Test Book

Dal PISA-Test alla "Buona Scuola". Le radici del deficit etico-democratico nelle attuali politiche scolastiche
From PISA-Test to the "Good School". The roots of the ethical and democratic deficit in the current school policies

Vasco D’Agnese

Professore associato di Pedagogia generale e sociale



Sommario

In un recente intervento sul DDL La buona Scuola, Massimo Baldacci, dopo avere esplicitato come tale documento abbia il merito di riportare la scuola al centro del dibattito politico, ne evidenzia debolezze e punti critici; debolezze e criticità che rischiano di fare della scuola italiana il luogo dove, ancora una volta, si agiscono processi pensati e decisi al di fuori delle logiche pedagogico-educative che, con tutta evidenza, ne dovrebbero essere il cuore (Baldacci 2015). Il contributo presentato, partendo da tale disamina, vuole analizzare quelle che, a giudizio di chi scrive, sono le radici delle criticità individuate. Il DDL La Buona Scuola, infatti, si inserisce nel solco delle politiche educative e scolastiche attuate dall’OECD (OCSE) almeno a partire dal 2000 attraverso quello che ne è diventato il più noto prodotto: il test PISA. Il contributo, pertanto, proverà a collocare la critica di tale documento nel contesto internazionale, mostrando come il decreto sia – anche - l’effetto di politiche più ampie. Attraverso l’analisi dei documenti prodotti dal Direttorato per l’Educazione riguardo PISA (pubblicazioni, pagine web, video) si sosterrà come l’OCSE mostri un chiaro deficit etico e democratico, sia nello sviluppo del test PISA, che nella sua attuazione e promozione. Nessuna menzione, infatti, è fatta dall’OCSE dell’aspetto valoriale ed etico dei processi educativi, così come non è possibile trovare alcun riferimento a una formazione del cittadino come formazione critica, che preceda e fondi le scelte politico-economico effettuate. Come corollario aggiuntivo si proverà a evidenziare come la critica di Baldacci sia anche una critica di come l’educazione si sta configurando a livello globale.

Parole chiave

PISA, politiche educative, educazione democratica.


Abstract

In 2015 intervention on La buona Scuola Act, Massimo Baldacci highlights Government Act’s weaknesses and critical points; weaknesses and critical points that, in turn, run the risk of framing Italian school as the site where processes and dynamics are thought and acted without reference to educational logics (Baldacci, 2015). The aim of this paper is to offer an analysis of such weaknesses by locating Government’s politics in international scenario. Specifically, I am referring to the politics enacted by OECD’s through its well known Assessment tool, PISA. By analysing OECD’s key documents, including web-pages, video and publications, I wish to argue that the ethical as well as the political dimension of education are erased by PISA. I also wish to argue that such a gesture tends to erase educational founding features and phenomena, such as critical agency and democratic education.

Keywords

PISA, educational policies, education for democracy.


Introduzione

In una lucida e articolata disamina del DDL La buona Scuola, Massimo Baldacci (2015), dopo avere rilevato come tale documento abbia il merito di riportare la scuola al centro del dibattito politico, ne evidenzia diversi elementi di debolezza e punti critici; debolezze e criticità che rischiano di fare della scuola italiana il luogo dove, ancora una volta, si agiscono processi pensati e decisi al di fuori non solo delle logiche pedagogico-educative che, con tutta evidenza, dovrebbero essere poste al centro di un compiuto dibattito sulla scuola, ma anche al di fuori del dibattito pienamente democratico che dovrebbe investire il sistema scolastico del nostro Paese.

I punti di maggiore interesse – almeno a giudizio di chi scrive – della critica di Massimo Baldacci riguardano l’ottica funzionalista dell’intero documento, «che subordina la scuola alle esigenze dell’economia [e il mancato riferimento alla] formazione del cittadino» (Ibidem). Se è lecito aggiungere un corollario all’interpretazione data da Baldacci, potremmo affermare che tale documento presenta, oltre che un deciso deficit pedagogico – chiaramente evidenziato dall’autore –, anche un altrettanto chiaro – e preoccupante – deficit democratico: il documento appare calato dall’alto, secondo logiche verticistiche, nelle quali coloro che concretamente “fanno scuola” (insegnanti, educatori, studenti) risultano essere meri esecutori di un disegno preconfezionato.

