Test Book

Soggetti sociali e bisogni educativi / Subjects social and educational needs

Il gioco delle parti nel rapporto fra minori e operatori nel procedimento penale minorile: la promozione di valori positivi da parte dell’educatore
The play of the parties in the relationship between minors and operators in the juvenile criminal proceedings: the promotion of positive values by the educator

Sara Di Canosa

Dottore di ricerca in Progettazione e valutazione dei processi formativi



Sommario

Il minore è lui stesso “parte” principale, non oggetto di interventi ma soggetto che in qualche modo provoca “un gioco” di competenze. Questo “gioco delle parti” appare particolarmente evidente nel procedimento penale minorile. L’assunzione da parte del minore di un ruolo di protagonista può assumere delle valenze positive di crescita, laddove anche gli operatori sappiano assumere responsabilmente il proprio ruolo. Per verificare questo gioco delle parti si sono voluti raccogliere i pensieri di alcune figure che sono impegnate quotidianamente con i minori autori di reati, focalizzando l’attenzione sugli aspetti del circuito penale come momento di trasgressione, di rottura, di sofferenza, ma anche di crescita del ragazzo. L’insieme degli interventi che vengono analizzati nell’articolo fa emergere molteplici possibilità e idee che se realmente integrate, possono costruire una base per reimpostare i rapporti e condividere sostanzialmente “la nostra parte di adulti nella relazione con il ragazzo”.

Parole chiave

Minore, operatore, mettersi in gioco.


Abstract

The minor is himself the main "part", not the object of some interventions but a subject that in some way provokes a "game" of competences. This "game of the parties" appears particularly evident in the juvenile criminal proceedings. The child's assumption of a leading role can assume positive growth values, where even the operators know how to take their role responsibly. To verify this game of the parties, we wanted to collect the thoughts of some figures who are committed daily with the lesser ones who are authors of offenses, focusing attention on aspects of the criminal circuit as a moment of transgression, of rupture, of suffering but also of growth of the boy. The set of interventions that are analyzed in the article, brings out multiple possibilities and ideas that if really integrated, can build a basis for resetting relationships and substantially share "our part of adults in the relationship with the boy".

Keywords

Younger, operators, get involved.


Il mio interesse nei confronti del mondo minorile con le sue mille implicazioni ha le sue radici nel percorso di studi di un corso di Laurea finalizzato alla formazione dell’educatore nell’ambito del disagio minorile. L’acquisizione di questi saperi mi ha fortemente motivata anche durante il biennio specialistico portandomi a concludere il corso di studi con l’approfondimento della tematica dell’educatore penitenziario. Infine gli anni del dottorato mi hanno permesso di approfondire ulteriormente l’universo penale minorile.
Il minore è lui stesso “parte” principale, non oggetto di interventi ma soggetto che in qualche modo provoca “un gioco” di competenze che, a seconda del tema che si deve affrontare, si sviluppa e si delinea. Questo “gioco delle parti” (Accettulli et al., 2008) appare particolarmente evidente nel procedimento penale minorile. L’assunzione da parte del minore di un ruolo di protagonista può assumere delle valenze positive di crescita, laddove anche gli operatori sappiano assumere responsabilmente il proprio ruolo. Per verificare questo gioco delle parti si sono voluti raccogliere i pensieri di alcune figure che sono impegnate quotidianamente con i minori autori di reati, focalizzando l’attenzione sugli aspetti del circuito penale come momento di trasgressione, di rottura, di sofferenza ma anche di crescita del ragazzo. I pensieri degli operatori ci portano a riflettere sulla necessità di cambiare qualcosa nell’impostazione del rapporto con i minori, palesemente critici e scettici nei confronti dei giudizi dati loro dagli adulti. L’insieme degli interventi che seguono fa emergere molteplici possibilità e idee che se realmente integrate, e non solo a livello operativo, possono costruire una base per reimpostare i rapporti e condividere sostanzialmente “la nostra parte di adulti nella relazione con il ragazzo”.

