Test Book

Soggetti sociali e bisogni educativi / Subjects social and educational needs

Volti d’infanzia nella cultura pedagogica contemporanea. Tra cronaca e storia
Faces of childhood in contemporary pedagogical culture. Between news and history

Andrea Bobbio

Professore Associato di Pedagogia Generale e sociale



Sommario

La relazione tra immaginario sociale e teoria pedagogica è strettamente interrelata, come dimostra la storia dell’educazione nei suoi snodi cruciali: da Comenio, Rousseau, Pestalozzi fino a Korzac. Oggi il volto del bambino angelicato, oppure demone, retaggio della stagione medioevale, ha lasciato posto a visioni pedagogicamente più controllate ma non scevre da rischi ed ambivalenze. Sono i volti del bambino della ragione (Piaget, Bruner, Gardner, Gopnik), traguardato soprattutto nella prospettiva cognitiva, oppure del "piccolo tiranno" figlio del narcisismo degli adulti. Il contributo, nella prospettiva teoretica, traccia i diversi volti dell’infanzia contemporanea proponendo quadri ermeneutici per la sua interpretazione in senso pedagogico.

Parole chiave

Pedagogia dell’infanzia, infanzia, sviluppo del bambino, storia dell’educazione infantile, scienze dell’educazione.


Abstract

The relationship between the children’s social image and education is close and lasting, as widely demonstrated by the history of education. Comenio, Rousseau , Pestalozzi upto Korzac are the foundation of such an awareness. The child’s demon face - the medieval one - exposed to sin and death or the angelic, metaphysical image have nowadays given way to other representations of the childhood, being pedagogically more controlled though not less risky. They are the faces of the cognitive child (Piaget, Bruner, Gardner, Gopnik), a child seen only under a functional or intellectual sense (without desire and imagination) or the little tyrant, slave of the narcissistic delirium of his parents and prisoner of their emotional blackmail. The article - from the perspective of the general (therefore theoretical) pedagogy - draws the portrait the of the contemporary image of childhood providing the coordinates for its interpretation.

Keywords

Early Child Education and Care, infancy, child development, history of child education, sciences of education.


Tra «bambino creativo» e «bambino della ragione»

Il bambino come soggetto pedagogico costituisce un oggetto tematico dissodato dall’intero complesso delle scienze dell’educazione. Dalle discipline antropologiche a quelle storiche fino a quelle filosofiche e giuridiche le suggestioni circa il puer attraversano l’immaginario pedagogico contemporaneo disegnando un soggetto dotato, progressivamente, di peculiarità e prerogative (psicologiche, sociali, culturali, deontiche, teleologiche) sue proprie (Demozzi, 2016). Anche le scienze della natura, da quelle bio-mediche a quelle igieniche fino a quelle schiettamente neurobiologiche, hanno tratteggiato le caratteristiche dell’educabilità umana nelle prime età della vita avvalorandone gli attributi di competenza e di ricettività, componenti, peraltro, già evidenziate in maniera intuitiva dai classici dell’educazione: da Rousseau a Fröbel fino a Maria Montessori.

