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Teorie pedagogiche / Educational Theories

Osservazione educativa. Ricerca di un paradigma
Educational observation. Searching for a paradigm

Maria-Chiara Michelini

Professore Associato di Pedagogia generale e sociale Università degli Studi di Urbino



Sommario

Il presente contributo pone la questione della natura e delle caratteristiche dell’osservazione educativa, anche in relazione all’affermarsi di procedure extra pedagogiche nei contesti formativi. In ordine a tale argomento, si interroga, pertanto, sui profili di scientificità e su possibili paradigmi culturali di riferimento, tenendo presente, sullo sfondo, il rapporto tra pedagogia e altre scienze, con particolare riguardo a quelle dell’educazione. In questa cornice ipotizza che l’osservazione educativa, possa essere definita sistematica, formativa, dinamica e autentica. Questa ipotesi implica una ridefinizione del ruolo della pedagogia sull’argomento, da cui far discendere, peraltro, le possibili opzioni sul piano operativo.

Parole chiave

osservazione, educazione, esperienza.


Abstract

This contribution raises the question of the nature and the characteristics of the educational observation, also in relation to the establishment of extra-pedagogical procedures in educational contexts. Regarding this topic, therefore, we inspect the potential scientific approach and possible cultural paradigms, bearing in mind the underlying relationship between pedagogy and other sciences, particularly Educational Sciences. In this framework, we hypothesize that educational observation can be defined as systematic, formative, dynamic and authentic. This hypothesis implies a redefinition of the role of pedagogy on the subject, from which the possible options at operating level are to be derived.

Keywords

observation, education, experience.


Una breve premessa

Il presente contributo trae spunto dalla constatazione del progressivo incremento di pratiche osservative che si ispirano, o sono espressamente riferite, a paradigmi extra-pedagogici nei contesti educativi, con particolare riferimento a quelli scolastici, ma non solo. Intendiamo alludere in maniera particolare alle molteplici pratiche osservative, anche istituzionalizzate, conseguenti ai processi di progressiva definizione di un’ampia gamma di situazioni riguardanti le persone, soprattutto nei casi di manifestazioni di difficoltà di varia natura (Disturbi Specifici di Apprendimento, Bisogni Educativi Speciali, disabilità, situazioni di vita peculiari come affidamento, adozioni, devianze, dipendenze patologiche, per citare alcuni esempi) o in campi specifici di rilevante interesse educativo quali l’orientamento scolastico e professionale, la selezione, formazione e valutazione per il lavoro, ecc.

In relazione ai diversi quadri si è posta e affrontata, in vario modo, l’esigenza di osservare il soggetto, spiegarne caratteristiche ed esigenze per intervenire il più efficacemente possibile, in vista dei diversi obiettivi specifici.

Il tema dell’osservazione ci pone di fronte, cioè, all’incrocio di diverse questioni, in particolare quella della scientificità dell’osservazione, del suo ancoraggio al paradigma culturale di riferimento, del rapporto tra pedagogia e scienze in generale e a quelle dell’educazione in particolare. Ciascuna di queste questioni apre a una molteplicità di ricadute in ordine agli strumenti e alle procedure, all’oggetto e al punto di vista osservativi, dal globale al particolare, dai processi ai prodotti e viceversa. Questo contributo non può e non intende analizzare questo intreccio in maniera approfondita, limitandosi a cogliere alcuni elementi particolarmente significativi nel panorama attuale, al fine di richiamare il senso e le caratteristiche dell’osservazione pedagogica, a fronte della crescente percezione di complessità delle situazioni educative e della proliferazione di opzioni e contributi offerti dalle scienze non pedagogiche.[1]

Alla ricerca di un paradigma

I fenomeni educativi sono per loro natura complessi, anche nel senso del loro carattere poliedrico, dinamico e integrato rispetto a dimensioni personali e sociali. Già Metelli di Lallo (1978) poneva il tema dell’effettiva osservabilità dei fenomeni complessi e unitari o entità collettive, sia nelle forme dirette e immediate, che in quelle controllate. Dal 1978 ad oggi, a fronte di una diffusa percezione di incremento della complessità dei contesti educativi, si è registrato, di fatto, un progressivo emergere di un approccio riconducibile, pur entro una gamma estremamente ampia e variegata di soluzioni, a un paradigma che potremmo definire molecolare. Si tratta, al di là della definizione terminologica, di tentativi che rispondono all’opzione di scomporre la situazione educativa complessa nei suoi elementi costitutivi, da osservare analiticamente, secondo il proprium della disciplina immediatamente disponibile e vocata allo scopo. Alla medicina si affida il compito di osservare i fenomeni dal punto di vista sanitario e di cura, alla psicologia la dimensione personale e sociale corrispondente, alle scienze motorie gli aspetti relativi a tale ambito e così via.

