conducono esattamente a questo tema, quello della fraternità, passando dalla radice stessa di un termine che oggi in tutti i modi ci viene proposto. Abbozzeremo quindi un percorso che arriva a porre il tema della fraternità partendo dalla radice di un termine che, come abbiamo visto nel nostro quotidiano, è presente ovunque: questo termine è la parola “economia”. Essa è entrata come un mantra in tutte le pieghe più nascoste della nostra vita e anche nel lessico più innocente, che dovrebbe preservare attenzioni diverse, si sono insinuati termini che riguardano o hanno a che fare con questa parola. Si tratta dunque, in maniera provocatoria, di proporre un paradigma che non modifichi la radice del termine “economia”, ma che mostri quanto in comune abbia con un altro termine, per condurre al tema della fraternità, rovesciando completamente il paradigma.

Torniamo alle nostre radici, il termine “economia” è composto da due parole che derivano dal greco, οἶκος (oikos), la casa, e νόμος (nomos), la legge, la regola; il termine che proponiamo di utilizzare per marcare il nostro sentiero è quello di una casa con radici un po’ diverse, quello dell’ecologia, un discorso, un pensiero, λόγος, logos appunto, sulla nostra casa comune, ma non solo, potremmo dire sulla nostra comune natura.

Quello che ci preme sottolineare è come quest’approccio non solo riesca a tenere insieme aspetti che, presi o impostati su altri versanti, prestano il fianco a essere assunti con accenti confessionali o di parte, ma anche come si tratti di riscoprire una radice di comunanza ontologica vera e propria che possa fondare l’esigenza della fraternità, passando attraverso la nostra casa comune.

Questo perché pare sempre più urgente, anche in campo educativo, proporre delle prospettive di pensiero fondate per essere in grado di cogliere le problematicità del mondo dell’educazione e dell’umano che ci appaiono oggi quasi del tutto inedite, se non altro per la manifestazione e la contingenza storica da cui sono portate.

I due aspetti più evidenti di queste manifestazioni, che non cessano di interrogare in maniera sempre più pressante anche il pensiero pedagogico e che possono essere ricollegati tutti nell’ottica che cerchiamo di prospettare, riguardano due temi che sono abbondantemente presenti nella problematica e nel dibattito attuale, ma che attendono una sistematizzazione teorica che potrebbe trovare posto in questo paradigma.

Ci riferiamo senza dubbio all’avvento e alla crescita della tecnica che ha drasticamente modificato il nostro rapporto con il mondo e con gli altri. Il tema è che ci troviamo in un crocevia storico che pare proprio proporre in maniera drammatica tutti questi aspetti e che attende a gran voce delle risposte. Ritorna prepotentemente il monito di Heidegger: «Ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si trasformi in un completo dominio della tecnica. Di gran lunga più inquietante è che l’uomo non è affatto preparato a questo radicale mutamento del mondo. Di gran lunga più inquietante è che non siamo ancora capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditante, un confronto adeguato con ciò che sta realmente emergendo dalla nostra epoca» (Heidegger, 1983, p. 36).

L’avvento della tecnica ha drasticamente rivoluzionato non solo il nostro rapporto tra simili, ma anche il nostro rapporto con la natura, con la nostra casa mondo, rendendoci da una parte tutti più consapevoli e interconnessi e, dall’altra, cellule sempre più avulse dalla nostra casa comune.

Le potenzialità sono immense ma le problematicità di questi strumenti sono altrettanto infinite e potenzialmente distruttive e regressive se non adeguatamente governate.

In questo contesto è possibile tentare la ricostruzione di quella cornice di fraternità che accennavamo in precedenza? Come è possibile individuare un paradigma che possa tenere insieme questi aspetti e tentare di dare risposte al momento storico che stiamo vivendo? Mi pare che si possa accennare in questa sede al percorso di un filosofo norvegese, Næss, che potrebbe fornirci spunti adeguati nella costruzione di questo paradigma alternativo.