I due deficit evidenziati sono tutt’altro che casuali: queste mancanze o criticità sono il frutto, più o meno consapevole, di una politica che parte da lontano, almeno dagli anni Ottanta, per gli Stati Uniti (Biesta, 2007a), e dagli anni Novanta, per l’Europa (Au, 2011), politica che ha investito anche il nostro Paese. È infatti a decorrere da tali date che parte consistente della governance economico-politica statunitense prima ed europea poi (Nichols e Berliner, 2007; Au, 2011) ricomincia, dopo i mutamenti del Sessantotto, a fare della scuola il luogo della mera riproduzione degli equilibri politico-economici preesistenti. L’elisione del versante della formazione del cittadino, la chiusura a ogni dibattito che ponga in questione il tipo di società e di democrazia che la scuola deve promuovere e l’ottica funzionalista che informa l’educazione e l’istruzione sono il cuore di tale progetto. È bene ricordare che tale scenario riguarda le sorti dell’educazione e del fare scuola a livello globale (Biesta, 2007b; Grek, 2007; Alexander, 2011) e che le agenzie e le istituzioni implicate sono, appunto, quelle che guidano, governano e finanziano l’educazione a livello internazionale (si pensi, ad esempio, all’OCSE, all’Unione europea o al Dipartimento per l’Educazione degli Stati Uniti). Detto altrimenti, ciò che accade in Italia è parte di un più ampio processo, cha ha radici almeno trentennali.

Partendo da questo doppio livello di analisi appena citato (globale e nazionale), in questo contributo si vuole analizzare un elemento portante di tale progetto e cioè la politica educativa attuata dall’OECD (OCSE) attraverso quello che ne è diventato il più noto prodotto: il test PISA. Attraverso l’analisi dei documenti prodotti dal Direttorato per l’Educazione riguardo a PISA (pubblicazioni, pagine web, video), proverò a mostrare che l’OCSE mostra un chiaro deficit etico e democratico, sia nello sviluppo del test PISA, che nella sua attuazione e promozione, e che tale deficit rappresenta, contemporaneamente, il segno e lo strumento di una precisa politica sociale e educativa. Nessuna menzione, infatti, è fatta dall’OCSE dell’aspetto valoriale ed etico dei processi educativi, così come non è possibile trovare alcun riferimento a una formazione del cittadino come formazione critica, che preceda e fondi le scelte politico-economico effettuate. L’intero processo educativo risulta schiacciato sui processi di apprendimento dei quali, in aggiunta, viene data una versione estremamente ristretta e parziale.

Appare inoltre rimarchevole il fatto che, nonostante questa chiara restrizione, l’OCSE in più luoghi, e con notevole enfasi, sostenga che PISA, lungi dall’essere un semplice test atto a rilevare e misurare un particolare set di competenze o abilità, «misura se un/a quindicenne è ben preparato/a per vivere in società» (OECD, 2014a), offrendo ai Paesi membri «uno specchio» (Ibidem) per valutare questo obiettivo. In tal modo l’OCSE, attraverso PISA, non propone solo uno strumento atto a instradare l’educazione e il fare scuola in una ben precisa direzione – quella del neo-liberalismo, ma pone anche in essere, in modo implicito, una ben determinata visione della società e della conoscenza, che privilegia la sfera economica e riduce l’apporto dei cittadini a «capitale umano» (OCSE, 2011, p. 14) da impiegare, a vario titolo e in vari livelli, nel processo produttivo.

Il contributo che presento è organizzato in tre paragrafi: nel primo vengono ripercorsi, sinteticamente, la nascita dell’OCSE e il suo riposizionamento da centro di scambio socio-economico fra Paesi diversi, a centro di raccolta ed elaborazione dati prima, ad autonomo centro di potere poi, teso ad affermare la propria posizione e la propria autonoma influenza rispetto ai diversi Stati membri.

Nel secondo paragrafo viene esaminata la posizione che l’OCSE assume con PISA; nello specifico, attraverso l’analisi di alcuni dei principali documenti prodotti e diffusi dall’OCSE sul PISA Test, si proverà a mostrare sia il chiaro deficit etico-democratico che comporta l’attuazione e l’utilizzo di tale strumento, sia la posizione del tutto esplicita che l’OCSE assume nello sviluppo e nella promozione di PISA. Schematizzando il ragionamento, verrà sostenuto che l’OCSE intende ridurre l’educazione all’apprendimento, l’apprendimento all’acquisizione di pacchetti predefiniti di skills, e tale acquisizione al test PISA. PISA, in tal modo, più che un semplice test finalizzato a misurare un insieme di capacità, diviene il mezzo per attuare una vera e propria visione della società e dell’educazione.

Nel terzo paragrafo si tenterà di delineare i motivi per cui tale politica risulta estremamente riduttiva e, forse, pericolosa per le sorti non solo della scuola, ma anche del dibattito democratico sui processi educativi. Il processo di sviluppo e implementazione di PISA è chiaramente top-down e poco o nessuno spazio viene dato a chi l’educazione, concretamente, la agisce. Agli insegnanti, agli educatori, ai ricercatori e agli studiosi che, concretamente, costruiscono quotidianamente spazi e possibilità educative non è consentito “sfidare” la logica sottesa a PISA, nel senso che l’OCSE tende a non fornire alcuna risposta rispetto alle critiche, spesso nette e consistenti, che studiosi di diversa nazionalità e formazione hanno sviluppato su tale strumento e sulla logica ad esso sottesa (Bonderup Dohn, 2007; Grek, 2007; Mansell, 2007; Biesta, 2012).