Si tratta di una tesi che già Metelli di Lallo (1978) definiva elementaristica, corrispondente all’idea che il tutto, complesso e dinamico, sia accessibile all’osservazione attraverso una scomposizione in elementi più semplici, comunque compresi nel tutto. In realtà, ammesso che ciò sia effettivamente possibile e utile, il tutto non è riducibile alla somma delle parti e osservare una foresta (nell’esempio di Metelli di Lallo) non si risolve attraverso l’osservazione analitica e dettagliata delle singole foglie, dei singoli rami o dei singoli alberi che la compongono.

A sostegno della tesi elementaristico/molecolare si sono affermate, per contro, ragioni che invocano la scientificità dei processi e la forte specializzazione necessaria a spiegare fenomeni difficili e poliedrici. Il progressivo raffinamento delle conoscenze in ordine a fenomeni determinati (pensiamo a titolo puramente esemplificativo ai Disturbi Specifici dell’Apprendimento, per stare alla contemporaneità dei contesti scolastici) sembra configurarsi come criterio-guida dell’osservazione, anziché, per esempio, come strumento di approfondimento o di analisi di una situazione considerata nella sua globalità.

Utilizzare un test, rigorosamente costruito e validato per osservare e definire una situazione che presenta elementi di criticità o, comunque, di necessità di interpretazione è diventato sinonimo di rigore scientifico, difficilmente sindacabile. Conseguentemente, dagli esiti di tale operazione deriva, a cascata, l’indicazione degli interventi da porre in essere. Grossolanamente potremmo affermare che si è imposto un paradigma diagnostico o, se si vuole, clinico-riabilitativo, mutuato prevalentemente dal campo medico: diagnosi, prognosi, terapia. In particolare la diagnosi, in campo medico, viene sempre più frequentemente affidata ad indagini strumentali atte a fornire elementi di certezza interpretativa.

Proseguendo in tal senso l’analogia con la medicina, la tendenza menzionata sta producendo quella che, dagli esperti di quel settore, viene definita medicina preventiva, con riferimento al ricorso esponenziale e non commisurato alle reali necessità, a indagini presuntamene obiettive, il cui scopo è quello di tutelare l’operatore rispetto a possibili insuccessi, contestazioni o contenzioni da parte dell’utente.

Anche in campo educativo sembra di assistere da tempo a fenomeni di pedagogia difensiva, volta ad assicurare profili di certezza alle diagnosi, con conseguente alimentazione di veri e propri alibi dispensativi rispetto a ricerche, indagini, interventi ulteriori.

Un bambino certificato DSA può non svolgere compiti per lui difficili, o può svolgerli con l’aiuto di dispositivi appositi, senza che questo configuri di per sé la presenza di una vera e propria disabilità. In qualche misura si produce una deresponsabilizzazione dei docenti o dei genitori stessi rispetto al porre in essere tentativi diversi e soluzioni ulteriori, rassicurando tutti sull’adeguatezza scientifica degli interventi educativi.

Philippe Meirieu (2013) ha formulato un’ipotesi, alla quale il nostro ragionamento si avvicina molto, secondo cui il paradigma da lui definito medicale, che per un certo periodo ha contribuito allo sviluppo di una pedagogia progressista, è divenuto oggi un limite per la stessa, un vero e proprio ostacolo epistemologico, nel senso indicato da Bachelard, soprattutto nella sua deriva farmaceutico-medicale.

In particolare, Meirieu individua una linea divisoria tra la logica dello screening e quella della ricognizione e della scoperta. La prima agisce sui sintomi, presupponendo una diagnosi mono-fattoriale, la seconda ricerca gli indizi, secondo un’analisi pluri-fattoriale e interattiva tra gli elementi. La prima inquadra e muove dall’esterno, agendo chimicamente sul sintomo, per riportare a norma ciò che da essa è deviato. La seconda si interroga sulle risorse interne ed esterne cui il soggetto può ricorrere per affrontare le sue sofferenze, prevedendo quindi un accompagnamento. Torneremo successivamente sulle ipotesi di Meirieu, parlando della natura dell’osservazione pedagogica.

