Test Book

Teorie e modelli didattici / Theories and teaching models

Apprendimento significativo, cambiamenti, valore esemplare dell’ipertesto


Vincenzo A. Piccione

Professore Associato - Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università Roma Tre



Sommario

Il contesto del quale si parla nella prima parte dell’articolo è quello delle nuove generazioni di bambini e adolescenti per i quali, come mai è accaduto nella storia dell’uomo, esiste un sapere, quello tecnologico, a proposito del quale le generazioni adulte e le loro conoscenze non sembrano essere pienamente affidabili, in termini di contenuti, di procedure di uso, di significato, di strategie cognitive impegnate nella loro manipolazione, di linguaggi specifici. Al punto di vista educativo e didattico è posta una sfida importante: cogliere le ragioni per le quali anche strumenti innovativi possono sollecitare la motivazione ad apprendere, promuovere una percezione del sapere come rete di contenuti e significati. Partendo da queste constatazioni, vengono qui sinteticamente commentate alcune delle ragioni per le quali la costruzione di un ipertesto ha un potenziale formativo elevato.

Parole chiave

Processi di apprendimento, cambiamenti, approcci pedagogici.


Abstract

The dealt-with-context in the first part of this paper is the one where, at present, as never before in human history, younger generations have a kind of knowledge, the technological one, about which the adult generations are not unique and total holders. Adult generations are often unable to explain its contents, instructions for use, usability and re-usability, meanings, cognitive strategies involved in managing it, communicational codes and channels, specific languages. The educational and didactical points of view face, at present, an important challenge: analysing the reasons why innovative didactical tools can foster the motivation to learn, can strengthen the perception of knowledge as a net of contents and meanings. In this paper, the impact experienced when bridging the hypertext contents is commented.

Keywords

Learning processes, changes, pedagogical approaches.


Non sono le innovazioni tecnologiche a chiedere un rinnovamento alle scienze dell’educazione

Il tema dell’impatto che in questo momento storico i cambiamenti stanno provocando sui processi di apprendimento di generazioni di bambini, adolescenti, studenti è appassionante. E dal punto di vista pedagogico il tema è ancora più appassionante perché consente ampi spazi di riflessione e di ricerca. In realtà, in relazione a quel tema, negli ultimi due decenni, interessanti contributi culturali e scientifici hanno preferito un’analisi dei fenomeni che producono un impatto sulla percezione generale del presente e del futuro oppure una constatazione in merito al fatto che le nuove tecnologie producono cambiamenti, piuttosto che un’analisi, per fare un esempio concreto, dell’impatto che la sola presenza di un link in una pagina web ha già determinato sulla percezione del sapere (o, meglio, quanto meno, sulla percezione dell’accesso a un sapere affidabile, sulla costruzione delle attese mentre si sceglie di accedere a un sapere, sulla usabilità del sapere per sé, in tutti i processi di interpretazione e attribuzione di valore al possesso del sapere, sull’uso delle strategie cognitive impegnate nei processi di selezione e discriminazione). Le citazioni riportate qui di seguito, in maniera puramente rappresentativa, sintetizzano riflessioni proposte da studiosi di provenienza culturale diversa.

Il sociologo Manuel Castells sostiene che «la nostra è davvero un’epoca di grandi cambiamenti. Nell’ultimo quarto del XX secolo, una rivoluzione tecnologica incentrata sull’informazione ha trasformato il nostro modo di pensare, produrre, consumare, commerciare, amministrare, comunicare, vivere, morire, far la guerra e far l’amore».[1] L’analisi di Castells, malgrado le intenzioni dichiarate, non osserva in profondità l’impatto delle trasformazioni sul pensiero o sulla qualità dell’esistenza o sulla comunicazione dell’uomo; egli preferisce osservare nuovi stili di vita o comunicativi, abitudini individuali e sociali in via di consolidamento, nuovi atteggiamenti di micro- e macro-gruppi, implicazioni socio-economiche. E altrettanto fa un altro sociologo, Jan Spurk (2014, pp. 8-9), che afferma: «La riflessione sui futuri possibili deve in primo luogo analizzare le ragioni per cui gli individui si iscrivono nel mondo esistente, per poi prendere in esame il suo superamento possibile e per analizzare il desiderio, la speranza e i tentativi dei soggetti di vivere in maniera indipendente, di intraprendere “i cammini della libertà”»; per lui, è necessario oggi mirare «alla comprensione delle contraddizioni vissute dagli individui, delle contraddizioni tra le loro visioni del mondo e le esperienze vissute, tra i loro tentativi di adattamento e d’insediamento nel mondo sociale e la difficoltà di trovarvi un posto».[2] In altre parole, dall’ambito sociologico riceviamo suggerimenti e interessanti letture di scenari effettivi o possibili (le metafore baumaniane di modernità liquida o la metafora sempre baumaniana dello sciame di individui dai bisogni insaziabili ne sono esempi obiettivamente rilevanti), tuttavia generali, capaci solo indirettamente di proporre strumenti di analisi e lettura del tema per noi centrale.