Pertanto il mancato coinvolgimento della pedagogia e dei pedagogisti nello sviluppo del DDL citato, giustamente lamentato da Baldacci, insieme all’ottica funzionalista che informa il DDL stesso sono il frutto diretto e forse neanche pienamente consapevole di tale politica globale, che tende a un’elisione dell’educazione come discussione democratica e critica sui processi sociali e, soprattutto, sui concreti modelli socio-educativi che una democrazia intende darsi. Se l’educazione è anche e, forse, soprattutto discussione democratica sul corrente modello socio-democratico e sulle sue possibili evoluzioni e avanzamenti, tale dimensione deve essere pienamente recuperata e posta al centro del dibattito politico e educativo riguardante la scuola. Nella misura in cui la scuola è un bene comune, tale dibattito non deve essere ristretto soltanto a coloro che, a vario livello, sono impegnati nell’analisi e nell’attuazione delle politiche educative (studiosi, tecnici, policy makers, insegnanti, educatori, ecc.), ma deve coinvolgere chiunque abbia un interesse nello sviluppo della scuola; quindi, anche a famiglie e cittadini nel loro insieme.

 

Nascita e sviluppo dell’OCSE

L’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) è nata nel 1961, come ampliamento dell’OEEC (Organizzazione per la Cooperazione Economica Europea). L’intento dichiarato dell’OCSE era – ed è tuttora – la promozione di politiche che incoraggino lo sviluppo socio-economico degli Stati membri, e, contemporaneamente, lo sviluppo dell’economia e del commercio nel mondo. Tanto l’OEEC che l’OCSE nascono sulla scia degli accordi di Bretton Woods del 1944, accordi che definirono l’assetto mondiale del secondo dopoguerra, normandone le relazioni economiche. Da tale assetto nacquero diverse organizzazioni che, ancora oggi, hanno una funzione chiave nel governo internazionale (ad esempio, il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale).

Secondo Carroll e Kellow (2011) ed Eccleston (2011), nella transizione da OEEC, organismo fondamentalmente europeo, a OCSE, organismo compiutamente internazionale, l’OCSE subì rilevanti trasformazioni, diventando un ponte importante fra i diversi Paesi membri, talvolta esercitando, in modo più o meno autonomo, notevoli pressioni sulle diverse sovranità nazionali. Secondo Woodward (2009) tale cambiamento ha condotto a una più profonda trasformazione: l’esercizio di un potere autonomo, sovranazionale, è da vedersi come la principale caratteristica dell’attuale configurazione dell’OCSE, e ciò a discapito dell’intento – professato – della promozione di politiche cooperative, con forte valenza sociale.

Con il collasso dell’Unione sovietica e la fine della Guerra fredda, l’OCSE incrementò ulteriormente la sua sfera di influenza, costituendosi, cosa determinante per il suo futuro, come centro internazionale di analisi e comparazione di dati riguardanti i settori più diversi della vita socio-economica (Jacobi e Martens, 2010). Da qui in avanti l’OCSE incominciò, inoltre, ad allacciare relazioni molto forti con quelle che oggi vengono denominate le “BRIC Nations” (Brasile, Russia, India e Cina). Ciò ha segnato anche un disimpegno dell’OCSE rispetto alla sfera sociale e una sua sempre maggiore focalizzazione sui temi economici (Sellar e Lingard, 2013).

D’accordo con la loro disamina, infatti, «lo slittamento che l’OCSE compie dall’utilizzo del termine “Nazione” a quello di “economia” è sintomatico del suo deciso focus economico e del modo in cui gli altri domini, a partire da quello educativo, vengono crescentemente marginalizzati o ricondotti alla sfera economica» (2013, p. 17, corsivo aggiunto, trad. mia). Ai fini della nostra esposizione è da tenere in primo piano il fatto che l’educazione, a partire dagli anni Novanta, sia diventata un ambito di interesse sempre più forte dell’OCSE. Potremmo dire che lo sviluppo e la diffusione di dati sulle performance dei diversi sistemi educativi degli Stati membri sono diventati, almeno a partire dal 2000, il core business dell’OCSE, il luogo e il centro attraverso il quale l’OCSE esercita con crescente forza la sua influenza sullo scacchiere internazionale.

