Test Book

Teoria della formazione: contesti professionali / Theory of training: professional contexts

Buone Prassi in educazione
Good practices in education

Maria-Chiara Michelini

Professore Associato di Pedagogia Generale e Sociale M-Ped/01,



Sommario

Il contributo analizza il costrutto delle Buone Prassi, utilizzato da tempo anche nei contesti educativi. Sviluppa un’analisi critica della concezione che le identifica in senso tecnico, come procedure rivelatesi efficaci per la soluzione di problemi o, in ogni caso, in vista di risultati auspicati e, quindi, da ripetere in forma standardizzata e rigida. Ne propone, altresì, una concezione interattiva, olistica e partecipativa. Analizza in tal senso alcuni esempi centrati sull’autonomia culturale degli operatori, sulla valorizzazione del sapere che emana dalla pratica, nella tensione costante con la dimensione teorica ed etica dell’agire. Ne propone, in sintesi, alcune caratteristiche (generatività, dinamicità, complessità, esemplarità) che fanno delle BP uno strumento da valorizzare positivamente anche nei contesti educativi.

Parole chiave

Buone prassi, qualità, ricerca.


Abstract

The contribution analyzes the construct of Good Practices, used for some time also in educational contexts. It develops a critical analysis of the concept that identifies them in a technical sense, as procedures that proved effective for solving problems or, in any case, in view of desired results, and, therefore, to be repeated in a standardized and rigid form. It also proposes an interactive, holistic and participatory conception. In this sense, it analyzes some examples centered on the cultural autonomy of the operators, on the enhancement of the knowledge that emanates from practice, in constant tension with the theoretical and ethical dimension of action. It proposes, in short, some characteristics (generativity, dynamism, complexity, exemplarity) that make BP an instrument to be positively valued also in educational contexts.

Keywords

Good practice, quality, research.


Alle radici delle Buone Prassi

Da tempo si è diffuso l’utilizzo dell’espressione Buone Prassi o Buone Pratiche (BP) anche nei contesti educativi, segnalando, evidentemente, l’utilità di un costrutto su cui riteniamo opportuna una riflessione in senso critico-problematico e, al tempo stesso, propositivo. Quali esigenze sottende questo costrutto? Quale ruolo assolve o può assolvere nella riflessione pedagogica? Può effettivamente essere opportuno un uso in pedagogia? In caso di risposta affermativa, quali cautele critiche sono necessarie per un utilizzo avvertito e consapevole in campo educativo? Quali sono, pertanto, le caratteristiche distintive delle BP educative?

In estrema sintesi riteniamo che ciò che rende particolarmente interessante questo costrutto sia la possibilità di animare in maniera peculiare il rapporto teoria/prassi, cuore della riflessione pedagogica, consentendo una generatività originale, specifica e comunque differente da altre forme utilizzate nella ricerca del miglioramento della qualità dell’agire nei contesti professionali.

Dal punto di vista storico segnaliamo il fatto che la locuzione BP è stata inizialmente introdotta in ambito manageriale (Taylor, 1911) ai primi del Novecento. Con BP ci si riferiva alle tecniche che si rivelavano in grado di ottenere i migliori risultati e che, quindi, a seguito di attenta osservazione, opportuna sistematizzazione e formalizzazione, potevano costituire un sistema di regole da rispettare per rendere più efficiente le modalità produttive.

Il sistema delle good o delle best practices, in questo senso, rappresenta un’anticipazione di quella certificazione ISO 9001, sistema sviluppato dall’Organizzazione Internazionale per la Normazione (International Organization for Standardization) che si è consolidata, successivamente, sia nei contesti produttivi in senso stretto, sia in quelli extra produttivi, come le istituzioni educative, a partire dalle scuole. La certificazione ISO 9001 e le sue successive estensioni e applicazioni, rappresentano un sistema di standardizzazione, attraverso apparati di normative e linee guida, i quali definiscono e regolano i requisiti di un sistema di gestione della qualità nell’ambito di un’organizzazione aziendale.[1]

Il sistema della best practice, quindi, rappresenta all’origine, in questo ambito, una tecnica assunta come riferimento in vista dell’ottimizzare dei risultati superando passaggi inutili e inefficaci. Per ottimizzazione dei risultati, in questo contesto si intende definire il risultato migliore, in riferimento a uno standard qualitativo elevato e predefinito, utilizzando il minimo dispendio di risorse. Il Dizionario di Economia e Finanza (2012), edito dalla Treccani, definisce la tecnica della (best practice), migliore pratica, come insieme delle attività (procedure, comportamenti, abitudini ecc.) che, organizzate in modo sistematico, possono essere prese come riferimento e riprodotte per favorire il raggiungimento dei risultati migliori in ambito aziendale, ingegneristico, sanitario, educativo, governativo e così via.