 

Assistente sociale
Pensieri critici:
- “a me è affidato il compito di elaborare un programma che possa garantire al minore un’opportunità educativa”;
- “per conoscerci abbiamo bisogno di un tempo almeno sufficiente a non creare situazioni troppo sbagliate e non sono sicura di riuscire a pretendere questo tempo”;
- “colgo il rischio che gli incontri con persone, servizi, istituzioni, non si rivelino significativi”;
- “i programmi che sviluppiamo sono troppo complessi, troppi sono gli attori, troppe le distanze, troppi gli intervalli”.
Pensieri possibili:
- “c’è bisogno di rendere concreta una condizione di frequentazione, di confidenza, è necessario esercitare un’abitudine al rapporto che ti provochi il bisogno di interagire”;
- “è importante dare spazio alla scelta del minore, ma essere sicuri che scelta sia, e quindi opzione fra diverse alternative che non sempre sono già parte della sua esperienza. Per garantire questo, dobbiamo non tanto saper parlare il suo linguaggio, quanto piuttosto saperci immettere nei suoi sistemi di frequenza che sanciscono l’esclusività della relazione”;
- “è importante saper inventare una relazione capace di integrare, completare, perfezionare, rinforzare il nostro rapporto nella pratica della quotidianità che costituisce il suo luogo reale (Accettulli et al., 2008)”.

 

Psicoterapeuta
Pensieri critici:
- “chi sei ragazzo che mi incontri spesso su indicazioni di altri, che mi guardi a muso duro chiudendo dentro il tuo silenzio la rabbia e il dolore dei tuoi agiti?”;
- “cosa vuoi capire tu, psicologo, con le tue teorie, le tue ipotesi? Tu vuoi entrare nella mia vita, dentro ai miei segreti, perché? Cosa mi dai in cambio? Tu mi vuoi trasformare, vuoi farmi pensare che quanto mi succede non è un incidente derivante dalla sfortuna, ma il segno di qualcosa che si è spezzato dentro, come una richiesta di aiuto. Quale aiuto? Si chiede aiuto a chi si conosce, si chiede aiuto a un amico, non a uno sconosciuto, in un momento in cui tutti hanno qualcosa da dirti, tra senso di colpa e dovere di riparazione”.
Pensieri possibili:
- “quale verità posso chiederti ragazzo? Come posso farti capire la mia disponibilità a proporti una lettura dei fatti spesso molto lontana dalla verità che ti sei narrato o che altri ti hanno indotto a credere? La verità possibile che si radica nella tua storia nelle tue paure che, rispettando la tua storia, ti propone una verità sostenibile, da cui partire per una nuova narrazione di te”;
- “ti chiedo di credere che puoi ripristinare il “cielo sereno”, se lo vuoi posso con te cercare di andare in quel luogo in cui si trova il senso del nostro agire, nel luogo in cui si intravede uno spiraglio oltre il concreto quotidiano, quel luogo che è un po’ più vicino alla verità dei tuoi desideri, all'intensità dei tuoi bisogni, quel luogo in cui nascono i pensieri, che danno senso alle azioni e ci permettono di valutarle. Posso dirti che condividere tutto ciò è un azzardo ma anche un grande piacere”.

 

Insegnante
Pensieri critici:
- “a me è affidato il compito di fornirti tutti quegli strumenti che ti permetteranno di “guidare” la tua vita attraverso le mille opportunità che essa potrà offrirti”;
- “sei diffidente, sei “stufo” che siano gli altri a decidere cosa devi sapere, cosa devi fare, allora come facciamo?”.
Pensieri possibili:
- “metto da parte l’ossessione del programma ministeriale da rispettare secondo scadenze prestabilite, non perché non sia importante, ma perché, alla fine, saprai ugualmente tutte le cose indicate dal programma ma le avrai apprese con i tuoi tempi e attraverso un percorso diverso dal solito. Il percorso dettato dalla tua curiosità e dal tuo interesse”;
- “ti metterò di fronte a una realtà che appartenga al tuo vissuto quotidiano, sarai tu, al momento opportuno, a chiedermi lo strumento che ti manca per comprenderla bene e io imparerò da te e con te”;
- “sarai co-artefice e protagonista del tuo apprendimento”.