Sotto il profilo neurobiologico, oggi, il bambino appare ben più di una «scimmia nuda» come descritto da Morris; il suo comportamento è infatti ben supportato da meccanismi neuronali innati in grado di generare una sintonizzazione primaria con l’ambiente a sua volta foriera di interazioni umane precoci, capaci di attivare schemi motori, affettivi e cognitivi di livello progressivamente sempre più elaborato e flessibile. Schemi e comportamenti le cui finalità, pur adattive, mostrano precocemente inclinazioni e posture esistenziali verso il mondo originali, uniche, che attendono dall’adulto riconoscimento, autenticazione, promozione e rilancio. Da qui l’urgenza, come rileva Dozza, di «coltivare fin dalle prime età della vita qualità umane evolute come: pro-socialità, comprensione, ascolto e comunicazione intenzionale, cooperazione, autoconsapevolezza emotiva, riflessione» (Dozza, 2016, p. 64).
La disposizione originaria dell’uomo verso l’educazione – oggi così attuale alla luce degli studi di neurofisiologia dell’intersoggettività – attesta inoltre quel presupposto dialogico già prefigurato da Autori quali Mounier e Buber: in principio è il Noi, generato dal rapporto autentico Je-Tu. L’Io emerge solo in seconda battuta, come l’immagine riflessa in uno specchio che, progressivamente, assume sembianze sempre più distinte, individuate, che disvelano la fisionomia di un volto che, nella crescita, si chiarifica e si svela a se stesso e al mondo. Questa è l’avventura della formazione come propensione dell’uomo ad assumere la propria più intima forma, una forma che lo stesso soggetto, progressivamente, va chiarendosi come progetto, impegno e tensione dialettica. Mente e affetti, natura e cultura, sé e altro, costituiscono dunque le polarità che indicano come osmotica e costitutiva dell’identità del soggetto la relazione, intesa come condizione indispensabile affinché le disposizioni all’educabilità possano essere attuate secondo tutte le loro direzioni possibili. Da ciò si comprende come l’uomo, intrinsecamente, sia un sistema complesso e come la complessità, la retroazione, la probabilità in luogo della ben più determinata causalità stimolo-risposta, innervi l’interpretazione più attuale di tutti i fenomeni culturali e educativi, ivi compresi quelli infantili. Emblema di tale nuova epistemologia dell’umano è la complessificazione del paradigma piagetiano che, da Bruner in poi, attraverso la lezione di Vygotskij, si apre in senso più sociale, depotenziando la sua curvatura genetica a tutto vantaggio di quella transattiva ed ecologica. È proprio dall’attraversamento delle cornici eco-sistemiche, con i loro diversi coefficienti rifrattivi e diottrici, che nascono le immagini complesse e soggettive del mondo, quindi la pluralità delle interpretazioni e delle rappresentazioni dei diversi attori sociali implicati nella relazione educativa. Dalla contaminazione di tali costrutti, dalla negoziazione delle tante narrazioni sociali circa l’infanzia, nascono poi le transazioni educative, che distillano e condensano nozioni di pedagogia implicita, ingenua, informale, mescolandole con assunti più scientifici e paradigmi di tipo istituzionale. Di qui il progressivo raffinarsi del volto attuale del bambino competente, coi suoi correlati comportamentali di stupore, ingenua meraviglia, attitudine euristica, esplorativa e cinestesica, co-orientamento percettivo con l’adulto e con i pari di riferimento, in una costante transazione tra immaginario sociale e riflessione scientifica (ma transazione, anche, tra pratiche, saperi impliciti di genitori ed insegnanti, messaggi mediali).
Il quadro qui prefigurato costituisce l’approdo di un percorso storico-teoretico complesso, le cui terminalità, scaturigini tanto dell’immagine del bambino epistemico (Piaget, Vygotskij, Bruner, Gardner) quanto quella del bambino pulsionale (Sigmund ed Anna Freud, Klein, Dolto), affondano le loro radici negli scoscesi terreni della storia dell’infanzia (Becchi e Julia, 1995) con tutte le sue latenze e i suoi interdetti (Bobbio, 2010; Ulivieri e Covato, 2001).