Più in generale, la diffusione di questa espressione nei contesti educativi è riferibile alla contaminazione, spesso non sufficientemente sostenuta in senso critico, della cultura propria del mercato, riassumibile nella metafora dell’impresa, applicata anche alle scuole e, conseguentemente, nel principio della soddisfazione del cliente e dell’orientamento al miglioramento continuo, tradotto in modelli di standardizzazione, razionalizzazione, pianificazione e monitoraggio dei processi attivati, per ottenere i prodotti finali predefiniti corrispondenti all’idea di qualità perseguita.

Abbiamo già avuto modo di analizzare criticamente tale concezione (Michelini, 2006), come trasposizione della visione della Qualità Totale anche ai contesti educativi. Secondo questa logica, qui grossolanamente richiamata, i principi fondamentali sono rappresentati dal far bene le cose la prima volta in senso esecutivo, attraverso modelli operativi standardizzati, da replicare fedelmente. In tal senso risulta fondamentale l’individuazione di ciò che funziona e consente di ottimizzare la “produzione”, replicando fedelmente processi analizzati e scomposti in modo rigoroso e tassonomico, capaci di ottenere prodotti identici nei contesti differenti.

Interpretate in questo senso, le BP costituiscono il metodo rivelatosi migliore per effettuare la produzione, nei termini di procedure ripetibili, che nel tempo hanno ottenuto il raggiungimento degli obiettivi (considerati prodotti) nel massimo di economia (efficienza, come minimo sforzo) e qualità (efficacia, come risultati migliori). Come si vede questa concezione è perfettamente inscrivibile nel taylorismo originario, ma anche nelle evoluzioni più o meno direttamente riferibili a cui assistiamo ad oltre un secolo di distanza. Si tratta di una concezione di BP come tecnica rivelatasi ottimale per il raggiungimento di risultati auspicati e considerati di elevata qualità. Questa breve, sintetica ricognizione costituisce la premessa dell’analisi critica di un costrutto che, anche per le sue radici storiche, mostra alcuni profili sui quali occorre avviare una problematizzazione.

A nostro modo di vedere considerare le BP semplicemente tecniche, volte alla ricerca di soluzioni efficaci, sulla base di quanto si è rivelato utile nella pratica di professionisti competenti, potrebbe condurre alla conclusione che non occorre un’idea educativa in cui inscriverle, che non è necessaria una riflessione pedagogica su di esse. In questo senso, allora il rapporto tra BP come tecnica in senso stretto e scienza pedagogica si risolverebbe nell’accoglimento da parte della seconda di quanto delle prime si è rivelato efficace sul piano pratico. Verrebbe meno la necessità di sviluppare ulteriormente questo rapporto, di renderlo più raffinato e articolato. La pedagogia, in questo come in altri casi, dovrebbe essere scienza che fa propri, tout court, strumenti messi a punto e certificati da parte di operatori. Si farebbe strada, in questo senso, il rischio di dogmatismo empirico: vale ciò che funziona nella pratica, prescindendo dall’orizzonte teleologico di riferimento. Se, poi, le BP emanano da campi d’azione differenti da quello educativo, al rischio di dogmatismo dell’empiria si aggiunge quello di assunzione acritica di strumenti propri di visioni dell’uomo e dell’agire, esterne a quelle educative. Si pone, cioè, anche la questione dell’identità della pedagogia, in relazione all’insieme variegato e complesso delle altre scienze, a partire da quelle che costituiscono il paradigma delle scienze educazione, la cui autonomia epistemologica e pratica può darsi ormai per acquisita.