Particolarmente orientate alla valutazione quantitativa delle implicazioni del cambiamento e a volte portatrici di punti di vista intensamente pessimisti sono le voci di psicologi e neuropsichiatri. Manfred Spitzer, psichiatra tedesco famoso nel suo Paese per il fatto di raggiungere, attraverso trasmissioni televisive, un numero elevatissimo di connazionali, è autore di Demenza digitale. Come la nuova tecnologia ci rende stupidi.[3] Nella voluminosa pubblicazione, Spitzer menziona – spesso senza citare chiaramente le fonti – le innumerevoli ricerche che testimonierebbero quanto l’uso del digitale, il tempo e lo spazio vissuti in setting virtuali, l’ingresso dei giochi tecnologici nella vita privata di adulti e minorenni, avrebbero prodotto; essi si sarebbero sostituiti alle sostanze psicotrope, tanto che, solo in Germania, «all'incirca 250.000 soggetti tra i 14 e i 24 anni soffrono di dipendenza da Internet, altri 1,4 milioni sono considerati internauti problematici. Sono dati del rapporto annuale redatto da Mechthild Dyckmans, responsabile del dipartimento per le dipendenze patologiche del governo federale tedesco, pubblicato il 22 maggio 2012. Mentre il consumo di alcol, nicotina e persino di droghe leggere e pesanti ha fatto registrare una diminuzione, la dipendenza da computer e da Internet sta aumentando drammaticamente».[4]

Per Spitzer, i problemi provocati dalla presenza delle tecnologie digitali non si esauriscono con la dipendenza. La lista delle sue raccomandazioni è lunghissima; di fatto, egli sostiene che «l’utilizzo del computer nei primi anni della scuola ma­terna può provocare disturbi dell’attenzione e successiva­mente dislessia. In età scolare si registra un incremento dell’isolamento sociale, come dimostrato da studi america­ni e tedeschi. [...] I media digitali rendono superficiale il pensiero, distraggono e inoltre presentano effetti collaterali indesiderati, che vanno da semplici disturbi fino alla diffu­sione della pedopornografia e della violenza. [...] Nei giochi per computer si tratta prevalentemente di propensione alla vio­lenza, desensibilizzazione verso la violenza reale, isolamen­to sociale e un livello inferiore d’istruzione. [...] Insonnia, depressione e dipendenza sono effetti estremamente pericolosi del consumo di media digitali. [...] i media digitali  [...] fanno ingrassare, rendono stu­pidi, aggressivi, soli, malati e infelici».[5] Bisogna dire che il modello narrativo di Spitzer non è molto affidabile perché, accanto alle sue dichiarazioni, non compaiono approfondimenti, non viene elaborata alcuna analisi di significati, alcuna attribuzione di senso; in breve, egli non spiega, non descrive, ma mette solo in guardia rispetto a un’area vastissima di possibili problemi, associa elementi non contigui (l’uso di sostanze psicotrope e l’uso di internet). In sostanza, sceglie, alternandoli, o un modello narrativo che fa parte di una tradizione socio-culturale piuttosto superata, che non attraversa l’ambiente nel quale vive, oppure un modello narrativo che si fa scudo di qualche nozione di neurobiologia per impressionare o disorientare il lettore.