Nel 2000 l’OCSE ha lanciato PISA (Programme for International Student Assessment) come strumento di assessment triennale, atto a valutare conoscenze e competenze di studentesse e studenti nei settanta Paesi membri al termine dell’obbligo scolastico; nel 2002 l’educazione è stata stabilita come Direttorato autonomo all’interno del’OCSE e la sua struttura ampliata e potenziata. Da allora in poi, lo sviluppo di PISA è diventato il principale obiettivo del Direttorato per l’educazione e l’importanza di PISA nei Paesi membri è cresciuta in modo continuo (Henry et al., 2001; Lawn e Lingard, 2002; Sellar e Lingard, 2013). Sotto la direzione di Angel Gurrìa, Segretario generale dell’OCSE a partire da giugno 2006, l’OCSE ha rinforzato il ruolo di PISA, trasformandolo da mero strumento di assessment a qualcosa di decisamente differente. Vediamo come, perché e con quali effetti.

 

Il Test PISA: dimensioni etiche implicite e deficit democratico

Per apprezzare pienamente tale trasformazione è utile riferirsi alle parole con le quali l’OCSE descrive il proprio programma di assessment: «Il Programma internazionale per l’assessment di studentesse e studenti (PISA) è un’indagine triennale che intende valutare i sistemi di educazione a livello internazionale, testando le skills e le conoscenze delle/i quindicenni. A oggi hanno partecipato all’indagine studentesse e studenti provenienti da più di settanta economie diverse. PISA è unico perché sviluppa un’indagine che non è legata al curricolo scolastico. Il test è definito per valutare quanto le studentesse e gli studenti, al termine della scuola dell’obbligo, sappiano applicare le loro abilità a situazioni di vita reale e quanto siano equipaggiati per partecipare alla vita sociale» (OECD, 2014, corsivo aggiunto, trad. mia).[1]

Ciò che colpisce in questo passaggio sono due elementi: il già richiamato utilizzo del termine «economie» in luogo di quello – più comprensivo – di «Stati» o «Nazioni» e, soprattutto, l’intento dichiarato di «testare» la capacità degli studenti per una piena partecipazione alla vita sociale. Per un’analisi attenta del passaggio riporto parte dell’originale: «The tests are designed to assess to what extent students at the end of compulsory education, can apply their knowledge to real-life situations and be equipped for full participation in society». Così, nelle parole dell’OCSE, è evidente come PISA sia non solo «[i]l migliore strumento per valutare la qualità, l’equità e l’efficienza dei diversi sistemi scolastici» (OCSE, 2014f, p. 2). PISA è molto di più – e qualcosa, soprattutto, di decisamente diverso; PISA, nelle parole dell’OCSE, è in grado di «mostrare ai diversi Paesi […] quanto sono efficaci nell’educazione delle/i loro ragazze/i» (OCSE, 2014a). Ancora di più: «PISA fornisce uno specchio a tutti gli Stati attraverso il quale comprendere cosa è possibile ottenere attraverso l’educazione» (OCSE, 2014b). PISA mostra se e quanto « le ragazze e i ragazzi sono preparate/i alla vita» (OCSE, 2104a); PISA «misura se un/a quindicenne è ben preparata/o per vivere in società» (Ibidem) - anche in questo caso è opportuno riportare l’originale: «PISA tests provide a mirror to all countries and demonstrate what is possible» e «PISA tests show whether and to what extent boys and girls [are] prepared for life [by] measuring whether 15-year-olds around the world are well-prepared to participate in society» (Ibidem).

Adesso è bene esplicitare che le questioni da analizzare sono almeno due e situate a livelli diversi: (a) allo stato attuale non esiste alcuna comparazione fra i diversi sistemi di assessment internazionale, che ne evidenzi punti di forza e criticità; pertanto l’affermazione dell’OCSE riguardo PISA come «specchio [offerto] a tutti gli Stati attraverso il quale comprendere cosa è possibile ottenere attraverso l’educazione» risulta destituita di un riscontro scientifico; (b) anche ammesso che tale indagine indipendente, tesa a valutare diversi strumenti di assessment, ci fosse stata e avesse dato un responso positivo nei confronti di PISA, è possibile pensare che uno strumento di assessment, per quanto raffinato e sofisticato, dia uno specchio attraverso il quale valutare le politiche educative e scolastiche di ogni singolo Paese? Ciò che emerge dall’utilizzo del termine «specchio», detto altrimenti, è un’idea di educazione e di scienza molto ristretta; un’idea che, al più, può essere situata in ambito strettamente neo-positivistico.