Volti di infanzia nella cultura contemporanea. Persistenze e transizioni

Come rileva Marina D’Amato, la modellistica sociologica mostra che, per pensare l’infanzia, gli adulti utilizzano per lo più quattro principali rappresentazioni, con molteplici varianti e qualche ibridazione: l’infanzia come mancanza, l’infanzia come condizione d’innocenza, l’infanzia come tema da analizzare attraverso la scienza e l’infanzia che considera il bambino come soggetto (D’Amato, 2014, p. 32).
Analogamente alla sociologia, la filosofia dell’educazione ricava i suoi paradigmi attraverso il giustapporsi di polarità dialettiche (antinomie). Si veda, ad esempio, Mantegazza per il quale l’infanzia può essere pensata attraverso un sistema di opposizioni: in primo luogo la coppia ignoranza/potenzialità, laddove si orientano verso il primo termine concezioni d’infanzia che vedono nel bambino una tabula rasa, e quindi le pedagogie istruzionaliste, verso il secondo concezioni educazioniste, che scorgono nel bambino le tracce celate dell’adulto possibile. In secondo luogo la coppia colpa/innocenza che, a sua volta, dà luogo alla coppia di atteggiamenti possibili redenzione/perversione: se l’infanzia è il regno dell’innocenza (e dunque della nostalgia) allora ogni educazione è perversione; se il bambino è già colpevole fin dall’inizio allora un «buon» intervento educativo vale a redimerlo; l’istruzionalismo radicale e l’anti-istruzionalismo/anti-intellettualismo, l’educazionalismo moralistico e il nichilismo antipedagogico costituiscono forse le quattro diagonali di un quadrilatero ai cui vertici possiamo collocare le quattro concezioni riassunte sopra e possiamo diversamente orientare sulle diagonali i sistemi pedagogici centrati sull’istruzione o quelli centrati sull’educazione, quelli salvifici e quelli apocalittici (Mantegazza, 2000, p. 219).
Lungo le coordinate individuate da Mantegazza e D’Amato possiamo situare le polarità dialettiche che hanno orientato in Occidente l’immaginario pedagogico circa il bambino e la sua educabilità riscontrando, ancora una volta, come i fenomeni della violenza occulta, dell’ambivalenza, nei confronti di un soggetto – il bambino – comunque bisognoso di cura, quindi di impegno, fatica educativa, investimento materiale, simbolico e culturale, si mescolino a un «sentimento d’infanzia» che, progressivamente, si carica dei toni della tenerezza, dell’affetto, dell’«amore pensoso». Oggi si torna poi alla centralità dell’infanzia e della pubertà nell’esperienza formativa recuperando traiettorie di carattere deontologico già care alla pedagogia romantica: «al bambino non devono essere date tutte le conoscenze necessarie alla vita, ma devono essere rispettate quelle condizioni di maturazione e di sviluppo che non pregiudicano la possibilità della mente di continuare ad apprendere per tutta la vita» (Fabbri, 2016, p. 264).