 

È un cambiamento profondo che chiede un rinnovamento alle scienze dell’educazione

Sarebbe invece stato, sì, rilevante e interessante, ad esempio, riflettere su possibili, effettivamente problematici, aspetti: ad esempio, un accesso temporaneo e saltuario al sapere, uno stile comunicativo rapido, concreto e mai simbolico, uno stile espressivo fondato su un lessico estremamente ridotto, un’attenzione concentrata sull’azione e non sul significato, uno stile di memorizzazione centrato sulle procedure e non sui contenuti, uno stile di pensiero sintetico piuttosto che analitico, un’interazione sociale costante o la percezione di essere sempre online e dunque sempre “in società”, la necessità di mediare fra un sé privato/pubblico e l’immagine di sé percepita e vissuta, uno stile sociale che permetta di mediare fra molteplici appartenenze a gruppi diversi su chat, blog e app. In breve: il modello narrativo di Spitzer non permette di riflettere né sull’impatto del cambiamento sugli stili sociali e individuali di generazioni giovani e adulte, né sull’apprendimento come percezione e costruzione di significati, né sulla complessità dell’umano, né sull’attribuzione di senso alla percezione del ruolo individuale e sociale di ognuno.

Voci interessanti e molto più indicative, allo stesso tempo sostenute da una lettura scientifica e capaci di dare indicazioni concrete, provengono invece dall’ambito pedagogico; in termini rappresentativi, le voci di Franca Pinto Minerva e Rosa Gallelli propongono nuovi fondamenti e nuovi obiettivi per la formazione di un individuo capace di usare un pensiero previsionale e creativo: «disponibile a interpretare e vivere la transitorietà come dimensione del tempo sensorialmente per­cettibile, come stato d’animo che investe il rapporto con le persone, i luoghi, le cose, il flusso inarrestabile delle informazioni».[6] La loro analisi si fa più profonda quando rilevano che «le reti computerizzate sollecitano [...] un tipo particolare di pensiero. Qui, infatti, lo sviluppo di una serie di tecniche – interattività in tempo reale e simulazione (realtà virtuale, telepresenza e teleroboti­ca), multimedialità, ipermedialità –, sollecitando il superamento delle specializzazioni sensoriali tipiche dei media gutemberghiani a favore, invece, di un coinvolgimento senso-percettivo e cinestesico globale, apre la possibilità futura di inedite implementazioni cognitive. L’oriz­zonte, infatti, è quello di nuove interessanti forme di integrazione fra la dimensione simbolico-rappresentativa e le risorse multisensoriali e sen­so-motorie del corpo».[7] Le scienze dell’educazione, in quanto scienze dell’umano, hanno bisogno di analisi profonde e commenti che, come questi ultimi, permettano riflessioni e approfondimenti supplementari. La didattica ha bisogno di analisi profonde che consentano a chi insegna di essere sempre in grado di spiegare significati, interessare, incuriosire e motivare.

Sostanzialmente, i fenomeni e i processi fin qui sinteticamente indicati fanno indiretto riferimento alla dimensione della materializzazione; in altre parole, a prescindere dal taglio pessimistico o ottimistico di commenti e analisi, al centro delle riflessioni presenti in letteratura sono gli effetti che sugli individui hanno il globalismo, il consumismo, la rarefazione dei legami, la liquidità dei significati, l’approssimazione dei contenuti e dei linguaggi che li esprimono. Eppure, in direzione opposta sembrerebbe essere orientata proprio colei alla quale si attribuisce da tempo la responsabilità della materializzazione della spiritualità, dell’idealità, delle fedi, dei rapporti umani, dei principi e dei valori.