Il paradigma diagnostico inteso nel senso dominante, infatti, implica la tesi elementaristica per la quale l’indagine viene svolta su aspetti circoscritti e limitati della realtà, con progressivo aumento della tendenza alla specializzazione: in campo medico, in tal senso, la diagnosi viene svolta sulla base di accertamenti affidati ad un numero elevato di specialisti di branche sempre più fini del settore (il biologo cellulare, il tecnico radiologo, il medico specializzato in diagnostica per immagini, a sua volta articolata a seconda della tipologia di immagini/strumenti deputati, il medico specializzato per patologie, per organi, per età, ecc.).

L’osservazione naturale, diretta, di prima mano, contestualizzata e dinamica delle situazioni e dei comportamenti umani sfuma e viene in qualche modo differita rispetto al primato diagnostico strumentale, altamente specialistico e documentato. In particolare, in campo educativo si assiste a forme di vera e propria delega delle scelte educative a momenti diagnostici affidati a specialisti del settore (psicologo, medico, operatore del sociale, ecc.) che accerteranno e dichiareranno, con linguaggio, strumenti e punti di vista propri, la natura del fenomeno di cui siamo osservatori, oltre che le forme degli interventi da porre in essere da parte dell’educatore.

Un caso particolare di questa tendenza è costituito dalla relazione tra pedagogia e psicologia. Sulla peculiarità di tale rapporto già Raffaele Laporta, in un saggio intitolato Teoria empirica dell’educazione e valori educativi (1979, p. 25) affermava: «il suo rapporto con la psicologia è tanto stretto che sovente essa la richiama addirittura dentro di sé, ridefinendosi come “psicopedagogia”». Laporta pare evocare, in qualche modo, l’evoluzione di cui abbiamo accennato e che, ai nostri giorni, sembra avere assunto i tratti di una vera e propria abdicazione della pedagogia rispetto alla psicologia, nell’ambito del paradigma diagnostico sopra detto. Approssimando grossolanamente, potremmo dire che le molte questioni emergenti nelle situazioni educative vengono affrontate delegando alla psicologia il compito di un’osservazione, frequentemente svolta in situazioni avulse dai contesti educativi, finalizzata a diagnosticare il problema, attraverso l’utilizzo di strumenti mirati e rigorosamente validati dal punto di vista scientifico, indicando espressamente o implicitamente le strategie e le azioni da porre in essere per la soluzione o il miglioramento della criticità. Con quest’analisi critica non si intende minimante sottovalutare l’importanza del contributo che altre scienze, come la psicologia, possono e debbono apportare alla soluzione delle questioni educative. S’intende piuttosto rimarcare come il paradigma entro cui questo contributo viene offerto e il tipo di relazione tra le discipline coinvolte, che fa da cornice a ciò, snaturino e riducano il potenziale dell’osservazione, anziché incrementarlo. Se, infatti, l’osservazione dello psicologo, del medico o di un altro specialista viene svolta in maniera del tutto separata dal contesto educativo, non solo in termini di spazio ma soprattutto di senso e di processo, si configura di fatto un semplice rapporto multidisciplinare tra pedagogia e altre scienze. Ciascuna apporta il suo contributo parziale e settoriale: all’educatore spetta, sostanzialmente, il compito della composizione dell’intervento educativo, assicurando coerenza e cogenza rispetto alle indicazioni delle osservazioni specialistiche. Si profila, in questo senso, un rischio di ancillarità della pedagogia alle altre scienze, in nome della specializzazione e del rigore scientifico (presunto o reale) delle procedure da esse poste in essere. In alcuni casi si stabiliscono forme di interdisciplinarità, ovvero di maggiore grado di integrazione tra i diversi contributi. Molto raramente si approda alla transdisciplinarità intesa come elaborazione congiunta e concordata di interventi, procedure e strumenti che, superando le specificità disciplinari, ne integrino il potenziale in vista di un fine comune.

Natura dell’osservazione educativa

L’accennata questione della multidisciplinarità, interdisciplinarità, transdisciplinarità è utile, a nostro modo di vedere, non per rimarcare primati o gerarchie, né per assumere posizioni nostalgiche rispetto a epoche passate, ancor meno per sminuire il contributo delle altre scienze alla pedagogia, quanto per porre la questione della natura dell’osservazione educativa.

