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Recensione

A. Santucci, Senza comunismo. Labriola, Gramsci, Marx (Roma, Editori Riuniti, 2017, pp. 168)


Manuela Ausilio



L’antologia Senza comunismo. Labriola, Gramsci, Marx (Roma, Editori Riuniti, 2017, pp. 168)  rimette in circolazione i saggi di Antonio Santucci – storico e allievo del filosofo italiano Valentino Gerratana – già editi con questo titolo nel 2011 e dedicati a due figure fondamentali del panorama intellettuale e politico comunista italiano, Antonio Labriola e Antonio Gramsci, nonché alcuni lavori su Marx ed Engels. L’operazione editoriale è apertamente pedagogica e si presenta come invito a indagare ancora oggi le ragioni dell’ipotesi comunista, nonostante la sua credibilità possa sembrare storicamente tramontata, mentre si va affermando o consolidando nel nostro secolo, in Europa e nel mondo, un’ondata forse senza precedenti di governi improntati al protezionismo securitario e alla retorica autoritaria, o all’esaltazione del liberismo selvaggio. Un’epoca che vede la sparizione di ogni margine di cittadinanza, per cui il citoyen sembra un autorecluso nello spazio ossessivo ma scintillante della caverna dall’apparenza social, intrappolato nel buio della sua sostanza privata di bourgeois e nelle sue paure più cupe e ancestrali (quando non deve occuparsi dei bisogni immediati di sopravvivenza). Rispetto a questo stato dell’arte, il titolo della raccolta appare in controtendenza ed empatico. Santucci incoraggia lo studio del patrimonio teorico marxista ricordando agli attuali comunisti senza comunismo che mai è esistita un’epoca in cui tutto era già fatto giacché invece tutto è sempre ancora da fare, come fu per Labriola e Gramsci, ma anche per Marx ed Engels.

Il volume raccoglie nove studi dedicati in prevalenza a problemi inerenti la nascita del marxismo italiano attraverso i suoi maggiori esponenti, Labriola e Gramsci (pp. 11-103), e nella terza parte alcuni lavori su Marx ed Engels (pp. 123-141). Interprete coraggioso e curioso, Santucci «sapeva interrogare il marxismo servendosi di quella “filologia vivente” appresa in un lungo tirocinio di allestimento di edizioni critiche e, insieme, attraverso l’ironia e il disincanto meridionali», sottolineano i curatori del volume La Porta e Santarone. Questa sensibilità non viene meno negli studi su Gramsci (al quale dedicò oltre 250 titoli), parte centrale del volume che idealmente si connette all’Appendice in cui troviamo uno scritto dedicato allo storico della filosofia Garin (pp. 145-158). Il pensatore sardo è letto come uomo del suo tempo e insieme come “classico” del pensiero, aperto al dialogo con le generazioni future. “Due Gramsci” (il giornalista e militante poi dirigente di partito, e lo studioso delle “noterelle e appunti”) trovano infine coerenza nella lotta per l’emancipazione delle classi subalterne.

Nei saggi qui riproposti vengono affrontati diversi temi, ma segnaliamo il saggio Per la verità: intellettuali, classe, potere (pp. 61-71). La verità, scriveva il giovane Gramsci nel 1916, «deve essere rispettata sempre qualsiasi conseguenza essa possa apportare, e le proprie convinzioni, se sono fede viva, devono trovare in se stesse, nella propria logica, la giustificazione degli atti che si ritiene necessario siano compiuti». Uno stoicismo morale, intellettuale e politico. Anche nella vita privata ancora nel 1936 aspirava a una comunicazione improntata a «verità, chiarezza, sincerità» con la moglie Giulia. Affermare la verità è una necessità politica: il tema venne proposto da Santucci già nel 2011 quando con questo titolo uscì una raccolta di suoi articoli giornalistici contemporanea alla prima edizione di Senza comunismo.

Santucci problematizzava la tendenza per cui «sia sempre più à la page discorrere di “interpretazione” e quasi mai di “verità”», e qualificava l’egemonia comunista come improntata al nesso “potere-verità”. Vi è implicita un’equazione politico-pedagogica: educare al comunismo è educare alla verità. In un noto editoriale gramsciano del 1919, Democrazia operaia, la “verità” compare in duplice accezione: dire la verità come atto soggettivo di chi fornisce una testimonianza o in genere comunica con gli altri (veracitas) e come fine del movimento che abolisce lo stato di cose presenti, il comunismo. L’imperativo politico-morale della verità è forma della direzione politica: è ciò che qualifica l’egemonia in senso democratico e condiviso. Una società comunista che si voglia tale si contrappone alla società della menzogna, della manipolazione ideologica e dell’illusione mass mediatica, non potrà che dare all’egemonia la direzione della verità.