Prenderemo spunto in modo particolare da un concetto che l’autore analizza e ci consente di tratteggiare qualche pennellata sul suo sistema di pensiero evidenziando come il paradigma che abbiamo sottolineato in precedenza venga completamente rovesciato e possa, in questo modo, fornire spunti interessanti per il pensiero pedagogico.

Nell’intuizione di Næss riveste una grande importanza il tema dell’autorealizzazione, intesa come una forma di approccio ecologico dello stare all’interno del mondo. Scrive l’autore: «Tradizionalmente, si è considerato che la maturazione del sé fosse da sviluppare tramite tre fasi: dall’ego al sé sociale (incluso l’ego), e dal sé sociale al sé metafisico (incluso il sé sociale). Ma in questa concezione della maturazione del sé, la natura viene largamente lasciata da parte. Il nostro ambiente immediato, la nostra casa (il posto cui apparteniamo come bambini) e l’identificazione con gli esseri viventi non-umani sono largamente ignorati. Pertanto, introduco tentativamente, forse per la prima volta, il concetto di sé ecologico. Si può dire che siamo nella – e della – natura, fin dalla nostra origine. La società e le relazioni umane sono importanti, ma il nostro sé è molto più ricco nelle sue relazioni costitutive. Tali relazioni non sono solo quelle che abbiamo con gli altri umani e con la comunità umana […] ma anche quelle che abbiamo con altri esseri viventi» (Næss, 2015, p. 106).

Egli non solo sembra assumere come dato acquisito che esista una rete sociale, ma evidenzia anche come esista una rete più ampia che lega sia gli esseri umani tra loro sia il mondo animale e non. Prosegue l’autore scrivendo come «il significato della vita, e la gioia che esprimiamo vivendo, è arricchito tramite un’accresciuta autorealizzazione, ossia, tramite il compimento delle potenzialità che ognuno di noi ha, ma che non sono mai le stesse per due esseri viventi qualsiasi. Qualunque siano le differenze tra gli esseri, un’accresciuta autorealizzazione implica un’estensione e un approfondimento del sé» (Næss, 2015, p. 106).

Questo processo di autorealizzazione, per il nostro autore, non dipende da caratteristiche estrinseche o da aspetti che derivano dall’acquisto o dall’esibizione compulsiva attraverso il mediatore universale del denaro. Parla di realizzazione di sé e la collega in maniera diretta e inscindibile a un’estensione e a un approfondimento del sé attraverso le capacità e le potenzialità che ognuno di noi ha a disposizione. Questa autorealizzazione ci vincola in maniera inscindibile all’altro: «A causa di un inevitabile processo d’identificazione con gli altri, assieme ad una crescente maturazione, il sé viene allargato e approfondito. “Vediamo noi stessi negli altri”. Viene impedita la nostra autorealizzazione se l’autorealizzazione degli altri, con i quali ci identifichiamo, è ostacolata. Il nostro amor proprio lotterà con questo impedimento aiutando l’autorealizzazione degli altri secondo la formula: “Vivi e lascia vivere!”. Così tutto quello che può essere ottenuto tramite l’altruismo – la doverosa, morale considerazione per gli altri – può essere raggiunto, ancor di più, dal processo di allargamento e di approfondimento di noi stessi» (Næss, 2015, p. 106).

In realtà, sottolinea l’autore, la spinta all’autorealizzazione che viene proposta dall’ideologia neoliberista non fa altro che mettere in competizione l’uno con l’altro, favorendo un’ampia sottostima delle capacità del genere umano che avrebbe invece infinite e ulteriori potenzialità. Lo esplicita lui stesso scrivendo: «Nell’ambiente nel quale sono cresciuto, ho sentito affermare che ciò che è importante nella vita è arrivare a essere qualcuno – superare gli altri in qualcosa, essere vincitori in una gara di abilità. Ciò che rende tale concezione del significato e del fine della vita particolarmente dannosa oggi è l’immensa competizione economica internazionale. Il libero mercato, forse, sì, ma la legge di domanda e offerta di “beni e servizi” separati, divisibili e indipendenti dai bisogni non deve avere il primato sulle altre aree della nostra vita. L’abilità a cooperare, a lavorare con la gente, a farla sentir bene, paga, naturalmente, in una società fortemente individualista, e a livelli alti ciò è richiesto, ma solo fino a che, ultimamente, esso è un principio subordinato alla carriera, alle leggi fondamentali dell’autocentramento, non dell’autorealizzazione al di là dell’ego. L’identificazione dell’auto-realizzazione con l’autocentramento rivela un’ampia sottostima del sé umano» (Næss, 2015, p. 116).