Essa è anzitutto sistemica in riferimento al soggetto osservato, all’ambiente in cui essa si realizza, al rapporto tra gli scopi e gli strumenti utilizzati. Nella prima direzione consideriamo sistemica un’osservazione che, pur concentrandosi su un aspetto parziale e limitato, lo inquadra sempre e comunque nella totalità della persona e del suo vissuto, allargando le prospettive alle correlazioni delle parti con il tutto. Per esempio, l’osservazione finalizzata a rilevare o promuovere l’acquisizione di competenze di un individuo (di qualsiasi età e condizione), pur concentrandosi sulle performances da lui fornite in quel campo, non potrà non assicurare il nesso tra le medesime e i processi posti in essere. Ancora, la rilevazione di carenze di tipo squisitamente conoscitivo, viene comunque considerata nel nesso con gli aspetti motivazionali, affettivi, sociali. Per questa ragione, i modi e gli strumenti si moltiplicano inglobando quelli capaci di cogliere aspetti che sfuggono alle forme quantitative e statistiche di indagine; per questo l’intersoggettività va considerata come una condizione di base dell’osservazione, concedendo piena cittadinanza all’auto-osservazione, alla valutazione tra pari, etc. (Castoldi, 2017).

Per quanto concerne la sistematicità del contesto di svolgimento dell’osservazione, dimensione che chiama in causa la natura stessa dell’educazione, vale quanto già Watzlawick, Beavin e Jackson (1971), da non pedagogisti, dichiaravano, vale a dire che «un fenomeno resta inspiegabile finché il campo di osservazione non è abbastanza ampio da includere il contesto in cui il fenomeno si verifica». Il processo educativo avviene in un ambiente che ha un peso importante su di esso e sui suoi risultati. Affermare che un adolescente tende ad isolarsi ha un significato potenzialmente differente in riferimento al contesto familiare, a quello scolastico o sportivo: l’isolamento in casa potrebbe essere spiegato, ad esempio, come un fenomeno tipicamente adolescenziale, di ricerca della propria identità; quello riferito al gruppo dei pari con cui si incontra in classe o su un campo da calcio può evocare scenari molto differenti.

A questo riguardo il rimando è al concetto Deweyano di esperienza, da lui considerata transazione, interazione tra soggetto ed oggetto, in Logica: teoria dell’indagine, superando ogni dualismo tra interno ed esterno. L’educazione in questo senso deve valorizzare, riprodurre e amplificare la ricchezza e l’immediatezza delle esperienze che viviamo nel mondo, «istituendo un nesso organico tra educazione ed esperienza personale.» (Dewey, 1938).

Il terzo aspetto menzionato riguardo il carattere sistemico, vale a dire quello che investe il rapporto tra fini e mezzi educativi, ci consente di entrare nel cuore della questione della natura dell’osservazione educativa e dell’educazione stessa. Sviluppando in misura estrema e paradossale il paradigma diagnostico, potremmo affermare che, al suo interno, l’educazione è possibile solo a partire da una diagnosi a priori di tutti gli elementi della situazione. In particolare, il presupposto dell’educabilità sarebbe la conoscenza psicologica del soggetto dell’educazione, ottenuta attraverso un mirato e poderoso screening delle sue capacità. A ciascuna dimensione indagata corrisponde, quindi, l’individuazione di possibili finalità e mezzi adeguati al loro conseguimento. A un soggetto con diagnosi di dislessia, per esempio, corrisponderanno obiettivi e mezzi idonei, strettamente correlati con la diagnosi stessa.

L’esperienza mostra tuttavia una realtà che raramente coincide con quanto sopra: i progressi e i regressi degli individui si dipanano su reti molto più complesse e sottili, che restituiscono una visione sistemica dei processi attivati, spesso sotterranei e misteriosi. In particolare, le connessioni tra le parti non sembrano rispondere a logiche lineari e immediatamente consequenziali, né a rapporti predefiniti tra le parti e il tutto. Agendo su una componente del sistema, non cambia solo la dimensione implicata, ma l’intero sistema.

Riprendendo il caso della dislessia: se un allievo potrà vivere un’esperienza positiva, del tutto slegata dalla diagnosi ricevuta, nel contesto classe ma anche all’esterno di esso, per esempio motoria o musicale o artistica, anche il suo atteggiamento nei confronti della lettura e le sue capacità in tal senso potrebbero beneficarne positivamente, per percorsi interiori carsici di difficile predizione.