Adesso è bene chiarire un punto: com’è stato ampiamente mostrato (Cambi, 1986; Baldacci, 2007), ogni idea di educazione si fonda, contemporaneamente, su un’idea di scienza e su un orizzonte etico e valoriale. Il compito di chi costruisce e promuove tali idee è essere consapevole di tale dipendenza e, soprattutto, renderla esplicita. Ciò che l’OCSE non fa è precisamente ottemperare a tali condizioni. Nelle parole di Radika Gorur, «parlando in modo apparentemente distaccato di dati e diagrammi, PISA sembra essere diventato un moderno oracolo di Delfi; dal suo punto di vista apparentemente neutrale impartisce istruzioni a Stati e scuole su cosa fare e cosa no, su cosa funziona e cosa non funziona» (Gorur, 2011, p. 86, trad. mia).

L’altro problema da analizzare riguarda il concetto stesso di vita sociale e democratica che l’OCSE implicitamente promuove. Partecipare alla vita della società e al suo sviluppo – e, perché no, alla critica del modello sociale esistente – è un tema decisamente complesso. Non è affatto scontato che lo si possa ridurre a un set predeterminato di competenze e che, a sua volta, tale set sia misurabile attraverso un test da svolgersi in tempi limitati. Definire cosa vuol dire «essere ben preparati a vivere in società» è un compito complesso che può essere portato avanti solo rispetto a una ben precisa idea di società. Fornire tale idea di società al di fuori di un compiuto dibattito educativo e democratico è una scelta che pone l’educazione in una sfera non compiutamente democratica. In altri termini: qual è il tipo di società rispetto alla quale l’OCSE giudicherebbe tale preparazione? Il problema che l’OCSE sembra ignorare è che, soltanto limitandosi a ciò che oggi chiamiamo “Occidente”, esistono modelli diversi di società e di vita ai quali ispirarsi. Inoltre, una parte essenziale dello stesso concetto di democrazia sta nella continua discussione e deliberazione intorno a cosa voglia dire vivere insieme e formare una società. Il punto che si vuole sostenere è che, attraverso lo schermo dell’oggettività, l’OCSE stia compiendo un’indebita intrusione nei compiti specifici della democrazia, limitando fortemente, di fatto, le forme e il peso del continuo dibattito democratico intorno a temi essenziali e vitali come l’educazione e le politiche scolastiche.

È importante notare come tali affermazioni non siano limitate a pochi o poco rilevanti documenti dell’OCSE. È possibile, infatti, trovare simili passaggi tanto in punti chiave del web (l’homepage dell’OCSE, ad esempio), tanto nelle pubblicazioni che l’OCSE produce (2011; 2014c). Detto altrimenti, non siamo di fronte ad affermazioni episodiche, secondarie, ma a una precisa politica, che intende affermare un preciso concetto di educazione e società.

È bene chiarire che affermare tale concetto non è di per sé né errato né illegittimo; anzi: come esplicitato in precedenza, il concetto stesso di educazione si fonda sulla dipendenza dell’educativo da un impianto valoriale. Si educa, sempre, per qualcosa, che lo si sappia o meno. Ma è proprio qui che l’impianto dell’OCSE mostra una chiara debolezza pedagogica: l’OCSE sembra ignorare tale dimensione valoriale. Nell’impianto di PISA esiste un chiaro vuoto etico: la formazione delle studentesse e degli studenti, in ogni Stato, viene ridotta a un set di specifiche skills. Non che queste non siano importanti: solo attraverso il padroneggiamento e l’evoluzione di specifiche abilità donne e uomini riescono a confrontarsi con il mondo e fra di loro e, così facendo, riescono a costruire una società e un’esistenza propriamente umane. Secondo la lezione deweyana è esattamente attraverso l’intelligent action che l’essere umano si distanzia dall’animale e “libera l’esperienza dall’abitudine e dalla ripetitività” (Dewey, 1917, p. 63, trad. mia). Il problema è che tutto ciò avviene solo grazie a un telos, un fondamento etico che sostanzia tali capacità e competenze, ma che, ancora di più, indica quali competenze sviluppare e, soprattutto, in vista di quale scopo. Ciò che l’OCSE non esplicita, detto in termini più chiari, è esattamente tale impianto.

È importante, pertanto, comprendere qual è questo concetto di educazione e di società che l’OCSE promuove. A tale proposito analizziamo le parole dell’OCSE che, forse, più di ogni altra cosa appaiono elucidare tale questione: «La globalizzazione e la modernizzazione stanno ponendo sfide crescenti e complesse, tanto agli individui che alle società nel loro insieme. L’interconnessione fra Stati e popoli, i rapidi cambiamenti tecnologici sui luoghi di lavoro e nella vita di tutti i giorni e la disponibilità istantanea di un’enorme mole di dati e informazioni sono solo alcuni fra i fattori che contribuiscono ala creazione di tale domanda. Nel mondo globalizzato, le persone competono a livello internazionale e non semplicemente locale. […] Oramai la competizione ruota intorno al capitale umano e intorno al vantaggio competitivo generato dalla conoscenza» (OCSE, 2011, p. 14).

