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Editoriale

La pedagogia di fronte alle immigrazioni


Massimo Baldacci

Professore Ordinario di Pedagogia generale - Università di Urbino Carlo Bo



Di fronte alla piega presa dal problema delle immigrazioni dall’Africa nel nostro Paese risulta quanto mai evidente il nesso tra la pedagogia e la politica. Gli sforzi teorici e metodologici della pedagogia interculturale rivelano la loro insufficienza, in assenza di un orientamento politico capace di dare loro un senso.

Il quadro politico necessario per l’azione della pedagogia interculturale è infatti quello contrassegnato dal binomio accoglienza e inclusione, benché queste categorie siano problematiche e richiedano quindi attenti chiarimenti concettuali e precise strategie d’intervento (a cui la pedagogia può però dare un importante contributo).

Nel nostro Paese, nell’ultimo periodo, gli orientamenti politici sono invece andati in una direzione del tutto diversa: dalla retorica dell’“aiutiamoli a casa loro” (unita alla mancata approvazione della legge sullo Ius soli, tassello essenziale di una strategia d’inclusione degli immigrati), alla politica dei respingimenti dell’attuale governo (unita alla retorica del “prima gli Italiani” verso gli immigrati già presenti sul territorio nazionale).

L’appello di Alex Zanotelli (missionario della comunità dei Comboniani) apparso sul Il Manifesto dell’8 luglio, che ha raccolto vasto interesse e numerose adesioni anche nel mondo della scuola, ha invitato i giornalisti italiani a rompere il silenzio sull’Africa e a ripristinare un’adeguata informazione sulle cause dei movimenti migratori dall’area sub-sahariana, in modo da formare correttamente l’opinione pubblica. Proviamo anche a noi a dare un breve schema di queste cause, il cui succo – piaccia o meno – è questo: l’esodo africano è una conseguenza dei comportamenti politici ed economici dell’Occidente.

Il continente africano, sebbene negli ultimi venti anni abbia compiuto importanti progressi economici e sociali, resta segnato da una marcata e diffusa povertà economica e umana e da gravi diseguaglianze.

Se la radice remota dei problemi africani va rintracciata nella dipendenza coloniale che ha segnato la storia di questo continente, la radice prossimale è costituita dalle politiche neoliberiste che guidano la globalizzazione dell’economia. Nel sistema economico mondiale, l’Africa sub-sahariana è collocata in quella che Wallerstein (I. Wallerstein, Comprendere il mondo, Trieste, Asterios, 2013) ha definito come la cintura periferica, composta da Paesi la cui funzione è quella di fornire le materie prime necessarie ai processi di trasformazione produttiva, che dipendono però da altri Paesi. E l’Africa sub-sahariana è ricca d’importanti materie prime: cacao, petrolio (Niger), diamanti, oro, uranio, rame, stagno, manganese. Ma esse sono per lo più preda di multinazionali, con la complicità di cricche di potere locali, che possono così lucrare senza investire e correre rischi. L’economia di questi Paesi rimane perciò sensibilmente dipendente dall’agricoltura. Ma anche su questo versante i problemi non mancano. Da un lato, una parte di questi Paesi è affetta da scarsità di risorse idriche, inasprita dai cambiamenti climatici (causati dall’inquinamento di cui l’Occidente è il principale responsabile) che producono processi di inaridimento dei suoli. Inoltre il neoliberismo ha imposto la liberalizzazione degli scambi agricoli, ma i Paesi dell’Occidente attuano politiche di sostegno ai propri agricoltori, mentre i Paesi africani debbono aprirsi al libero mercato senza poter sovvenzionare la propria agricoltura. Infine, le multinazionali e i Paesi avanzati (non solo occidentali) stanno compiendo un accaparramento dei suoli agricoli africani (anche in questo caso, spesso, col concorso di cricche locali), per convertirli a usi funzionali al mercato globale, quale la produzione di olio di palma o di biocarburanti, senza migliorare la situazione alimentare e occupazionale di questi Paesi, e sottraendo anzi rilevanti risorse idriche agli agricoltori locali.