Quello della Qualità Totale, al quale abbiamo già fatto riferimento, comprensivo di un apparato ampio e complesso di «strumenti», rappresenta, appunto, un esempio di come la pura mutuazione d’uso nei contesti educativi comporti rischi di vera e propria colonizzazione culturale da parte di concezioni economiciste e liberiste che confliggono con il senso complessivo dell’educare o, quanto meno, che ne riducono la portata in senso strettamente contabile. Ciò pone una problematica ampia e complessa che esula dall’economia e dalle finalità del presente lavoro e che ripropone, a nostro modo di vedere, la necessità di porre al centro della scienza dell’educazione coloro i quali ne esercitano l’arte, anche utilizzando, allo scopo, in maniera critica e consapevole i contributi di altre discipline, intese deweyanamente come fonti. In tal senso ad esse non può essere attribuita la funzione di creare o stabilire fini, ma deve essere conferita quella di occupare «un posto intermedio e istrumentale o regolativo» (Dewey, 1929, p. 40) o, come detto in un altro passaggio, «ausiliario» (Dewey, 1929, p. 21) rispetto all’educare. In questa cornice generale, dunque, l’uso delle BP, ripropone la questione della considerazione critica e costruttiva di un costrutto emanato dalla cultura economico manageriale, per il suo eventuale uso nei contesti dell’agire educativo.

In questa cornice, anche riguardo le BP c’è bisogno di un piano ulteriore che connetta pensiero e pratica, riflessione e azione, scopi e mezzi, scienza e tecnica, in un discorso utopico e critico insieme, capace di orientare e guidare, senza limitarsi alla presa d’atto di ciò che si è dimostrato funzionare in ambiti extraeducativi.  

 

 

Elementi per un’analisi critica

Concordiamo in tal senso con Biesta (2010) riguardo il fatto che la considerazione dell’efficacia, questione implicitamente connessa a quella delle BP, pone almeno tre problemi in riferimento all’orizzonte teleologico. Si tratta di questioni inerenti la dimensione epistemologica, quella ontologica e quella pratica della discussione. Dal punto di vista epistemologico dobbiamo domandarci come possiamo generare conoscenza su ciò che funziona, anche considerando quanto la ricerca sperimentale ha prodotto in termini di dati di conoscenza su determinati fenomeni.

Questo argomento richiama il tema della cultura dell’Evidence-Based Education (EBE), la quale, denunciando l’incapacità di molta parte della ricerca educativa, nonostante i consistenti investimenti, a produrre basi di conoscenza condivisa e affidabile, nell’intendimento di superare la cronica separatezza tra chi opera negli ambiti teorici e quanti agiscono nei contesti pratici, si propone di individuare modelli e conoscenze adeguati a migliorare le pratiche.

In tal senso l’EBE attribuisce alla ricerca sperimentale il compito di fornire le prove ritenute scientificamente attendibili per orientare sia la pratica educativa che le scelte politiche, nella direzione di ciò che si è rivelato efficace. La questione è piuttosto ampia e complessa, tanto che anche in Italia si è fatta strada una concezione morbida dell’EBE, la quale, tentando di evitare i rischi di un neopositivismo ingenuo che ritiene possibile formulare leggi facilmente generalizzabili anche in campo educativo, propone un’ipotesi mitigata di evidenza, traducibile nell’espressione what works, under what circumstances. Calvani (2012), in particolare, si esprime in favore di una concezione dello sviluppo e della condivisione di conoscenze affidabili e concretamente trasferibili nella pratica didattica quotidiana introducendo, allo scopo, il concetto di conoscenze sfidanti.

La seconda questione posta da Biesta investe la dimensione ontologica della discussione, la quale pone al centro la domanda di come si possano effettivamente collegare gli interventi posti in essere e gli effetti ottenuti, con particolare riguardo al dominio sociale. Detto in altri termini, la questione ontologica investe il problema essenziale della possibilità di stabilire un rapporto di causa effetto tra le azioni e i risultati. Ciò rimanda al carattere di complessità dei fatti educativi e alla difficoltà intrinseca ad essi di osservare e, ancor di più, prevedere la possibilità di determinare positivamente tale nesso. La cosa va oltre, naturalmente, la disponibilità quantitativamente rilevante di dati ottenuti da ricerche rigorose, nella direzione, appunto, dell’ontologia dei processi educativi.

La terza questione investe la dimensione pratica della discussione nel rapporto tra la pratica professionale e le prove fornite dalla ricerca scientifica. Detto in altri termini al cuore della questione pratica sta il rapporto tra due direzioni, top down e bottom up, di sperimentazione, messa a punto, definizione e disseminazione delle BP. La risposta della cultura della EBE individua una direzione discendente: la ricerca sperimentale ha il compito di raccogliere dati significativi inerenti ciò che funziona, spendibili nella pratica, sotto forma, appunto di BP. Viceversa, le numerose esperienze condotte non solo in campo educativo attorno al costrutto di BP testimoniano la fecondità di percorsi bottom up, nei quali gli esperti di un determinato ambito sperimentano soluzioni che si rivelano efficaci in relazione a problemi complessi e inediti e, in virtù dell’autorevolezza di chi opera nei contesti reali, le ripropongono ad altri.