 

Avvocato
Pensieri critici:
- “il mio compito è quello di spiegarti cosa l’Ordinamento della Giustizia ha pensato, per far sì che questo “incidente” nel quale sei stato coinvolto possa per te trasformarsi in un momento di recupero delle tue potenzialità positive”;
- “ti ascolto per comprendere come tu stia vivendo questa esperienza e dalle domande che mi fai capisco il tuo grado di preoccupazione o il tuo atteggiamento di sfrontatezza”;
- “e dopo averti ascoltato penso a come intervenire per farti capire che la “legge” ti vuole offrire, in prima battuta, una grande opportunità che è quella di sottrarti al circuito giudiziale vero e proprio”.
Pensieri possibili:
- “assieme affronteremo il processo nella reciproca consapevolezza che ciò dovrà costituire per te l’occasione per consentirti di allontanarti da certi stili di vita scegliendone altri”;
- “questa è la scommessa che io faccio quando assumo la tua difesa ed è una scommessa che possiamo vincere solo in collaborazione con altre figure professionali che ti dovranno affiancare nella costruzione della tua identità sociale”.

 

Volontario
Pensieri critici:
- “caro ragazzo, il mio compito è osservarti, e dimostrarti che ho fiducia in te, crederti, ma nello stesso tempo controllarti. Il mio compito è difficile, siete tanti e ognuno ha il suo carattere, la sua esperienza”;
- “le tue esperienze, la tua vita fino ad ora, ti hanno insegnato a non fidarti né degli adulti, né del gruppo dei coetanei, quelli che tu hai scelto per dimostrare che sei grande, capace, forte, ribelle”.
Pensieri possibili:
- “ti hanno parlato il poliziotto, l’assistente sociale, l’avvocato, hai sentito il giudice, il p.m. e io, ora, sono qui con te per dimostrare che sei, che siamo in grado di superare la “prova”;
- “per ora vorrò soprattutto ascoltarti, ascoltare le tue parole, i tuoi silenzi, le tue ribellioni e cercare di non importi, ma offrirti la mia fiducia, visto che sono convinto che anche in te ci sono tanti lati positivi che fino a ora hai voluto tenere nascosti. Vuoi che proviamo assieme? è quello che voglio e posso offrirti”.

 

Educatore
Pensieri critici:
- “lavorare come educatore in comunità significa necessariamente anche vivere in comunità, e ciò sconvolge completamente il tuo essere uomo o donna”;
- “in ogni ragazzo c’è un vuoto educativo, un’assenza vitale, questa scoperta drammatica ti impedisce di condannare ulteriormente”;
- “la condanna avviene e deve avvenire perché la legge non ammette ignoranza, ma la chiave non si getta, non si può far correre il tempo senza intuire il bisogno”;
- “sono voci da dentro quelle che urlano, che desiderano padri e madri, che chiedono cultura, che implorano felicità vera”.
Pensieri possibili:
- “professionisti sì, ma anche persone vere, che non hanno timore di gettare la maschera poiché hanno scoperto già, a suo tempo, quel sale di felicità e lo vivono con le gioie e i dolori di ogni giorno”;
- “non si impara nelle aule universitarie a gestire la sofferenza, è una sensibilità che non si compra, ma si costruisce nel tempo con crisi e verifiche, condivisioni e conversioni quotidiane”;
- “sono in grado di educare così? I ragazzi lo sentono, sanno se li ami e ridare loro fiducia dopo un errore è un gesto mosso da sensibilità umana”;
- “il potere immenso che esercitiamo ogni giorno sulla vita di altre persone è una grande responsabilità e la sensibilità è una componente necessaria”.