Ambivalenze

Georges Snyders, nel suo libro Il n’est pas facile d’aimer ses enfants (Snyders, 1985, p. 13), ravvisa come, fin dai tempi più antichi, il bambino sia considerato un essere inferiore: Aristofane, sfruttando il fatto che i Greci chiamino il loro schiavo «bambino», realizza un gioco di parole tra il termine παι̃ς e la parola παίεσυαι (farsi battere). Il fatto che in Grecia esista uno stesso nome per lo schiavo e il bambino, che il bambino sia battuto come uno schiavo e che lo stesso pedagogo sia uno schiavo privato, inoltre, accredita la tesi della minorità della condizione infantile.
L’infanzia nel medioevo, come ha mostrato anche Giallongo (1990), è una zona contigua al peccato e alla morte: l’ossessione di battezzare immediatamente i lattanti nel Medioevo e in età moderna scaturiva dalla convinzione che gli infanti, nati con il peccato originale, non potessero entrare in Paradiso senza il Sacramento. Anche per la dottrina calvinista il rapporto tra infanzia e peccato è immediato e inderogabile: «non si è mai saputo di nessun bambino [scriveva un autore della Nuova Inghilterra] che fosse privo di disposizione al male» (cit. da Wolfestein, 1963, p. 212), e ogni bambino, poiché «nato interamente perverso, è destinato alla perversità per tutta la sua vita, se non gli è data la guida rigida e vigile dei genitori, e se, infine, non sarà la Grazia a salvarlo» (Hide, 1830). La natura moralmente perversa dell’infanzia, anche per il cristianesimo, non era completamente neutralizzata dal battesimo: il piccolo restava «sempre incline al peccato, incapace di resistere alle tentazioni, privo di capacità di discernimento, legato ai bisogni della carne incapace di controllare i suoi impulsi e di dominare le sue deboli membra» (Polenghi, 2001, p. 13). Da qui le metafore orto-pedagogiche di cui è costellato il linguaggio educativo: raddrizzare, incanalare, contenere, indirizzare attraverso supporti normalizzanti poiché rettamente costituiti.
Come scrive Giallongo, tuttavia le ricerche sui bambini santi, oblati e miracolati (Finucane, 1997), le numerose pubblicazioni in Italia e in Europa sulla storia dell’infanzia, delle bambine, sulla famiglia, sulla vita quotidiana, sul gioco, sulle infanzie trascorse nei vari gruppi sociali, hanno rimesso in discussione l’idea della povertà emotiva del Medioevo (Giallongo, 2010, p. 57).
Il cristianesimo, pur considerando il bambino un soggetto così debole e concupiscibile, mai privò l’infanzia delle sue prerogative positive: fin dai primi secoli d. C. i Padri della Chiesa si opposero all’infanticidio ed è significativo che, dopo il concilio di Vaison (422 d. C.), vi fosse l’obbligo di annunciare in chiesa il ritrovamento di un bambino abbandonato. Questa attenzione per l’infanzia, che culturalmente si innesta sull’esplicita testualità della Buona Novella, contribuisce al superamento dell’imago del bambino in età classica (i «figli della rupe Tarpea» e gli innumerevoli infanticidi della mitologia greca) e comporta, addirittura, il considerare lo stato di bambino come conditio sine qua non per l’accesso al Regno dei Cieli .
Ambivalenti sono dunque i volti di infanzia ritratti nella Bibbia e che Mantegazza ci restituisce nel suo studio Al passo dei fanciulli (2015). Ecco che allora l’immagine del bambino – oltre che specchio della limitatezza della condizione umana ‒ «quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l’ho abbandonato» (1 Cor. 11) ‒ viene trasfigurata, eletta a icona di perfezione morale e di spiritualità anche per gli adulti. Afferma Comenio: «Oh possiate voi, amati fanciulli, valutare appieno questo vostro celeste privilegio! Ecco, vostra è tutta la dignità che ancora rimane al genere umano, vostro è il diritto che ancora il genere umano ha sulla patria celeste […]. Ecco, noi adulti che stimiamo uomini noi soli, e voi scimmiette, sapienti noi soli, e voi stolti; eloquenti noi soli, e voi incapaci di parlare; ecco, noi siamo rimandati alla vostra scuola! E voi ci siete dati come maestri; i vostri atti ci sono posti innanzi come modello ideale dei nostri» (Komensky, 1977, p. 8).
Dello stesso tono delle parole di Comenio sono quelle di Fröbel: «anche dei bambini è il regno dei cieli; poiché essi si abbandonano con infantile fiducia all’istinto di dare forma, di agire che è in essi, purché non li disturbino gli adulti con la loro saccenteria e stravaganza» (Froebel, 1993, p. 30).