Watzlawick, Weakland e Fisch (1974), d’altra parte, avevano ampiamente mostrato come diventi decisiva per il cambiamento l’azione applicata consapevolmente o inconsapevolmente non alla difficoltà affrontata, ma alla soluzione del problema. Si tratta, cioè, della messa in atto di qualcosa che superi il momento presente, guardando ad una direzione apparentemente non contigua o correlata.

Meirieu (2013) ha assunto di recente, a riguardo, una posizione molto netta, affermando che a far progredire la conoscenza dell’allievo non è la diagnosi a priori (con particolare riguardo a quella psicologica), ma l’invenzione delle pratiche poste in essere dall’educatore. In particolare Meirieu contesta quello che egli definisce un luogo comune neo positivista, vale a dire che bisogna conoscere prima di agire. Secondo il francese, l’adesione a questo assunto assegnerebbe all’educazione il compito di fabbricare un individuo. Al contrario, riproponendo in tal senso il punto di vista di Makarenko, egli afferma che la diagnosi rischia di creare una pre-destinazione, confusa con la predisposizione, come nel caso esemplare dell’effetto pigmalione. Se la diagnosi osservativa di riferimento diventa un totem, il rischio di profezie autoavverantesi si fa alto e concreto.

Meirieu interpreta in questo senso la lezione complessiva di Vygotskji, affermando che la soluzione non può mai essere dedotta dall’analisi del soggetto, ma dall’invenzione dell’educatore che crea ambienti educativi dinamici, i quali stimolano processi evolutivi di apprendimento, di sviluppo. Di qui la necessità di offrire un’ampia gamma di opzioni metodologiche, di supporti, di proposte, di luoghi dialettici tra sé e altro da sé.

A partire da questa cornice emerge un secondo carattere dell’osservazione educativa, non diagnostica, quindi, ma formativa. L’osservazione è un importante dispositivo di cui l’educatore dispone per imprimere intenzionalità e razionalità alle proprie scelte e al proprio agire, è uno strumento professionale per dare forma più rigorosa al proprio operato, nella sua connessione con il pensiero, con la teoria e le teorie.

L’osservazione ha sempre uno scopo formativo, entro un articolato, ampio spettro di possibilità: conoscere, ricercare, riflettere, confrontare, orientare, progettare o regolare il proprio agire, valutare. In questo senso può essere interpretata l’etimologia del termine osservare (ob-servare) formato dal prefisso ob, che indica sia una direzione (verso), sia un fine (per), e dal verbo servare che può significare custodire, preservare, curare, stare attento a.

L’osservazione è per sua natura bisognosa della definizione di uno scopo che ricada nell’orizzonte del processo educativo, articolandosi dinamicamente sulla base del suo procedere. Da questo punto di vista, il luogo comune che fa coincidere l’osservazione con una specie di valutazione primitiva, identificandone quindi la necessità con la scuola dell’infanzia, è un errore concettuale pericoloso e fuorviante.

Secondo questa idea implicita di senso comune, l’osservazione entra in campo quando, e solo quando, la valutazione presuntamente rigorosa, obiettiva, quella traducibile in voti e parametri quantitativi, non risulta idonea o possibile. In questo senso, l’osservazione sembra essere un’attività minusvalente rispetto alla più autorevole e legittimata attività valutativa. A giudicare dalla progressiva contrazione del ricorso ad essa, man mano che si eleva l’età dei soggetti coinvolti nei processi educativi, sembra che, di fatto, questo luogo comune sia piuttosto diffuso, al di là delle dichiarazioni di principio.

In realtà il carattere proattivo e plurale dell’osservazione educativa non è riducibile alla valutazione che, pure, ne rappresenta un possibile scopo. Al contrario essa è potenzialmente risorsa preziosa per tutta una serie di azioni che sostanziano e declinano l’educare. Questa duttilità dell’osservazione in senso pedagogico ne restituisce il prezioso potenziale formativo, purché si sia disposti a uscire dal paradigma diagnostico che la cristallizza entro un’immagine ed una funzione fisse. Al tempo stesso essa corrisponde all’excursus selettivo dell’attenzione, sotteso all’osservazione stessa.