 

Queste testimonianze rappresentano il lavoro concreto che ogni giorno gli operatori del sociale svolgono nei confronti dei minori, ma soprattutto rappresentano le emozioni e i sentimenti che suscitano in loro e che devono saper fronteggiare. È stato opportuno prendere in considerazione sia i punti critici del loro lavoro che le possibili prospettive educative al fine di rendere visibile un lavoro svolto da professionisti che molto spesso continuano a essere visti come una professione socialmente “debole” (sul piano dell’attribuzione-connotazione-riconoscimento di professionalità), con compiti “forti” (sul piano delle potenzialità operative nello stimolare-attivare-sostenere processi di cambiamento). Tale contraddizione esplode prepotentemente nel contesto penale e penitenziario soprattutto per il ruolo dell’educatore, dove, a fronte di compiti e funzioni complessi richiesti dall’organizzazione, è ancora oggi poco definito, incerto e per questo “fragile”.
L’educatore della giustizia minorile opera in diversi contesti (fisici, relazionali, simbolici) e in ciascuno di questi si relaziona con diversi altri soggetti: il minore, i poliziotti penitenziari, gli operatori titolari delle diverse attività “trattamentali”, la famiglia, la magistratura, gli altri operatori delle équipe. In ciascuno di questi contesti l’educatore attiva determinate azioni pedagogiche riconducibili alle seguenti categorie: accogliere, informare, sostenere, orientare, accompagnare il minore.
L’attività di accoglienza del minore è costituita dalla fase informativa e da quella del sostegno.
Informare per l’educatore significa innanzitutto porsi in una posizione di ascolto del ragazzo (Dell’Antonio, 1990), dei suoi bisogni e delle sue ansie di conoscenza del contesto istituzionale, ma significa anche cominciare a porre le premesse perché la relazione col ragazzo stesso possa diventare pedagogicamente significativa, con i limiti di tempo e di contesto esistenti (Patrizi, 1995). Importante in questa fase diventa anche spiegare al ragazzo l’organizzazione della vita carceraria, con le sue regole, gli orari delle attività, dei pasti, del riposo, dei colloqui con i familiari. È fondamentale che l’attività informativa si svolga parallelamente al sostegno psicologico e affettivo.
Dopo la fase dell’accoglienza, l’educatore accompagna il minore nel proseguo del suo percorso giudiziario, individuando e aiutandolo ad attivare risorse e progettualità. Assumono particolare rilevanza le funzioni di promozione e orientamento svolte dall’educatore, nel quadro del reinserimento sociale del minore. Tali funzioni si esplicano nel promuovere, stimolare il minore verso una “ri-scelta” della scuola o di un corso di formazione professionale, verso una “ri-scelta” e ricerca del lavoro, o verso lo svolgimento di attività socialmente utili. La restituzione al sociale dei giovani ristretti non può essere un obiettivo del solo educatore ma deve riguardare l’intera équipe. L’educatore deve quindi lavorare nel/sul contesto con l’obiettivo di tendere al superamento e alla trasformazione della cultura e delle dinamiche tipicamente carcerarie. Per affrontare questo discorso dovremmo cominciare a riflettere sul fatto che i meccanismi che stanno alla base dell’esclusione non riguardano soltanto gli stranieri, ma coinvolgono tutti coloro che vivono ai margini della società. In realtà dovremmo sempre chiederci se l’emarginazione è una dimensione soggettiva o oggettiva. Siamo noi che decidiamo chi è emarginato? Ma l’emarginato sa di esserlo? Se ci occupiamo di stranieri, la loro percezione dell’emarginazione è evidente e dichiarata. Ma se per esempio osserviamo un minore affiliato alla criminalità organizzata questi non si sente affatto escluso. Tutt’altro! Di conseguenza proporgli di rientrare nella società civile diventa un’impresa. Perché dovrebbe accettare di essere incluso? Perché dovrebbe accettare di essere recuperato? Queste categorie per il minore non hanno senso, perché un affiliato si sente incluso e non ha nulla da recuperare. Smantellare questo complesso sistema di credenze è la cosa più difficile, perché si tratta di intervenire su un struttura cognitiva ben radicata. La percezione della legalità di chi ha vissuto nel sistema della devianza, assorbendone gli stili in famiglia fin dall’infanzia, è compromessa. Un intervento di recupero per favorire l’inclusione sociale dovrebbe basarsi sull’analisi dello sviluppo morale deviante e sull’allontanamento dai modelli di apprendimento devianti. È possibile, dunque, produrre recupero sociale attraverso l’esclusione sociale? È possibile includere attraverso l’esclusione? E qui sorge il paradosso dell’inclusione: per favorire il recupero e l’inclusione sociale dovremmo programmare l’esclusione dal sistema di riferimento familiare e culturale. La crisi d’identità diventa inevitabile e, quando si dice che ai collaboratori di giustizia si fornisce un’altra identità, non stiamo parlando soltanto di un'operazione anagrafica (Abruzzese, 2011). Occorre infatti sottolineare che l’adolescente non è mai un “oggetto neutro”, ma un soggetto che “suscita emozioni, provoca valutazioni, rievoca immagini anche personali” (Malagoli, Togliatti e Ardone, 1993); di conseguenza l’educatore deve possedere gli strumenti per riuscire a interpretare, decodificare e comprendere ciò che avviene nella relazione con l’adolescente sapendone riconoscere e gestire il vissuto. L’incontro, quindi, tra educatore e ragazzo dovrebbe essere l’occasione per avviare un nuovo sistema di significati attraverso la sperimentazione di una relazione più costruttiva con il mondo degli adulti. Condizione indispensabile perché tutto questo possa avvenire è che l’educatore si metta “in gioco”, cioè che “si ponga come un adulto che non si situa semplicemente al di là dell’adolescenza, ma si lasci da questa interrogare” (Fabbrini e Melucci, 1992). Naturalmente, di questo processo di co-evoluzione fanno parte tutti gli attori sociali sia dei micro-contesti relazionali del minore, sia dei macro-contesti della società globale. La capacità dell’educatore di contestualizzare ogni volta l’intervento educativo dipende in gran parte dalle competenze professionali acquisite in varie dimensioni tra loro interagenti:
a) l’analisi delle organizzazioni;
b) l’analisi della domanda e dei contesti.