L’infanzia, oltre che stagione del sentimento, della purezza, della piena ricettività educativa, per i romantici è anche un tempo con un suo intrinseco valore kairologico, il tempo idoneo per sperimentare la lievità del gioco in un ambiente affettivamente ricco, moralmente impegnato ed esteticamente rilevante. Conseguentemente, la didattica e l’azione dell’adulto negli ambienti educativi per l’infanzia – che divengono, dalla seconda metà dell’Ottocento, oltre che la famiglia, prima il Kindergarten poi, superati gli asili aportiani, la scuola dell’infanzia – dovranno mirare a preservare nel bambino l’unitarietà delle sue linee di sviluppo – affettiva, sociale, intellettuale, spirituale, motoria, estetica – rispettando la sua relazione organica con la vita e il vivente. Quello di Comenio, di Rousseau e di Fröbel è un eco che si prolunga lungo tutto l’umanesimo pedagogico e che trova riscontri fino a quasi ai nostri giorni. Pensiamo a Marcello Peretti che scriveva: «il bambino è presenza umana senza colpa, senza peccato, senza malvagità […], lo spirito dell’infanzia è assolutamente contrario alla brutalità, e alla violenza; non conosce la seduzione del denaro, l’avidità del possesso, il rancore, il calcolo vendicatore, la follia dell’omicidio. Esso è invito a quel tipo di relazioni in cui dominano l’affidamento personale, la confidenza, la fiducia, il bisogno della protezione, il godimento dell’altro in quanto riscontro di ansie e riscontro a vitali attese» (Peretti, 1978, p. 5).
La cifra ambivalente dell’infanzia, con una nuova interpretazione, anche morale, di questa età della vita, ci è restituita agli inizi del Novecento dalla psicoanalisi che, con Freud, accede ai segreti dell’infanzia tramite il rimosso dell’adulto. Illuminato da tale prospettiva il volto bambino mostra il suo profilo nascosto e insondato: «finché il metro della valutazione della realtà umana è designato dalla coscienza, l’esperienza infantile rimane, per così dire, in ombra e poco ha da rivelare; ma se indagata con la metodologia psicoanalitica la sua zona d’ombra evidenzia subito dei chiaroscuri, dei rilievi così contrastanti da lasciarci stupefatti o, addirittura, increduli» (Peretti, 1978, p. 123).
Segreti che rimandano a una sessualità (ancora) perversa e polimorfa, a un linguaggio – quello pre-verbale – strutturato secondo la semantica dei sogni e del suo simbolismo; a un mondo ancorato al principio di piacere che si esprime nelle logiche del gioco, soprattutto quello simbolico, che precede l’età della latenza e che si sviluppa molto precocemente (pensiamo al gioco del rocchetto descritto da Freud nel secondo capitolo del volume Al di là del principio del piacere). Proprio il gioco, dispositivo insieme catartico e sublimatorio, congegno posticipante di una gratificazione istintuale sempre più da dilazionare attraverso l’educazione, costituisce il vero dispositivo analizzatore di un’infanzia colta anche nella sua radicale problematicità. Attraverso il filtro della ludicità la psicoanalisi, soprattutto con Anna Freud, mostra l’incerto incedere dell’uomo verso una mai pienamente raggiunta adultità. Tale cammino è dipinto con i toni cupi della vergogna e della colpa (Erickson), del senso della perdita e dell’abbandono (Bowlby, Winnicott), dell’inesausto contrasto tra principio di piacere, soggetto alla legge del godimento, e principio di realtà, che consente l’adattamento sociale a patto «della rinunzia alla completa soddisfazione dei bisogni» (Marcuse, 1968, p. 65). Secondo tale prospettiva proprio l’educazione, attraverso una ben pianificata sequela di castrazioni simboliche controllate, nell’incerto navigare tra la Scilla del lasciar fare e Cariddi del divieto frustrante, è chiamata a perseguire quell’optimum, «in modo che essa possa ottenere il massimo e nuocere il minimo» (Freud, 1978, p. 545). Qui il bambino esemplifica l’impossibile pedagogico: il paradosso dell’educare all’autonomia in una relazione di dipendenza, tema, questo, oggetto di tanti fraintendimenti tra pedagogia e psicoanalisi, malintesi ancora oggi non definitivamente chiariti e appianati.