In altre parole, la tecnica, dopo avere prodotto pura materializzazione, si sarebbe ri-orientata, seguendo un lento, graduale e apparentemente inevitabile percorso e in aperta contraddizione di sé, producendo prevalentemente sofisticazione, manipolazione, modellazione, virtualizzazione, sbilanciamento del rapporto fra la realtà concreta e le sue rappresentazioni. Autori diversi paventano il rischio della progressiva ridefinizione dei rapporti fra tangibile e intangibile, concreto e virtuale, permanente e instabile, materiale e immateriale: «È credibile, nel senso di verosimile, che la nostra realtà futura diventerà un mondo costituito solo di pre­senze ineffabili, un mondo privo di materialità e di fisicità? [...] Personalmente, non ne sono convinto. Vi è in questo scena­rio qualcosa di fortemente controintuitivo. La plasticità dell’homo sapiens è, per certi versi, sbalorditiva, ma questa volta – consentitemi di dirlo – si esagera. [...] Si dimentica che il nostro rap­porto di esperienza individuale e collettiva con la fisicità del mondo non può essere cancellato con un colpo di bacchetta più o meno magica. Fa ormai parte di noi stessi, in quanto noi siamo, biologicamente ma anche culturalmente parlando, il risultato di un processo filogenetico in cui, come si sa, il sud­detto rapporto di esperienza ha avuto un ruolo determinante. [...] È assai probabile che dietro il discorso sulla dematerializ­zazione si nasconda, ancora una volta, un abuso metaforico, e che quello che si vuol dire sia qualcosa di diverso».[8]

Quanto meno, afferma Maldonado, anche se dovessimo accettare l’idea per la quale le immagini ad alta fedeltà sembrerebbero assumere un ruolo dominante rispetto alla realtà tangibile e visibile, è improponibile pensare a un impatto totalizzante della dematerializzazione perché il nostro cervello, certamente produttore di oggetti esclusivamente immateriali, è comunque materiale, concreto, strumento, mezzo, sistema, attore, analizzatore, osservatore di immagini e linguaggi iconografici riconosciuti o da riconoscere. In altre parole, una cosa è l’eventualità di non poter toccare con mano, altra è la vera e propria dematerializzazione della realtà:

  • un alter ego digitale può risultare plausibile, altro è ritenere che il nostro mondo sia virtualizzato o virtualizzabile;
  • la frequentazione di ambienti virtuali non obbliga né allo straniamento nel nostro rapporto con il reale, né all’allontanamento dal reale, né all’estraniamento.

Certo, potranno cambiare le nostre abitudini, ma il risultato delle nostre azioni o delle nostre scelte non potrà essere camuffato o simulato. Anzi, forse sarebbe necessario riflettere sulle possibilità che il frequentare la realtà virtuale sia in grado di arricchirci a livello cognitivo, esperienziale, strumentale, percettivo. A questo proposito, Tomás Maldonado afferma: «Alla domanda: “Le realtà virtuali sono esperienze?”, io non esiterei a rispondere affermativa­mente. Sono consapevole che, così facendo, mi espongo all’accusa di flagrante contraddizione nel mio modo di trattare l’argo­mento. Da un lato, denuncio il fatto che, a parer mio, le realtà virtuali ci allontanano dall’esperienza; dall’altro, sono dispo­sto ad ammettere che esse cadono, per dirla con le medesime parole di Dennett, all’interno e non fuori dei confini dell’espe­rienza.

È vero, i due assunti non collimano tra loro. Si dimen­tica però che la contraddizione è nello stesso oggetto esami­nato. Vi è infatti un’ambivalenza di fondo nelle realtà virtuali. Anzi, in tutta la cultura della virtualità. Si tratta però di un’ambivalenza con la quale noi dobbiamo fare i conti se vo­gliamo (come vogliamo) resistere alla tentazione di interpreta­re unilateralmente il fenomeno».[9] Nella sostanza, come afferma anche Maldonado, è arrivato il momento di chiudere la diatriba fra chi sostiene che la realtà è la realtà nella quale ci muoviamo e possiamo muoverci, e chi sostiene che le tecnologie siano solo produttrici di finzioni. La realtà virtuale senza dubbio impone di riconsiderare il nostro legame e la nostra percezione della realtà corporea e fisica, ma definisce ambienti nei quali l’esperienza umana è possibile, sollecita le competenze analitiche e sintetiche dell’osservatore, così come l’uso di ulteriori strategie cognitive, ovvero di denominazione, classificazione, categorizzazione, differenziazione, rappresentazione, astrazione, simbolizzazione, ecc.