Schematizzando l’analisi di tale documento e il ragionamento complessivo, si può affermare come il concetto di società, educazione e conoscenza che l’OCSE persegue e promuove appaia fondato su tre assunzioni preliminari, su tre idee-guida:

  1. una visione economicistica della conoscenza umana: la conoscenza è ridotta a conoscenza che genera «vantaggi competitivi» (Ibidem) e così l’essere umano è ridotto a «capitale umano» (Ibidem);
  2. il valore guida – se non proprio l’unico – da promuovere attraverso l’educazione è la competizione; attraverso la competizione studentesse e studenti in tutto il mondo contribuiscono, contemporaneamente, alla propria crescita personale, alla propria affermazione individuale e all’avanzamento della società - l’OCSE sembra ignorare il lato cooperativo dei processi di apprendimento e, a maggior ragione, dei processi di crescita e sviluppo;
  3. il modello di società da promuovere, sostenere, sviluppare è già predeterminato – quello post-fordista, neo-liberale; visioni alternative di società non sono contemplate nel modello OCSE e, ancora più importante, non è contemplata la discussione su tali modelli. Lo strumento PISA che l’OCSE promuove sembra incarnare in pieno il deficit democratico dell’evidence-based education evidenziato da Gert Biesta (2005; 2007a; 2007b; 2012).

Detto altrimenti, PISA appare essere uno strumento attraverso il quale promuovere il racconto o la “narrativa” dei sistemi neo-liberali (Alexander, 2011; Au, 2011; Nichols e Berliner, 2007; Rizvi e Lingard, 2010). Parte fondante, centrale di tale narrativa è l’essere una narrativa implicita, nel senso che il nascondimento dell’impianto valoriale è funzionale, come Foucault ci ha insegnato, alla sua riproduzione. E proprio l’opera di Michel Foucault può essere un utile strumento di smascheramento di tale racconto. In particolare la categoria foucaultiana di «governamentalità» (Foucault, 1997, p. 78) sembra elucidare diversi aspetti del modello PISA. Uno dei temi centrali della critica foucaultiana, com’è noto, è la strettissima interdipendenza fra potere e conoscenza. Tale interdipendenza non è da intendersi semplicemente nel senso in cui il sapere genera un potere. In Foucault potere e conoscenza vengono al mondo, per così dire, insieme e costituiscono quello che il filosofo francese definisce un «campo di visibilità» (Foucault, 1997). Tale campo consente la visibilità e, più radicalmente, l’esistenza stessa di alcuni «oggetti», nascondendone altri. Lo stesso soggetto si costituisce all’interno e per l’intervento di tali campi – il soggetto è, in qualche modo, funzione del dominio discorsivo esistente. Adesso il modello PISA sembra rispondere pienamente alla categoria di «governamentalità» attraverso la quale il potere-sapere riproduce se stesso, producendo, nello stesso tempo, la soggettività degli individui. Tale governamentalità è, infatti, contemporaneamente, una «forma razionale», un «gioco strategico» e una «procedura tecnica» messa in atto da un apparato di sapere-potere. Tale forma si presenta come ineluttabile, unica e, in qualche modo, autofondata (Foucault, 1997, p. 202). Tale forma produce, allo stesso tempo, una forma di potere – assoggettamento e divenire-soggetto degli individui – e una forma di sapere, che rinforza e legittima tale potere. Ciò non significa che tale forma sia effettivamente ineluttabile: il soggetto può uscire da essa, sfidarla, producendo nuove forme di sapere-potere, che in Foucault è l’esercizio di libertà al quale il soggetto è chiamato. Proprio tale alternativa sembra essere elisa dal modello PISA prodotto dall’OCSE. A questo punto possiamo agganciarci alla sopraccitata critica al DDL in questione.

Massimo Baldacci, nella sua analisi del DDL La buona Scuola, ha prodotto una critica che, non a caso, sembra tagliata apposta per evidenziare anche le debolezze del paradigma PISA: «[L]’accento sulla formazione dei futuri produttori sembra concepito secondo un’ottica funzionalista che subordina la scuola alle esigenze dell’economia, trascurando il versante della formazione del cittadino, che in un Paese democratico dovrebbe rappresentare sempre la preoccupazione prioritaria. In secondo luogo, lo stesso nesso tra scuola e mondo del lavoro sembra concepito in forme meccaniche ed eccessivamente dirette, improntato a una preoccupazione per la formazione di competenze immediatamente spendibili nel lavoro. In questo modo, si dimentica che la rapidità dell’obsolescenza delle conoscenze e delle tecnologie rischia di rendere superate tali competenze in pochi anni. Com’è stato teorizzato da più parti, la stessa formazione del produttore va ripensata mettendo al primo posto la flessibilità cognitiva e la capacità di apprendere, disapprendere e riapprendere competenze e abiti mentali per tutta la carriera professionale» (Baldacci, 2015).