Il Novecento, pur non essendo stato pienamente il secolo dei bambino così come preconizzato dalla Key, è stato pur sempre l’età dei diritti (N. Bobbio). Sono i diritti delle donne, delle minoranze, dei disabili e, naturalmente, dei bambini. Anche questi ultimi, dunque, divengono soggettualità giuridiche, con un proprio statuto e proprie prerogative, che assumono un valore pedagogico nella misura in cui sono illuminati dalle acquisizioni dall’ormai maturo complesso delle scienze dell’educazione, non ultima la citata psicoanalisi nella versione più aggiornata delle relazioni oggettuali affermatesi dopo la svolta kleiniana con Autori quali Winnicott, Bion e Fairbairn.
Il profilo sociale dell’infanzia, dunque, si modifica ancora e, alla fine del secolo scorso, denota un soggetto – il bambino – contrassegnato da specifici profili di educabilità che rimandano a prescrizioni deontiche normativamente organizzate secondo un canone non più adulto-centrico. È il volto di un’infanzia competente, che ha il diritto di essere coinvolta nelle questioni che la interessano; che presenta un suo profilo politico; che possiede peculiarità proprie che vanno recepite per essere rettamente intese; che va ascoltata e debitamente interpretata. Un’infanzia, dunque, pensata come meno fragile e più partecipativa di un tempo; in grado anche di abitare il disincanto di relazioni familiari sempre più fragili ed effimere; capace di capitalizzare le transazioni, i caregiver multipli; abitatrice del mondo dei media, rapita dai suoi pericoli e dal suo incanto; vivificata dagli incontri extrafamiliari sperimentati in una pluralità di servizi educativi non più articolati sul solo paradigma asilo nido-scuola dell’infanzia. Nidi tematici, spazi famiglia, ludoteche, scuole a diverso indirizzo, nonché nuovi servizi di fruizione culturale (acquari, laboratori, atelier, centri sportivi, centri estivi, ambienti di apprendimento linguistico intensivo) arricchiscono oggi l’offerta formativa per un bambino sempre più affannato ed impegnato che, nelle fasce più abbienti, rasenta limite della saturazione percettiva e dell’iperstimolazione cognitiva.
Come in uno specchio, tuttavia, verso la fine degli anni Novanta, si sviluppa un altro filone di studi, che alla questione dei diritti contrappone il tema del bambino che esorbita da quegli stessi diritti che gli sono stati riconosciti in modo incoerente e disorganizzato da una società sempre più centrata sull’avere piuttosto che sull’essere . È il volto di un bambino troppo esigente (di affetto, di tempo, di attenzione, di stimoli, di riconoscimenti) per adattarsi al mondo sociale, è l’immagine del «bambino tiranno», affettivamente immaturo, figlio della società del narcisismo (Lasch) e della crisi del principio di autorità, vittima di un’asimmetria che non riesce più ad assolvere la sua funzione genitoriale, di natura normativa, regolativa e mentalizzante (Bion, Stern). Pensiamo, a tal proposito, ai temi dell’evaporazione della figura del padre, teorizzata da Lacan e ripresa recentemente da Recalcati, o della psicopatologia o della sociopatia infantile, che non di rado incrocia temi squisitamente educativi connessi alla relazione di cura nelle attuali costellazioni familiari. Scrive ad esempio Marcelli riferendosi a bambini sempre più difficili: «non è raro che i genitori di questi bambini allentino le relazioni sociali perché, quando c’è gente, questi bambini sono odiosi: interrompono la conversazione degli adulti, rispondono loro se questi fanno loro un’osservazione, combinano guai in continuazione tanto che i genitori trascurano gli amici e finiscono per smettere di uscire perché molto spesso è impossibile affidarli a un baby-sitter o persino ai nonni: inscenano una commedia tale al momento della separazione o di andare a letto che nessuno vuole tenerli» (Marcelli, 2003, p. VIII).
Questa deriva verso il disadattamento dell’infanzia, esito di un complesso di ragioni ampiamente dissodate dalla sociologia contemporanea, trova una sua inedita sottolineatura nelle Indicazioni 2012, che rimarcano esplicitamente:
“l’attenuazione della capacità adulta di presidio delle regole e del senso del limite e sono, così, diventati più faticosi i processi di identificazione e differenziazione da parte di chi cresce e anche i compiti della scuola in quanto luogo dei diritti di ognuno e delle regole condivise” (Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo dell’istruzione, Miur 2012).