In primo luogo occorre sottolineare che fare un’analisi organizzativa significa considerare l’organizzazione come una realtà dinamica da indagare e comprendere, “continuamente e variamente animata da individui e gruppi, attivi al suo interno con propri interessi e comportamenti finalizzati, con strategie diverse, mutevoli nel tempo, difficilmente generalizzabili e soprattutto difficilmente riducibili a variabili dipendenti” (Kaneklin e Olivetti Manoukian, 1990). Significa conoscere le due facce tipiche di un’organizzazione: la struttura (con i suoi ruoli, leadership, regole, procedure, controlli) e il clima (prodotto dai modelli di comunicazione, dalle regole di comportamento, dai sistemi di valutazione dai risultati e di distribuzione delle ricompense). L’educatore deve, quindi, acquisire competenze per saper “leggere” un’organizzazione, per sapersi muovere con maggiore consapevolezza all’interno della sua struttura, tra le sue dinamiche. Inoltre, significa saper cogliere la “cultura dell’organizzazione”, cioè quei “modelli di comportamento a cui nell’organizzazione individui e gruppi si rifanno sia nelle loro interazioni interne, sia nelle interrelazioni con l’ambiente esterno” (Bruscaglioni e Spaltro, 1990). Se l’educatore ha chiari i quadri di riferimento organizzativi è più probabile che sappia gestire in modo più costruttivo e consapevole la propria operatività. Alla formazione professionale, dunque, il fondamentale compito di fornire gli strumenti all’educatore per saper come tenere presenti tutti gli aspetti di un’organizzazione, saperla conoscere, sapersi muovere in essa senza ingenuità, saper collocare il proprio lavoro all’interno delle sue caratteristiche e delle sue dinamiche. Tutto ciò permette all’educatore non solo di avere maggiore consapevolezza rispetto alla quotidiana operatività, ma anche di difenderlo dai rischi di “delirio di onnipotenza” o all’opposto, di senso di impotenza e fallimento, con i correlati rischi di “burn-out” .