Come accennato nell’introduzione, diversi sono i punti di interesse presenti in questa citazione. Il passaggio di Baldacci si muove su due diversi livelli: il primo, più ampio e comprensivo, riguarda il come debba essere concepito il rapporto scuola-società-economia; il secondo, più specifico, concerne le modalità nelle quali i processi di apprendimento agiti e sviluppati nelle scuole vanno intesi per essere effettivamente funzionali al mondo del lavoro. Baldacci evidenzia quindi un doppio deficit in tale DDL – e, spostando e trasferendo l’analisi sull’OCSE, un doppio deficit di PISA. Ciò su cui ci si vuole focalizzare in questo contributo è il primo dei due livelli, che attiene alla visione complessiva che l’OCSE fornisce dell’educazione e alla promozione di tale visione.

La penetrazione di PISA all’interno degli Stati, delle regioni, delle scuole e, in alcuni casi, persino delle famiglie, in altri Paesi chiamate a scegliere le scuole sulla base di ranking predeterminati, è un chiaro indizio di tale visione. In Inghilterra e Stati Uniti, da tempo, le scuole vengono classificate sulla base di test nazionali modellati su PISA e tale ranking ha un effetto molto forte sulle scelte familiari riguardo la “scuola migliore” (Au, 2008). Sempre negli Stati Uniti e in Gran Bretagna ci sono state e ci sono tuttora proposte finalizzate a fare in modo che lo stipendio dei docenti sia agganciato ai risultati conseguiti dagli alunni nei diversi test nazionali anch’essi modellati su PISA – proposte simili, seppure con diversa enfasi, ci sono state anche in Italia.

A tale proposito è bene sottolineare come l’OCSE stia sviluppando, a partire dal 2014, un test specifico per valutare il grado di efficienza, qualità ed equità delle singole scuole (OECD, 2014a; 2014b; 2014h). Tale test – che è ancora in fase di sperimentazione – è ovviamente volontario. Cionondimeno, nel caso tale procedura dovesse essere implementata con successo, avremmo un ranking delle scuole per ogni singolo Paese appartenente all’OCSE, ranking fondato, esclusivamente, sui risultati PISA. A tale proposito può essere utile analizzare le parole con cui l’OCSE presenta questo nuovo strumento: «Ci si attende che il Test-PISA per le scuole – PISA-Based Test for Schools, in originale – fornirà l’opportunità di identificare cosa effettivamente funziona – what works, in originale –, così da migliorare i processi di apprendimento nelle scuole e fornire migliori abilità per una vita migliore. Oltre a valutare se e quanto gli studenti siano in grado di applicare le loro conoscenze a situazioni di vita reale, tale test identificherà se e quanto le studentesse e gli studenti sono in grado di partecipare attivamente alla vita della società odierna. […] Tale valutazione […] è essenziale per identificare il tipo di conoscenze e abilità necessarie in un mondo che cambia in modo estremamente rapido» (OECD, 2014h).

L’OCSE, come esplicitato, enfatizza che tale test è volontario, ma la questione, a mio avviso, non è così semplice e piana. La differenza fra cosa è volontario e cosa non lo è non è semplicemente riducibile a termini strettamente legali e formali – cosa le scuole sono obbligate e fare e cosa no, cosa i professori debbano fare per contratto e cosa no, quali siano gli obblighi formali delle istituzioni e quali non lo siano. Chiunque abbia avuto esperienza educativa istituzionale, nelle scuole, nelle università, negli enti preposti allo sviluppo di politiche educative sa perfettamente almeno due cose diverse e complementari:

  1. la distinzione fra l’obbligatorio e il volontario non è sempre pragmaticamente chiara – né, forse, può esserlo – nel senso che tante attività non strettamente e formalmente obbligatorie sono sentite e agite come tali da insegnanti, famiglie e studenti. Basti pensare alla distinzione fra scuola dell’obbligo e istruzione superiore: di fatto, per molte famiglie, il completamento dell’istruzione almeno fino alla fine della scuola superiore è sentito come un dovere e poco vale l’obiezione che tale completamento non è parte dell’obbligo scolastico: di fatto – e, forse, per fortuna – in strati sempre più ampi della popolazione tale completamento è un obbligo etico e culturale al quale rispondere;
  2. senza il “lavoro volontario” quotidiano di educatori, insegnanti e di molte professionalità impegnate, a vario titolo e a vari livelli, nei processi educativi e nella prassi del “fare-scuola”, il nostro sistema di istruzione avrebbe difficoltà anche nel raggiungimento dei suoi obiettivi minimi.