Conclusioni

La cifra problematica della pedagogia dell’infanzia, il suo insistere in un ambito liminale ove sconfinano i saperi impliciti degli educatori naturali (le folk pedagogy) e le conoscenze più scientificamente controllate; le teorie etnoparentali socialmente costruite, prevalentemente elaborate «al femminile» e le ideologie il costume che regolano le transazioni tra famiglie e servizi per l’infanzia professionalmente progettati e gestiti rende questo sapere carsico e metamorfico allo stesso tempo, quindi bisognoso di un’incessante storicizzazione. Pensiamo alle transizioni indotte dalle nuove forme di socializzazione infantile ‒ asilo nido, nuovi servizi per l’infanzia ‒ , che ci restituiscono immagini di infanzia meno passive e dipendenti di un tempo e avvalorano l’immagine del bambino come essere intrinsecamente valido e attivo, interlocutore reale nei suoi rapporti con il mondo, con l’adulto e con gli altri bambini.
Gli studi più recenti, in particolare, elaborati per lo più nei contesti educativi extradomestici, stanno dimostrando con sempre maggiore evidenza che il piccolo è attivo, che esso stesso modella le azioni dei suoi interlocutori, che lui medesimo è agente di socializzazione, e che, in fondo, il processo della crescita è un reciproco intreccio di domande e risposte dove è indebito definire priorità, egemonie, sottomissioni. Ciò comporta lo sviluppo di metodologie di ricerca educativa in grado di minimizzare la reificazione dell’infanzia (la ricerca sui bambini) per approcciarne altre, capaci di valorizzare il punto di vista del bambino attraverso tecniche euristiche che consentano un processo dinamico di scambio non direttivo tra piccoli e adulti che insieme elaborano e negoziano significati. Lo sfondo di tali ricerche – e non potrebbe essere altrimenti – è oggi sempre più ecologico, situato e partecipato, con intersezioni non secondarie con l’etnografia, l’antropologia culturale, la sociologia dell’infanzia. Proprio i rivolgimenti sociali contemporanei, con il loro correlato multiculturale, hanno concorso a delineare un’infanzia più plurale di un tempo, diversificata, nei suoi destini, non soltanto dal ceto e dall’estrazione sociale dei genitori ma innervata, ancora più in profondità, da differenze culturali profonde e radicate. Migrazioni, diaspore, sradicamenti e ri-germinazioni, identità multiple e simultanee contraddistinguono i profili di una cittadinanza fattasi sempre più globale. Infanzie, dunque, ma anche bambine e bambini, accompagnati o non, da adulti (e dalle loro teorie etnoparentali) sempre più bisognosi di un supporto per una genitorialità fattasi, progressivamente, sempre più faticosa e complessa. Di qui le nuove sfide per la pedagogia dell’infanzia, in un processo co-costruttivo e de-costruttivo sempre in fieri e in divenire.
Pur con queste caratterizzazioni la pedagogia dell’infanzia muove anche lungo altri crinali non strettamente riconducibili alla ricerca empirica in ambito sociale e tradizionalmente ascritti all’ambito della riflessione culturale: da quelli teorici, dissodati ad esempio da Cambi, Frabboni, Bertolini, Papparella, Scurati e associati alla tradizione epistemologica della pedagogia generale a quelli dello studio degli ambienti educativi e delle loro qualità didattiche, fino all’elaborazione di modelli d’infanzia storicamente persistenti nei costrutti basici dell’educazione (Gecchele, Polenghi e Dal Toso, 2017). Un panorama variegato e poliedrico, quindi, in cui il sapere pedagogico è chiamato ad assumere costantemente un ruolo di vaglio critico dell’esistente e prospettico, cioè orientato verso il futuro, secondo il duplice registro dell’attesa (che l’altro, il bambino, si manifesti secondo il suo modo di essere) e della proposta, affinché il tempo per essere – l’infanzia – non sia soltanto vuota attesa e stravagante erranza.

Bibliografia

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Sitografia

http://www.indicazioninazionali.it/documenti_Indicazioni_nazionali/indicazioni_nazionali_infanzia_primo_ciclo.pdf  (consultato il 06/03/2018)




Autore per la corrispondenza

Andrea Bobbio
Indirizzo e-mail: a.bobbio@univda.it
Università della Valle d’Aosta, Strada Cappuccini, 2A - 11100 Aosta


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