Definire con chiarezza lo scopo del prestare attenzione a un aspetto è il primo passo di una buona osservazione, traducendo da questo punto di vista l’intenzionalità che innesta l’educazione intesa in senso scientifico.

L’osservazione educativa, inoltre, è dinamica, in quanto strumento dell’educazione che è sempre relazione tra soggetti (in primis educatore ed educando), tra essi e oggetti (in primis i saperi), in un contesto sempre in evoluzione (per esempio, nel caso dell’apprendimento, parliamo di ambiente di apprendimento). Dovremmo, in realtà, parlare di osservazione delle esperienze educative, includendo in esse i soggetti, i contesti, le relazioni, le azioni, i fatti (Mialaret, 1976) e gli antefatti, la direzione verso cui muovono e i mezzi utilizzati. Nell’aggettivo educativa intendiamo assumere ogni elemento che costituisce l’educazione in senso relazionale, la sua vocazione a guardare ai processi, ancor prima che ai prodotti, in quanto prende in carico un oggetto relazionale e dinamico, quale appunto è l’educazione. Questo implica, naturalmente, che l’educatore sia incluso nel processo osservativo sia nel caso che egli sia anche l’osservatore, sia nel caso che sia osservato, sia nel caso che si auto-osservi. Ciò non costituisce un vulnus alla scientificità dell’osservazione educativa, ma una sua ulteriore caratteristica, in quanto intrinseca all’agire educativo. Al contrario l’educatore utilizza scientemente l’osservazione, declinata nelle sue forme e corredata dei suoi strumenti, per dare razionalità, intenzionalità e sistematicità al proprio operare, ben sapendo di esserne parte e quindi assumendo ogni possibile cautela critica e professionale. In questo senso si tratta di muovere nella direzione dell’integrazione dell’istanza del rigore scientifico con quella della natura dell’educazione e delle conseguenti implicazioni.

Quanto detto sin qui non esclude, naturalmente, il possibile ricorso a forme esterne di analisi di eventi e aspetti, opportunamente previsti e valorizzati dall’educatore, assicurando, per contro, ciò che solo la partecipazione ad un processo quale l’educazione può mostrare. Nelle parole di Laporta (1979, p. 25):

«via via che il suo orizzonte si fa più largo, si incontra con altre scienze empiriche dell’uomo (la sociologia, l’antropologia culturale, la sociolinguistica, ecc) essa accoglie le “teorie dell’apprendimento”, e sbocca nel campo delle scienze fisiche, sociali, storiche, matematiche e delle loro filosofie, quando pon mano insieme con esse alla costruzione delle “teorie del curricolo” scolastico o ai vari programmi di formazione continua, e ricorrente, di promozione culturale, di educazione e sensibilizzazione artistica, che occupano parte del campo dell’educazione permanente.»

La pedagogia, quindi, non teme l’incontro e la contaminazione con altre scienze che incontra, sempre più, allargando il proprio orizzonte e affrontando la concretezza dei problemi educativi. Il punto chiave sta nel superamento dell’assolutizzazione del paradigma diagnostico, in favore di un paradigma autenticamente pedagogico, che pure recuperi e integri in sé le opportune esigenze di rigore scientifico. Il primo finirebbe inevitabilmente per esternalizzare al di fuori del processo educativo ogni scelta, sia in senso teleologico, sia in senso operativo, trasformando l’educazione in mera esecuzione di indicazioni eterodirette da soggetti non pedagogicamente preparati e orientati. Al contrario, come affermato da Debesse (1971): «La pedagogia non è una ricetta, ma è una ricerca». Aggiungiamo noi: non è una ricetta eterodiretta, poiché «una scienza empirica che assuma a proprio oggetto l’educazione deve assumerla completamente, anche nelle finalità educative e perciò nei valori che la costituiscono.» (Laporta, 1979). Quindi deve assumere anche il carattere assiologico dell’educazione stessa, non potendosi limitare a considerarla terreno di applicazione di scopi e metodi di altra natura.

Un’osservazione educativa è, dunque, autentica, in quanto coinvolge attivamente e dinamicamente i suoi protagonisti (educatore ed educando), attraverso i quali è possibile una conoscenza reale dei fatti considerati, certo da non assolutizzare, ma da integrare in forma autentica con altre fonti di conoscenza.[2] In ciò assume interamente la dimensione teleologica del fare educazione che viene posto in essere nel contesto osservato.