Il risultato di questi processi di drenaggio delle risorse africane da parte dei Paesi avanzati è dato dalla diffusa povertà e dalle forti diseguaglianze, dal tasso ancora alto di mortalità infantile e di denutrizione dei bambini (sebbene in via di miglioramento), dalla speranza di vita nettamente inferiore a quella dei Paesi europei (benché la lotta alla malaria, alla tubercolosi e all’Aids abbia compiuto passi importanti).

A queste dinamiche socio-economiche si accompagna uno stress demografico ancora elevato, con alte propensioni riproduttive e un’elevata proporzione di giovani (oltre il 40% ha un’età compresa tra i 15 e i 29 anni) (M. Deaglio, La bussola del cambiamento, Milano, Guerini, 2005). Questo –  in presenza di ridotte possibilità occupazionali e di forti sperequazioni sociali – genera marcate tensioni sociali, talvolta inasprite da inimicizie etniche e/o religiose.

L’interazione tra le dinamiche socio-economiche richiamate e le tensioni demografiche ed etnico-religiose è alla radice dell’endemica conflittualità che flagella l’area sub-sahariana, assumendo per lo più la forma di guerre civili tra gruppi etnici per il controllo sulle materie prime e le risorse agricole. Guerre che l’Occidente alimenta con la vendita delle armi (Italia compresa), quando non addirittura con l’appoggio alla fazione ritenuta più affidabile per la prosecuzione dei traffici economici. A oggi, in Africa si contano ancora sette guerre in atto (F. Tétart, Il mondo nel 2018, Gorizia, Biblioteca universale di storia, 2017), tra le quali quelle che insanguinano il Sudan del Sud, la Somalia, il Centrafrica, e continuano anche nel Darfur e in Nigeria. Si tratta di conflitti che hanno già prodotto centinaia di migliaia di morti, e che causano massicci sfollamenti delle popolazioni civili.

Così, la diffusa povertà e le guerre civili sono alla radice del vasto e persistente movimento migratorio verso l’Europa. Ma l’Occidente porta gravi responsabilità nella genesi e nel mantenimento dei fattori di questa migrazione. Responsabilità che si tende a mascherare dietro la facciata degli aiuti umanitari o dell’invio dei caschi blu (che restano spesso spettatori impotenti degli eccidi). Responsabilità che si preferisce nascondere all’opinione pubblica, peraltro pronta a girare la testa dall’altra parte. Ma su questo, probabilmente, agisce il principio del “limite della coscienza possibile” (L. Goldmann, Scienze umane e filosofia, Milano, Feltrinelli, 1961): non si vuole diventare consapevoli di come stanno veramente le cose, perché ci costringerebbe a vedere le ingiustizie su cui poggia il nostro benessere. Meglio versioni parziali e semplificate, che ci permettono di salvare la nostra immagine di noi stessi.

Di fronte a tutto questo, la pedagogia non può sfuggire alla responsabilità storica di prendere posizione. E a questo proposito non bastano gli appelli umanitari, facilmente tacciati di buonismo e di retorica da anime belle che pontificano al riparo dei loro privilegi. È opportuno seguire l’indicazione di Zanotelli: ciò che occorre è in primo luogo di ripristinare la verità delle cose, esponendole chiaramente all’opinione pubblica. Ma questo appello può essere esteso a tutti gli insegnanti, a qualsiasi livello operino (università inclusa), affinché trovino il modo e le forme per spiegare ai bambini e ai giovani le cause che stanno dietro il processo di emigrazione dall’Africa. I giovani hanno il diritto di comprendere quello che sta accadendo, e la verità li renderà più liberi e maturi.

 




Autore per la corrispondenza

Massimo Baldacci
Indirizzo e-mail: massimo.baldacci@uniurb.it
Dipartimento di Studi Umanistici, via Bramante, 17 - 61029 Urbino (PU)


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