A Labriola sono dedicati due saggi (Il carteggio con Engels e I Saggi nella cultura italiana e europea, pp. 11-25 e pp. 27-41), che valorizzano la connessione fra impegno teorico e impegno politico in Labriola. Aspetto che nel carteggio con Engels emerge decisamente. Labriola fu non solo teorico e acuto rielaboratore italiano di quel «complesso di dottrine» che andava affermandosi come marxismo, ma anche critico implacabile di quei socialisti che tentavano di mascherare col “pragmatismo” una visione politica fatta di «maldicenza, esagerazione e pessimismo». Sebbene le lettere di Engels siano andate disperse, quando nel 1891 Labriola «diventerà un filosofo del socialismo» lo dovrà non poco ai cinque anni di scambio intellettuale (1890-95) con lo studioso tedesco. Ricezione complicata quella dell’opera teorica di Labriola, socialista “a modo suo”, che spinge Santucci a interrogarsi, come già fece Gramsci, sulle ragioni possibili sulla sua «non fortuna» nella cultura italiana. La proposta del comunismo critico difficilmente avrebbe trovato spazio in un’Italia dominata culturalmente dal positivismo prima e dalla rinascita neoidealista poi: un socialismo scientifico come filosofia della storia dal carattere antidogmatico, una «tendenza e non una dottrina costituita»; e la dialettica come metodo genetico in grado di dare ragione del processo morfologico di sviluppo della società, che individuava il «midollo del materialismo storico» nella filosofia della praxis (espressione ripresa da Gramsci). In generale Santucci tiene molto a valorizzare i luoghi teorici del marxismo non economicista. Così in Economia e Weltliteratur (pp. 107-121), saggio della terza parte della raccolta, analizza l’uso che viene fatto del concetto di Weltliteratur (“letteratura mondiale”) nel Manifesto del partito comunista, inteso qui come «complesso di “prodotti spirituali”» che manifesta l’«universale traffico intellettuale» che si sviluppa nel mondo borghese assieme al traffico materiale delle merci.

Emergono da Senza comunismo la sensibilità di Santucci per la divulgazione scientifica e la premura di mettere in dialogo i classici della storia del marxismo con le generazioni future. Questi sarebbero uno «strumento per indagare lo sviluppo e le trasformazioni del capitalismo contemporaneo» valido anche al di là del buon esito dei progetti di emancipazione politica. Si collocano dunque fra passato e futuro. Tuttavia è altrettanto importante la coscienza del presente: il presente è sempre tragico poiché l’azione comporta sempre una parte di opacità, non possono prevedersi fino in fondo le sue conseguenze. Questo lato va accettato, bisogna comunque agire, pena il rischio di cadere nell’immobilismo (politico e pedagogico) o nel “comunismo delle anime belle”. Meglio forse una certa cautela quando si parla di marxismo come “metodo teorico” al di là delle concrete esperienze storico-politiche che a questo si sono ispirate, giacché si rischia di riproduce la scissione fra “pensiero marxista” e “storia socialista”, “marxismo” e “comunismo”. Se è vero che il marxismo teorico non può essere immediatamente ricondotto all’esito delle sue manifestazioni storiche, lo è altrettanto che queste sono parte del processo che sviluppa storicamente quell’idea grazie all’azione umana che la realizza. Sarebbe una situazione ben curiosa se il “metodo del marxismo” fosse qualcosa che tutti possono conoscere, anche grazie all’impegno divulgativo, ma nessuno può verificare nella pratica poiché ogni suo esito storico, essendo “impuro”, finisce per essere visto come allontanamento dalla purezza teorica originaria. Si finirebbe nel paradosso di un “marxismo come metodo per tutti” a un “marxismo praticabile per nessuno”, tranne che per gli intellettuali che di quel metodo sono depositari e ne governano i principi, quasi magici. Non è il caso di Santucci, e tuttavia il passo per scivolare dalla damnatio memorie dei socialismi storici alla coscienza infelice dell’intellettuale tradizionale può essere più breve di quel che si crede. Esercitare l’autovigilanza sulla propria concezione del mondo, sui propri parametri e le proprie stratificazioni di pensiero è forse ancora oggi la lezione più attuale del marxismo, profondamente pedagogica, come valorizzazione di quel peculiare sguardo critico sull’origine storica concreta da rivolgere a sé oltre che alla collettività cui si appartiene.



© 2017 Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A.
ISSN 2421-2946. Pedagogia PIU' didattica.
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