In quanto autentica l’osservazione accompagna dinamicamente i processi educativi, ne è parte attiva, innestandosi nel suo evolvere. In quanto autentica, l’osservazione educativa sostiene e rende possibile la riflessione dei soggetti dell’educazione. Parafrasando l’articolazione considerata da Schön (1983) riguardo la riflessione del professionista, potremmo dire che l’osservazione educativa si svolge nel corso dell’azione. Ma è altrettanto vero che essa assume il suo potenziale riflessivo quando viene sviluppata come osservazione sull’azione e osservazione sulla riflessione nell’azione. In questo senso è estremamente riduttivo esaurirne il ruolo alla pur necessaria regolazione nel corso dell’agire, sulla base, appunto, dell’osservazione diretta e immediata di quanto accade nel contesto educativo. Alla domanda, da me rivolta a professionisti dell’educazione: «quando osservi?» Mi è capitato sovente di sentire risponde: «io osservo sempre». La risposta sottende un equivoco diffuso tra guardare e osservare e, ancor di più, sulla funzione dell’osservazione intesa, appunto, prevalentemente in senso regolativo.

La scelta degli strumenti da utilizzare, siano essi strutturati (griglie, scale, check-list…), narrativi (diari di bordo, appunti, colloqui, interviste.), ad alto o basso utilizzo di sistemi di documentazione (dai protocolli carta/matita, alle audio o video registrazione…), con eventuale coinvolgimento o no di un osservatore esterno, trova qui un importante snodo. Limitandoci alla funzione regolativa nel corso dell’azione, infatti, si attenua fortemente l’esigenza di opzioni in tal senso. Viceversa osservare per riflettere in maniera indiretta e differita su quanto si è fatto o è semplicemente accaduto e, soprattutto, sulle premesse mentali implicite nei fatti e nelle azioni realmente verificatisi, comporta una scelta molto più oculata. Osservare per capire come un alunno si sia comportato nel corso di un’attività, per cogliere alcuni suoi tratti, alcune sue propensioni, alcuni sue forme di apprendimento, richiede una considerazione attenta, preventiva e mirata in ordine degli strumenti più idonei, ai momenti più opportuni, oltre che agli obiettivi e al riconoscimento degli indicatori utili allo scopo. Ciò esige un elevato grado di intenzionalità, sistematicità, cautele critiche, continua congiunzione tra teoria e prassi, tra pensiero e azione. Si tratta di qualcosa di molto più complesso e ricco dell’applicazione di un test. D’altra parte già Dewey (1938) ci aveva messo in guardia affermando che «la via della nuova educazione non è più agevole dell’antica; essa è più penosa e difficile. E così rimarrà sino a che non avrà raggiunto la maggiore età e questa cosa non sarà raggiunta se non dopo molti anni di seria e attiva collaborazione di tutti coloro che aderiscono ad essa»

Bibliografia

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[1] La questione affrontata richiama, tra l’altro, il dibattito attuale sull’approccio affermatosi come EBE (Evidences based education), termine poi ammorbidito in Evidence Informed Education o Evidence Aware Education. Tale approccio considera la ricerca educativa pedagogica autoreferenziale, incapace di risolvere efficacemente i problemi della pratica e priva di affidabilità in termini di rigore e di applicabilità ai diversi contesti. Rimandiamo ad altra sede l’esame approfondito di tale questione che, in Italia, trova una sua articolata presentazione nel volume di Calvani A. (2012), Per un’istruzione evidence based, Erickson, Trento.

[2] Nell’utilizzo dell’aggettivo della quarta caratteristica esaminata si evoca, volutamente, l’espressione valutazione autentica, introdotta negli Stati Uniti d’America agli inizi degli anni ’90, come espressa contrapposizione critica alle diffuse forme di valutazione ad orientamento comportamentista, con massiccio ricorso ai test standardizzati. Per approfondimenti sul tema si vedano: in particolare Wiggings G. (1998), Educative assesment. Designing assesments to inform and improve student performance, Jossey-Bass, San Francisco (Ca) e, in Italia, Comoglio M. (2002), La valutazione autentica, Orientamenti pedagogici, 49 (1), pp. 93-112.




Autore per la corrispondenza

Maria-Chiara Michelini
Indirizzo e-mail: mariachiara.michelini@uniurb.it
Dipartimento di Studi Umanistici, Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, via Bramante 17, Urbino (PU)


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ISSN 2421-2946. Pedagogia PIU' didattica.
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