In secondo luogo occorre evidenziare che l’analisi della domanda e dei contesti può essere riferita sia all’organizzazione in cui si opera sia a specifici confini organizzativi che si ha interesse a conoscere prima indipendentemente da un particolare intervento, e poi in rapporto diretto con l’esigenza di costruire un intervento su ben definiti problemi, casi, situazioni (De Leo, 1995). Questo è il livello di complessità in cui si trova a operare l’educatore. Egli dovrà prestare molta attenzione a cogliere le domande implicite, le richieste, le aspettative del servizio di appartenenza e dei vari interlocutori con cui si confronta. L’educatore deve imparare a interrogarsi, a riflettere sui significati contenuti in alcune scelte operative del servizio (ad esempio è importante essere presente in istituto la mattina presto al risveglio dei ragazzi? O la domenica mattina?), in certe richieste che fa il giudice (a cosa è finalizzata la relazione chiesta in questa fase processuale?), nelle aspettative del minore (perché mi chiede, adesso, di poter telefonare ai familiari?), nelle richieste della famiglia (perché la madre mi dice che non vuole parlare con l’assistente sociale?).
Un altro atteggiamento che si riscontra nell’operatività dell’educatore, che caratterizza ancora la cultura del lavoro sociale, è progettare interventi sulla persona piuttosto che sul problema. L’idea cioè che gli operatori sociali lavorino con l’obiettivo di ristrutturare il comportamento dell’individuo problematico, piuttosto che lavorare su problemi (personali, relazionali, contestuali). A tutt’oggi vi è ancora eccessiva prevalenza del problem solving rispetto al problem setting. Inoltre l’educatore nel processo di costruzione della sua professionalità deve considerare alcune variabili che sono state evidenziate da Franca Olivetti Manoukian come “nodi problematici cruciali intorno ai quali per i singoli si gioca la possibilità o meno di costruirsi una reale competenza professionale specifica” (Olivetti Manoukian, 1991). Tali nodi problematici possono essere raggruppati in tre livelli:
1. rapporto con gli ideali e i valori: gli ideali se da un lato costituiscono come dei fari, degli elementi assai significativi e illuminanti per l’azione, dall’altro possono portare a processi di idealizzazione che investono gli utenti, l’attività educativa e la stessa organizzazione in cui lavora l’educatore. Infatti il forte rapporto con gli ideali può diventare uno schermo protettivo e distorcente della realtà. Se prevale questo aspetto il lavoro, più che intervento sulla realtà, diventa lotta per affermare ideali in modo militante, combattendo chi non li condivide o non li accetta (Olivetti Manoukian, 1991).
2. rapporto con l’autorità e il potere: Manoukian ci dice che “la relazione educativa “è intrinsecamente disimmetrica e carica di ambivalenza”. Infatti l’educatore possiede il “potere” di influire sul processo penale minorile, in maniera diversa a seconda delle varie fasi giudiziarie. A questo potere va aggiunto quello proprio della relazione educativa, cioè la tendenza a trasmettere inevitabilmente i propri valori, i propri modelli interpretativi della realtà. D’altra parte il minore, specie nel contesto penale, cercherà di mostrarsi il più possibile ricettivo rispetto ai valori e alle prescrizioni comportamentali richieste dall’educatore.
3. rapporto con il compito di lavoro: in un contesto coercitivo la quotidiana relazione col minore deve essere “riempita” di significati. Inoltre i processi di costruzione di rapporti educativi significativi richiedono tempi lunghi e, soprattutto, capacità e competenze dell’educatore, in un contesto in cui quotidianamente bisogna fare i conti con le piccole e grandi esigenze dei minori. Inoltre per l’educatore apprendere dall’esperienza non è “fare esperienza” o “accumulare esperienza” come spesso intende il senso comune, ma significa “mantenere uno sguardo curioso e attento ai risultati raggiunti e alle modalità prescelte in modo da cogliere e utilizzare gli eventuali errori come momento di apprendimento e in modo da valorizzare ed incrementare i successi e i percorsi che li hanno sostenuti” (Olivetti Manoukian, 1991). Gli educatori dovrebbero, quindi, essere formati per sviluppare l’attitudine a programmare, monitorare e valutare il proprio lavoro, a incrementare una dimensione di “ricerca” non scissa dall’intervento ma che, anzi, da questo parte e a questo riconduce. Una ricerca non svincolata, quindi, dalla quotidiana prassi lavorativa, alla quale si attribuisce validità e spessore professionale per apprendere dall’esperienza. La realtà operativa, però, è un’altra: da una parte sta “chi pensa”, ai livelli gerarchici superiori, dall’altra stanno gli operatori cosiddetti “di base”, nei servizi minorili. Questa scissione fra ricerca e intervento porta a “disperdere la ricchezza del patrimonio operativo professionale, culturale, maturato dagli operatori nell’esperienza quotidiana” (Morganti, 1997). Spesso, alla ricerca fatta in sedi diverse dai servizi minorili non segue una “restituzione” dei risultati emersi dalla ricerca stessa, che comporterebbe un arricchimento professionale per gli operatori stessi. Affinché gli operatori dei servizi siano in grado di fare queste riflessioni su se stessi e sul proprio lavoro, la formazione deve fornirgli un metodo per imparare a riflettere sulle esperienze operative fatte e ad apprendere da esse. Una delle metodologie utilizzate in questa ottica è quella della ricerca intervento: “una procedura di indagine strutturalmente collegata agli interventi e finalizzata alla programmazione e alla verifica degli stessi. Si tratta cioè di un tipo di ricerca molto diversa da quella sperimentale, accademica, in cui si cerca di verificare o falsificare dell’ipotesi, senza porsi obiettivi operativi (De Leo, 1990). La ricerca-in-intervento avviene nel contesto operativo, viene fatta da parte degli stessi operatori, e ha lo scopo di raccogliere informazioni e dati, in base a cui impostare politiche di prevenzione, programmi d’intervento e di verificare, di valutare i programmi e gli interventi”.
Tale approccio metodologico, ancora poco utilizzato, si è rivelato senza dubbio proficuo e stimolante in vari contesti operativi (Licciardello, 1994).