A questo riguardo possiamo osservare, di fatto, l’esistenza di due paradigmi di validazione delle pratiche: uno soggettivo, che intende rendere ragione della peculiarità dell’esperienza, e l’altro oggettivo/strumentalista, che vorrebbe ancorare la bontà dell’agire al successo nel raggiungimento degli obiettivi predefiniti e alla scrupolosità dei processi.

 

 

Ipotesi di modelli interattivi

Non mancano tentativi di sintesi tra i due paradigmi, con esiti interessanti. Un esempio in questo senso è costituito dal modello di Kahan e Goodstadt (2001), nell’ambito della ricerca delle migliori pratiche per la promozione della salute. Questo modello, denominato The Interactive Domain Model of Best Practices (IDM), considera le BP nell’intreccio di tre domini interattivi: le pratiche in senso stretto, come processi e attività diretti agli aspetti sanitari, alla ricerca e agli aspetti organizzativi, la comprensione dell’ambiente, nell’intreccio tra visione, analisi della salute e analisi dell’organizzazione, e punti di sostegno, come sintesi di valori e scopi (etica), teorie e credenze, prove di efficacia.

Il carattere interattivo del modello ricomprende al suo interno anche le prove di efficacia, le quali opportunamente forniscono elementi di valutazione, da considerare, in ogni caso, non isolatamente, ma nella relazione con tutti gli altri elementi, da quelli inerenti agli aspetti organizzativi, a quelli più squisitamente qualitativi e legati alle sfere immateriali dell’agire, come quella etica. Questa articolata concezione afferma il principio del protagonismo autentico di coloro che agiscono nel campo pratico e promuove l’incremento della responsabilità delle parti interessate.

Le BP, in tal senso, sono considerate quelle che attivano processi e azioni correlati alla promozione di valori, teorie ed evidenze relativi alla promozione della salute in un determinato ambiente. Per questa ragione, l’approccio di Kahan e Goodstdt alle migliori pratiche ne sottolinea fortemente il carattere qualitativo, per il quale i benefici più promettenti rispetto alla promozione della salute derivano da un aumento della responsabilità nei confronti delle parti interessante, dal coinvolgimento del personale a tutti i livelli in un’organizzazione volta al miglioramento continuo, dalla consapevolezza di tutti i soggetti rispetto all’ambiente interno, dall’attenzione all’evidenza a sostegno della pratica. Ad esempio, un elemento considerato importante in questo modello è il clima, ovvero l’atmosfera che i partecipanti respirano, sentendosi coinvolti, inseriti al proprio posto, impegnati nel prendersi cura della propria vita e delle opportunità di migliorarla in termini di benessere. Si tratta, dunque, di un modello olistico con riferimento a tutte le dimensioni della persona, inclusa la parte spirituale, i sentimenti, i vissuti e i valori. Questi ultimi sono considerati componente delle fondamenta delle BP, nella consapevolezza che valori e scopi corrispondenti influenzano le azioni delle persone, costituendo, pertanto, un sottodominio importante delle pratiche di promozione della salute.  

L’implementazione di tale modello, per diretta affermazione degli autori, implica un approccio sistematico e critico riflessivo, capace di sostenere i professionisti nello sviluppo e nella promozione delle migliori pratiche. L’identificazione delle BP, in questo senso, non avviene per semplice applicazione di criteri di evidenza forniti dalla ricerca sperimentale, attraverso l’elaborazione di algoritmi elementari, ma deriva da processi di consapevolezza, riflessione, considerazione attenta da parte dei professionisti, in processi che vedono attivamente coinvolti tutti i partecipanti.

A partire da tali premesse, l’IDM si articola in una dettagliata specificazione di voci ed elementi che traducono ciascuna componente del sistema. Lo studio applicativo del modello dimostra, secondo gli autori (Kahan e Goodstadt, 2001, p. 65), che un approccio basato sulle pratiche migliori nella promozione della salute aumenta i benefici e porta a una diminuzione dei rischi quando:

  • identifica la molteplicità delle migliori pratiche in determinate circostanze piuttosto che identificarne una soltanto;
  • è multilivello, coinvolgendo ruoli e responsabilità specifici;
  • è basato su linee guida generali che propongono una struttura flessibile adattabile in diverse circostanze;
  • incoraggia dialoghi rispettosi e ricchi di senso piuttosto che consensi ideali;
  • è volontario, automonitorato e documentato tramite osservazioni e registrazioni di risultati e impatti;
  • enfatizza la relazione tra processi e risultati coinvolti nella promozione della salute piuttosto che favorirne uno soltanto;
  • lavora per fornire i risultati richiesti e per arrivare alla miglior buona pratica.