Certo, se osserviamo esclusivamente i casi nei quali l’unica tecnologia usata è il videogioco che invade e pervade, nessun dubbio può esistere. Ma se ci poniamo un dubbio e immaginiamo la quantità di giovani individui che usano, sperimentano, manipolano le tecnologie, ne riconoscono le procedure d’uso senza avere bisogno di leggere i libretti delle istruzioni, ne socializzano i contenuti e le strategie, allora, un barlume di ragionevolezza sicuramente comparirà. Il dubbio potrà spingere a vedere che il virtuale è penetrato nella realtà delle nuove generazioni; che la differenza rispetto alla percezione del virtuale da parte delle generazioni precedenti è profonda; che le nuove generazioni sanno benissimo distinguere fra vero e falso, fra realistico e finto, sanno attribuire alla virtualità un ruolo all’interno della realtà, sanno definire la sua funzione rappresentativa e sanno riconoscerne la veste di ambiente possibile di azione. Sanno benissimo che il tempo dei giochi tecnologici basati sul cliché del punteggio premio per ogni risposta corretta è finito. Così come sappiamo ormai tutti che la didattica assistita dal computer è fortemente propulsiva di una percezione del sapere del tutto nuova, perché la manipolabilità, la curiosità, l’interesse sono in grado di ridurre le distanze fra soggetto che agisce e soggetto che conosce. O, per dirla con Maldonado, fra learning by doing e learning by using.[10] Inoltre, «si fa strada un nuovo modo di dialogare, di scambiarsi opinioni, idee o sentimenti. Si ammette la necessità di distinguere il momento del parlare da quello dell’ascoltare. [...] Nasce la conversazione razionale, un modo diverso di interazione verbale. In breve: l’oralità ragionante contrapposta all’oralità poetante. L’atto di parlare e di ascoltare diventa sempre meno fluido, sfuggente e imprevedibile. L’ordine logico-semantico sottostante alla scrittura, la linearità implicita nel rapporto tra antecedente e conseguente, tra premessa e conclusione, si fanno sentire nella pratica del parlare e dell’ascoltare. Il linguaggio, diciamo, si testualizza, e perde così, nei fatti, gran parte della sua autonomia, quell’autonomia di cui, per millenni, aveva goduto in un mondo senza scrittura. [...] Nell’uomo orale, nell’uomo che parla e ascolta, si trova in nuce l’uomo scrivente, l’uomo che scrive e legge».[11]

E, per di più, le nuove modalità di comunicare, alle quali si riferisce realisticamente Maldonado, hanno già determinato nuovi accorgimenti funzionali e strutturali da parte del cervello, pronto, come sempre, a confermare la sua plasticità e ad accettare nuove sfide. Il semplice fatto di scrivere testi secondo procedure diverse di rapida modificabilità e riusabilità non elimina la necessità di un soggetto che scrive, di uno strumento per scrivere e di un supporto sul quale scrivere. E nemmeno annulla l’azione di sistemi diversi, poiché quelli percettivo-motorio, sensoriale, muscolare, cognitivo, nervoso continuano a essere impegnati e a richiedere l’uso di strategie cognitive che coinvolgono e richiedono l’azione dell’analisi, della sintesi, della codificazione, della decodificazione, della rappresentazione, della sequenzialità logico-argomentativa, ecc. Ma senz’altro richiedono un impegno diverso delle competenze mnestiche e procedurali che con tutte quelle strategie sono in costante interazione processuale. E nemmeno azzera il contributo dello strumento utilizzato per scrivere, perché, come tutti gli altri strumenti usati dall’uomo nella storia, ha sue peculiari caratteristiche concrete, rituali, procedurali e simboliche di maneggevolezza, affidabilità, efficacia, soprattutto partecipa all’elaborazione del pensiero e ha modalità diverse di interromperne il flusso e la scorrevolezza. E, come dicevo, nemmeno può essere percepito come la penna e i suoi antenati, puri e concreti prolungamenti della mano, che sono o sono stati gli strumenti di una scrittura caratterizzata da «a) linearità descrittiva monodirezionale del flusso narrativo o argomentativo; b) consequenzialità logica [...]; c) compiutezza [...]; d) chiusura [...]. In contrasto, la scrittura elettronica definisce i suoi propri aspetti positivi in termini di non-linearità, non-consequenzialità, non-compiutezza e non-chiusura. Bastano queste due opposte caratterizzazioni per capire appieno l’oggetto in discussione? No, certamente. Pur ammettendo che esse, in astratto, sintetizzano molto bene la differenza tra i due tipi di scrittura, si rivelano invece troppo generiche, e talvolta persino poco convincenti, quando si passa a esaminarle in concreto. La prima cosa che colpisce è che gli studiosi [...] non tengono conto della diversità dei contesti a cui tali caratterizzazioni fanno riferimento. Si privilegiano, per esempio, i testi letterari, in particolare di narrativa, mentre quelli di saggistica (filosofici, storici e scientifici) vengono solo marginalmente esaminati. Il che forse si spiega, almeno in parte, con il fatto che i teorici della scrittura elettronica provengono, nella stragrande maggioranza, dall’insegnamento delle lingue, della scrittura, della letteratura e della retorica».[12]