Bibliografia

Abruzzese S. (2011), L’emarginazione e l’ottimismo di Saverio Abruzzese, Minorigiustizia, n. 1, p. 17.
Accettulli A. et al. (2008), Il gioco delle parti nel rapporto fra minore e operatore, Minorigiustizia, n. 4, pp. 53-58.
Bruscaglioni M. e Spaltro E. (a cura di) (1990), La psicologia organizzativa, Milano, FrancoAngeli.
Cherniss C. (1983), La sindrome del burn-out, Torino, Centro Scientifico Torinese.
Contessa G. (1987), L’operatore cortocircuito, Milano, Clup.
De Leo G. (1990), La devianza minorile, Roma, Nis.
De Leo G. (1995), La clinica nella psicologia giuridica, in A. Quadrio e G. De Leo (a cura di), Manuale di psicologia giuridica, Milano, Led, p. 450.
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Licciardello O. (1994), Epistemologie e dimensione applicative, Milano, FrancoAngeli.
Malagoli Togliatti M. e Ardone R. (1993), Adolescenti e genitori. Una relazione affettiva tra potenzialità e rischi, Roma, Nis.
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Santaniello M. e Furlotti R. (1992), Servizi territoriali e rischi di “burn-out”, Milano, Giuffrè.

 

Atti legislativi:
Art. 12 disp. proc. pen. min.




Autore per la corrispondenza

Sara Di Canosa
Indirizzo e-mail: saradic@hotmail.it
Università degli Studi di Bari Aldo Moro, Dipartimento di Psicologia e Scienze Pedagogiche e Didattiche


© 2017 Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A.
ISSN 2421-2946. Pedagogia PIU' didattica.
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