 

Ciò che rende particolarmente interessante il modello IDM è l’intendimento di integrazione tra gli elementi del contesto, interpretati nella loro complessità e specificità, e quelli a sostegno dell’efficacia di una determinata pratica, nella valorizzazione piena del protagonismo attivo degli attori della situazione.

In questo senso l’IDM è stato valorizzato anche in ambiti educativi come esempio positivo, nella ricerca di coniugazione delle esigenze di diverso segno sottostanti il costrutto delle BP, vale a dire quella di rendere ragione della peculiarità delle situazioni e delle azioni poste in essere per risolvere problemi specifici, riconducibile a paradigmi attenti alla soggettività dell’agire, e, al tempo stesso, l’esigenza di ancorare la bontà dell’agire al successo nel raggiungimento degli obiettivi predefiniti e alla scrupolosità dei processi, secondo una visione riconducibile a paradigmi  oggettivo/strumentalisti.

Un esempio in tal senso è costituito da una rete di scuole della regione Lombardia, impegnate nella promozione dell’educazione alla salute, le quali, appunto hanno lavorato sulle BP, utilizzando come riferimento il modello di Kahan e Goodstadt (pur se non in maniera esclusiva, ma in relazione ad altri modelli). Queste scuole si sono dotate di linee guida generali, sottoscritte attraverso “La carta d’Iseo”. Indirizzi metodologici della rete delle scuole che promuovono salute”, a partire dalle quali hanno sviluppato esperienze i cui esiti sono stati raccolti nel Report intitolato, appunto Verso le Buone Pratiche.[2]

Il modello e i progetti menzionati, al di là della specificità del tema e dell’ambito di riferimento, costituiscono degli esempi di come le BP possano essere considerate qualcosa di più di una tecnica, qualcosa di più di uno strumento pratico da applicare in maniera meccanica ed esecutiva alle diverse situazioni, a partire da un algoritmo definito in maniera più o meno rigorosa. In essi, a nostro modo di vedere, si superano i rischi e la tendenza eccessiva alla semplificazione, per cui le BP verrebbero ridotte a strumento, a tecnica messa a punto da qualcuno. Al tempo stesso tali esempi superano anche i rischi di empirismo, di autoreferenzialità e di inadeguato profilo di rigore; di un certo modo di intendere le BP.

 

 

Caratteristiche essenziali delle BP

L’equilibrio di tali proposte ben esprime il potenziale del costrutto in esame, riconducibile ad alcune caratteristiche essenziali, a partire dalla generatività. Le BP sono espressione della ricerca di soluzioni per problemi inediti, rispetto ai quali non esistono risposte già collaudate. In tal senso esse traducono l’autonomia culturale degli operatori che, in virtù del sapere che emana dalla pratica, sono capaci di affrontare i problemi e le sfide sempre nuove posti dalla realtà mutevole e complessa, esprimendo competenze specifiche e virtù etiche vere e proprie, come capacità di orientare la scelta di mezzi adeguati alla situazione.

Tale profilo è correlato alla peculiare animazione del rapporto teoria/prassi che le BP favoriscono, in ragione della loro collocazione intermedia tra pratica ordinaria e ricerca scientifica, tra partecipazione attiva di chi opera sul campo e configurazione formalizzata di indagini. Si tratta di un rapporto aperto, autoregolato, volto all’innovazione e, al tempo stesso, capace di valorizzare quanto consolidato come utile ed efficace. In tal senso quello delle BP è caratterizzato da dinamicità, all’opposto dell’idea di esecutività statica al quale certe concezioni tecnicistiche vorrebbero ridurlo. Tale dinamismo promana dalla prassi e ne valorizza appieno il potenziale, nella tensione costante al raccordo con il piano teorico. Si tratta di coniugare continuamente presupposti teorici e dimensione operativa dell’agire, in una logica di costante problematizzazione. Deweyanamente le pratiche sono il vero banco di prova della validità delle ipotesi teoriche e delle conclusioni scientifiche, le quali costituiscono, a loro volta, la luce e la guida capace di orientare l’azione, esercitandone la funzione liberatrice. «Quel che bisogna combattere è la trasformazione dei ritrovati scientifici in regole di azione (Dewey, 1929, p. 11)». Per questa ragione tenere vivo il dinamismo intrinseco delle BP costituisce un elemento essenziale.