Tutte le caratteristiche che Maldonado ha citato a proposito della scrittura ipertestuale elettronica – non linearità, non consequenzialità, non compiutezza, non chiusura –, rispetto alle caratteristiche esattamente opposte del testo scritto tradizionale, sono quelle che a noi in questa sede interessano particolarmente, perché ben si addicono all’idea di un professionista dell’educazione impegnato a usare, fornire, commentare strumenti di lettura. Di fatto, dopo avere definito le trasformazioni possibili nella percezione del testo scritto su libro e del testo ipermediale, sia in termini di strategie cognitive e procedurali sia in termini di estensione fisica della mano e del corpo, è utile verificare se e come si modifica anche il rapporto fra autore e lettore o autore e fruitore, ovvero fra i due attori che percepiscono il testo come prolungamento del loro pensiero, come luogo all’interno del quale far intervenire i loro sistemi mnestici, il loro ragionamento, i loro itinerari narrativi e quindi l’ideazione di schemi, mappe e diagrammi che rappresentino l’intera struttura narrativa.

La principale conseguenza da prendere in esame è evidentemente da collegarsi alla centralità dell’autore e alla perifericità del lettore, o, meglio, alla possibilità di integrare un testo originario con interventi successivi di lettori che partecipano alla creazione come co-autori di un testo collettivo. Se da una parte è difficile immaginare contributi diversi assolutamente coerenti con le intenzioni di tutti i co-autori e con il piacere della lettura di tutti i co-lettori, dall’altra è tuttavia interessante riflettere sulla struttura che l’ipertesto assume con le sue connessioni o rimandi interni o link, perché i diversi apporti comunque costituiscono l’integrazione di testi personalizzati, di rappresentazioni personalizzate, di procedure e stili mnestici individuali. In altre parole, per sintetizzare: non scompare, nell’elaborazione di un ipertesto, la posizione determinante dell’autore originario, che comunque definisce una traccia iniziale e può condizionare gli itinerari narrativi dei successivi autori; certo, scompaiono la sua posizione esclusiva, la sua autorità indiscussa, la sua autonomia assoluta. Non vengono modificate le strategie e le procedure cognitive impegnate nell’elaborazione, nella codificazione e nella decodificazione, e nemmeno quelle sollecitate dai sistemi mnestici;[13] certo, le necessità di integrare connessioni e link volutamente o casualmente selezionati e scelti, di rappresentare e categorizzare sinteticamente le direzioni narrative, di ragionare in termini di relazioni collettive o contemporaneamente micro- e macro-collettive, modificano profondamente sia la percezione del sé individuale che la percezione del sé sociale, sia i linguaggi che i codici linguistici, sia gli stili comunicativi che gli stili espressivi, sia le relazioni sistemiche esistenti fra memoria, reminiscenza e mente. Non scompare la qualità del contributo emotivo proposto da ogni autore e ogni lettore, così come non scompare la narrazione del privato personale. Ma cambiano, soprattutto, tre dimensioni.