Non solo però una sottostima del genere umano, ma anche un’immensa sottostima della ricchezza e delle possibilità del legame con l’ambiente non-umano. Ciò è figlio, come ha bene evidenziato Mortari (2017, p. 18), di un presupposto ontologico che svuota di valore il mondo per ubriacarsi della potenza della tecnica che crea e trasforma dal niente della materia. Per questo Næss rovescia nuovamente questo paradigma: «Parlando in maniera accademica, ciò che suggerisco è la supremazia dell’ontologia e del realismo ambientale sull’etica ambientale, come un mezzo per rafforzare il movimento ecologico negli anni a venire. Se la realtà viene esperita dal sé ecologico, il nostro comportamento seguirà naturalmente e in bella maniera le norme di una rigorosa etica ambientale» (Næss, 2015, p. 118).

Questo porta a sottolineare un altro aspetto che è quasi assente dalle nostre riflessioni pedagogiche: «La gioia è una caratteristica dell’indivisibile, concreta unità del soggetto, oggetto e mezzo. In un senso, l’autorealizzazione comporta esperienze di una forma infinitamente ricca e gioiosa della realtà» (Næss, 2015, p. 119). L’autore indica dunque una via per l’autorealizzazione che passa non solo attraverso l’autorealizzazione degli altri e dell’intero della natura ma anche attraverso la gioia: «La più importante caratteristica dell’autorealizzazione, se paragonata al piacere e alla felicità, è la sua dipendenza da una visione delle capacità umane, o, meglio, delle potenzialità» (Næss, 2015, p. 120).

In fin dei conti questa visione dovrebbe interessare in modo particolare anche noi pedagogisti perché, come accenna l’autore, dovremmo essere in grado di centrare il termine capacità nella direzione della competizione non tanto interpersonale quanto piuttosto intrapersonale (Næss, 2015, p. 120). Più lenti, più soavi, più profondi, ammoniva Langer (1992), rovesciando diametralmente il motto olimpico che spronava al più veloce, più alto e più forte.

Semi di una visione diversa e di un paradigma alternativo, anche in campo economico, non mancano e incominciano a fiorire apertamente, si parla di parecon, di economia partecipativa e della condivisione (Albert, 2003; 2007) ma non solo per mostrare come siano ancora praticabili e immaginabili forme di economia diverse, che siano in grado di ridare dignità alla persona e alle capacità del singolo di creare reti solidali, di costruire ponti tra le persone e i continenti, favorendo una condivisione solidale di saperi e di risorse. L’educazione può ancora essere «una pratica della libertà, cioè di quei mezzi attraverso cui uomini e donne si rapportano criticamente e creativamente con la realtà e scoprono come partecipare alla trasformazione del proprio mondo» (Freire, 2002, p. 57). Sta a noi cogliere le sfide di questo pensiero, che passa e fonda una fraternità diversa e ancora più ampia e profonda, e sfida il pensiero pedagogico ad approfondire e centrare paradigmi che portino a favorire lo sviluppo di ciò che rende ancora e sempre più umano l’uomo, nella convivenza e nello sviluppo di un contesto di partecipazione e di corresponsabilità democratica per la crescita di cittadini consapevoli e corresponsabili della casa-mondo che abitiamo.

 

Bibliografia

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Autore per la corrispondenza

Luca Odini
Indirizzo e-mail: luca.odini@univr.it
Dipartimento di Scienze Umane, Università degli Studi di Verona, Lungadige Porta Vittoria, 17 - 37129 Verona


© 2017 Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A.
ISSN 2421-2946. Pedagogia PIU' didattica.
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