In questo senso le BP sono costrutto della complessità, opposta a ogni tentazione di riduzionismo e dogmatismo. Tenere vivo il dinamismo tra teoria e prassi, tra protagonismo degli esperti e rigore della ricerca, tra peculiarità dei contesti e delle esperienze e formalizzazione delle soluzioni, comporta il fatto di tenere insieme, nella loro molteplicità, limitatamente riducibile, i molti aspetti della realtà e dei problemi. In questo senso i possibili modelli idonei ai contesti educativi esprimeranno la poliedricità degli strumenti e la multilateralità dei processi. Le BP in tal senso esprimono la pluralità dei modi per capire il mondo, tali per cui, anche in ambito educativo, non potranno che trarsi benefici da un approccio pluralista alla ricerca piuttosto che monolitico.

L’insieme complessivo delle caratteristiche sopra esposta esprime il carattere dell’esemplarità delle BP, le quali specificano un modo di guardare all’idealità a partire dalla realtà. In esse utile e vero convergono, muovendo necessariamente dal banco di prova dell’esperienza pratica. La bontà delle prassi esprime e specifica la tensione costante in questa direzione: l’efficacia, l’utilità e la concretezza delle soluzioni messe a punto per risolvere problemi e difficoltà non possono mai essere disgiunte dalla validità degli assunti teorici, dei principi ai quali esse sono ispirate, dalla loro adeguatezza alle finalità educative. Sono buone e utili le prassi che hanno mostrato la loro efficacia oltre l’orizzonte limitato degli aspetti funzionali e immediati, in quanto pensate e valutate nel flusso bi-direzionale di valori e pratica, di scopi e mezzi. In questo senso, riteniamo che le BP possano rappresentare un dispositivo di grande utilità euristica, consentendo di animare la dinamica teoria-prassi in maniera adeguata ed efficace, se colta, appunto, nei suoi aspetti costitutivi ed essenziali.

Da questo punto di vista il discorso pedagogico può utilmente valorizzare il costrutto di BP in senso critico, attivo e propositivo, in coerenza con il proprio statuto scientifico, a vantaggio e sostegno di quanti nei contesti reali si impegnano nella ricerca dell’innovazione e della qualità dell’agire educativo.

 

Bibliografia

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Taylor F. (1911), The Principles of Scientific Management, New York, Harper & Brothers Publishers.

 

[1]  Per approfondimenti relativi a tale concezione si vedano: A. Galgano, La qualità totale, “Il Sole 24 Ore”, 1993; G. Negro, Qualità totale a scuola. Didattica, organizzazione scolastica e nuovi modelli manageriali, “Il Sole 24 Ore”, 1995.

[2] Sia il testo integrale della Carta d’Iseo che quello del Report Verso le Buone Prassi sono reperibili nel sito www. scuolapromuovesalute.it, riferiti ai progetti realizzati nel corso dell’a.s. 2014/15 nelle scuole della Regione Lombardia aderenti alla rete. Un’altra esperienza significativa in tal senso è costituita dal Centro di Documentazione per la Promozione della Salute (DoRS) della regione Piemonte, che svolge un lavoro sistematico in riferimento alle BP, per le quali ha elaborato una griglia che ne consente la raccolta, attraverso un’articolata serie di quesiti riferiti alle varie aree dell’agire (ad esempio alle forme di partecipazione, al gruppo di lavoro, alle teorie e ai modelli di progettazione, alla descrizione delle attività svolte, ecc.). Le risposte vengono tradotte in punteggi, con un algoritmo di attribuzione. I materiali del progetto, inclusi la versione integrale della griglia per la valutazione delle buone pratiche e il documento Buone Pratiche cercasi, sono reperibili nel sito del DoRS: https://www.dors.it/index.php (consultato il 12 febbraio 2019).




Autore per la corrispondenza

Maria-Chiara Michelini
Indirizzo e-mail: mariachiara.michelini@uniurb.it
Dipartimento di Studi Umanistici, Università degli Studi di Urbino, via Bramante 17, 61029, Urbino (PU)


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ISSN 2421-2946. Pedagogia PIU' didattica.
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