La prima: la memoria individuale e la memoria collettiva diventano pubbliche, integrate, rappresentative, sintetiche di processi cognitivi ed elaborativi diversi.

La seconda: la possibilità che l’autore e il lettore siano visibili, possano incontrarsi o essere incontrati in tempo reale, ne modifica la percezione, la rappresentazione, la distanza, l’identità.

La terza: si trasforma la percezione dello spazio della scrittura, del luogo al quale può accedere chiunque, ovunque sia, del luogo che fisicamente è stato percepito con riferimenti topografici del tutto diversi da quello della scrittura su personal computer; e, di conseguenza, soprattutto, si conferma un’indicazione di rilevante importanza: il virtuale diventa spazio d’azione, per tutti gli autori e i lettori coinvolti nell’elaborazione del testo ipermediale.

Perché, dunque, se la conoscenza del mondo è indispensabile per bambini e adolescenti, in nome del loro graduale e complessivo sviluppo in sintonia con quanto li circonda, dovremmo solo pensare che l’uso delle tecnologie sia deleterio, visto che di quel mondo, anzi, della scuola parallela, fanno parte? Perché, dunque, se l’uso delle tecnologie sollecita competenze più raffinate, amplifica le opportunità di espressione creativa, incrementa le opportunità di relazione con se stessi e con l’altro, dovremmo ridurre l’accesso delle nuove generazioni alle tecnologie? Le uniche risposte plausibili sarebbero:

  • perché l’uso delle tecnologie rischierebbe di limitare il coinvolgimento diretto, sensoriale, motorio, cognitivo, relazionale di bambini e adolescenti;
  • perché l’uso delle tecnologie, di conseguenza, medierebbe l’interazione diretta con il mondo e ridurrebbe le opportunità di relazione con il mondo che rendono il bambino, almeno fino ai quattro anni, iperattivo e incapace di frenare la sua curiosità e la sua esplorazione;
  • perché l’uso delle tecnologie ridurrebbe gli indispensabili spazi e i necessari tempi di concentrazione e di riflessione dai quattro anni in poi;
  • perché l’uso delle tecnologie, e soprattutto dei videogiochi, da una parte ridurrebbe le opportunità di sperimentare importanti competenze logiche, analitiche, sintetiche, strategiche, metodologiche, dall’altra potenzierebbe non indispensabili competenze intuitive e limiterebbe le competenze strategiche alle sole capacità tattiche;
  • perché l’uso delle tecnologie, e soprattutto dei videogiochi, spingerebbe a uniformarsi a un uso meno competente della lingua madre, a impoverire le risorse del lessico, a limitare un uso rappresentativo della lingua tramite l’adozione di simboli grafici alternativi, a contribuire all’indebolimento di competenze relazionali significative.

Molti autori sottolineano che proprio in queste considerazioni sarebbe presente il nodo cruciale da mettere in relazione con l’uso libero delle tecnologie multimediali da parte di bambini e adolescenti. In altre parole, gli strumenti tecnologici non permetterebbero né esplorazione, né concentrazione, e nemmeno la sperimentazione di competenze selettive impegnate nel prestare attenzione a fonti di interesse diverse e a dare loro un valore e un significato. Pertanto, in sostanza, i media determinerebbero in bambini e adolescenti una passività mentale e corporea che impedirebbe loro la percezione del mondo reale, li distrarrebbe e provocherebbe i problemi di disattenzione e isolamento; come si vede, anche approfondendo in termini scientifici il problema, il punto di approdo delle riflessioni adulte è sempre lo stesso: a bambini e adolescenti le tecnologie, e soprattutto i videogiochi, fanno male perché li disorientano e li annichiliscono. Naturalmente, tutto questo consentirebbe di:

  • confermare che, per i minori, il percorso che porta alla trasformazione della realtà esterna in realtà interna, in termini di processi di elaborazione delle informazioni, dovrebbe essere niente di più che un processo inconsapevole di selezione di qualche aspetto poco significativo al posto di un altro altrettanto poco impegnativo;
  • far rilevare che le capacità di ragionamento di bambini e adolescenti, inferenze e inferenze percettive, analisi, sintesi e deduzioni comprese, dovrebbero essere limitate e potenziare indeterminatezza e scarse dotazioni intuitive;
  • confermare la povertà emotiva di adolescenti e bambini, la loro povertà mnestica nell’associare e selezionare fonti di informazione, informazioni e dati; la mancanza di autoconsapevolezza emotivo-affettiva; la limitata capacità di comprendere i significati che definiscono stili di vita e di pensiero;
  • confermare l’annichilimento di rappresentazioni simboliche e l’impossibilità di fare riferimento a significati, valori e principi;
  • ribadire che le relazioni sociali e i modelli di comunicazione adottati da bambini e adolescenti sono basati su assenza di dialogo interiore e mancanza di capacità introspettive;
  • infine, confermare che l’adulto educatore non è più in grado – mentre lo ha sempre fatto in passato grazie alle sue competenze formali/informali/non formali – di spiegare usabilità e ri-usabilità, stili comunicativi ed espressivi, valori, principi, rischi.

In sintesi, la posizione deludente dell’adulto nell’uso impegnato di strumenti culturali, tecnologici e linguistici ha un’elevata responsabilità in relazione a tutti i problemi che sono stati segnalati. Le tecnologie, è importante ribadirlo, devono rimanere strumenti, non importa se culturali o didattici. Comprendere quanto l’uso degli strumenti multimediali da parte delle nuove generazioni possa modificarne l’approccio al sapere o le strategie cognitive e comportamentali impegnate è altrettanto importante. Ma che gli strumenti innovativi della contemporaneità invadano o pervadano menti e corpi di bambini e adolescenti è una questione sulla quale è necessario riflettere con maggiore profondità: i videogiochi non sono prodotti da adolescenti; il tempo speso di fronte a un personal computer o a un laptop non dipende solo dalla scelta o dalla volontà di bambini e adolescenti; come per ogni altro strumento della relazione con la realtà o con l’apprendimento, il nodo cruciale è sempre da mettere in relazione con organizzazione, impostazione, approccio, atteggiamento educativi e formativi consapevoli.

 

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[1] M. Castells, Volgere di millennio, Milano, EGEA, 2003, p. 10.

[2] J. Spurk, Futuri possibili. Dell’edificio, della facciata e degli abitanti della società, 2014, pp. 8-9.

[3] M. Spitzer, Demenza digitale. Come la nuova tecnologia ci rende stupidi, Milano, Corbaccio, 2013.

[4] M. Spitzer, Demenza digitale. Come la nuova tecnologia ci rende stupidi, op. cit., p. 5.

[5] M. Spitzer, Demenza digitale. Come la nuova tecnologia ci rende stupidi, op. cit., pp. 21, 54-55, 83, 94-95, 178, 235, 281.

[6] F. Pinto Minerva e R. Gallelli, Pedagogia e post-umano. Ibridazioni identitaria e frontiere del possibile, Roma, Carocci, 2004, p. 44.

[7] F. Pinto Minerva e R. Gallelli, Pedagogia e post-umano. Ibridazioni identitaria e frontiere del possibile, op. cit., p. 88.

[8] T. Maldonado, Reale e virtuale, Milano, Feltrinelli, 1994, pp. 11-12.

[9] T. Maldonado, Reale e virtuale, op. cit., pp. 58-59.

[10] T. Maldonado, Reale e virtuale, op. cit., pp. 74-75.

[11] T. Maldonado, Memoria e conoscenza. Sulle sorti del sapere nella prospettiva digitale, Milano, Feltrinelli, 2005, pp. 53-54.

[12] T. Maldonado, Memoria e conoscenza. Sulle sorti del sapere nella prospettiva digitale, op. cit., pp. 63-65.

[13] Per una loro classificazione e definizione, si veda V.A. Piccione, Mappe educative e formative 2. Orizzonti di senso, Roma, Aemme, 2013, pp. 165-191.




Autore per la corrispondenza

Vincenzo A. Piccione
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ISSN 2421-2946. Pedagogia PIU' didattica.
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