Detto questo ciò che va analizzato, pertanto, non è tanto se una procedura, una prassi sia obbligatoria o facoltativa su base strettamente formale; ciò che va analizzato è, pragmatisticamente, l’effetto dello sviluppo, dell’attuazione di tale prassi o procedura sulla vita di studenti, famiglie e scuole. È opinione di chi scrive che l’implementazione di strumenti unilaterali atti a stabilire ranking fra scuole diverse, per territorio sul quale insistono, per tipologia, per storia, possa legittimare e amplificare evidenti disparità e ineguaglianze, se non addirittura produrne di nuove. Detto in modo diretto: è consapevole l’OCSE che in alcune realtà – e non solo italiane – condurre e ri-condurre studenti e alunni nelle classi, evitandone il drop-out, è un “successo” estremamente rilevante? Detto in termini – forse – teoreticamente più accettabili: è consapevole l’OCSE che è possibile classificare solo entità omogenee e che i territori dei diversi Stati membri non lo sono affatto? Probabilmente si tratta di una visione e pessimistica o idiosincratica, ma, a giudizio di chi scrive, una tale classifica produrrebbe un effetto legittimante su vecchie e nuove ineguaglianze, correndo il rischio di riportare l’equità scolastica indietro almeno di un quarantennio – a prima dell’opera di Don Lorenzo Milani Lettera a una professoressa.

 

Educazione, riduzionismo e dimensione valoriale: alcune considerazioni

Prestiamo attenzione alle parole di Massimo Baldacci: «Si può asserire che il termine “educazione” si riferisce all’apprendimento, ma resta da esplicitarne il senso e, poiché abbiamo rilevato che l’educazione non si identifica con l’apprendimento ma ne rappresenta una sottocategoria, l’identificazione di tale senso è precisamente ciò che può permettere di specificare che tipo di apprendimento sia quello che si può a ragione definire come “educazione”. […] Così, al livello di un concetto propriamente pedagogico non si considererà semplicemente l’apprendimento come educazione ma, più precisamente, si asserirà che l’educazione si riferisce all’apprendimento che si dà come crescita» (Baldacci, 2007, pp. 53-54, corsivo in originale).

Ciò che appare qui in primo piano, e ciò che viene del tutto omesso all’interno del paradigma e del modello PISA, è che:

  1. l’apprendimento si iscrive nel processo educativo a partire da un’esplicitazione/acquisizione di senso, senza la quale non si dà educazione alcuna – e, forse, se mi è lecito aggiungere un corollario al passaggio di Baldacci, non si dà nemmeno apprendimento, nella misura in cui parte centrale dell’apprendere è l’azione intelligente legata a un contesto di vita;
  2. l’apprendimento è parte del processo educativo – ne è, appunto, «sottocategoria» – e solo quando l’apprendimento si iscrive in un processo di crescita si ha apprendimento-per-l’educazione;
  3. il processo di crescita si inscrive e si sviluppa nel processo educativo, come parte di esso; senza un’analisi adeguata del framework complessivo, pertanto, non è possibile comprendere il tipo di apprendimento necessario per lo sviluppo del soggetto.

Traslando la disamina di Baldacci al paradigma PISA – perché di un vero e proprio paradigma si sta parlando –, ciò che l’OCSE sembra ignorare è il fatto che l’educazione è un processo volto all’agire trasformativo nel suo nucleo più profondo; l’educazione ha sempre un fondamento etico, sia perché affonda le sue radici nella cultura che la ospita sia perché appare strutturalmente orientata a un fine. Educare è agire in vista di un cambiamento, di una trasformazione auspicata e possibile; educare è, quindi, costitutivamente, un’azione progettuale valorialmente orientata. Che lo si voglia o meno, l’educazione è educazione per ciò che si reputa importante, valido, giusto, vero, o semplicemente utile.

Educare, infatti, significa agire per il cambiamento, promuovendolo, alimentandolo o anche, semplicemente, mostrandolo. Educare, quindi, implica l’indicazione al soggetto in formazione di una possibile trasformazione in vista di un fine. Più che mai in pedagogia, anche la teoria – e l’epistemologia rispetto alla quale questa si staglia – ha una valenza prassica, chiama in causa il livello etico, prima ancora di quello teoretico. Pensare possibili modelli o quadri teorici, in pedagogia, non è pertanto un’operazione, per così dire, innocente, poiché sono tali modelli e quadri a indicare direzioni di cambiamento possibili o auspicate.

Qui la riflessione di Luigina Mortari sul “naturale” potere ontogenetico del pensiero è particolarmente opportuna: «proprio il potere ontogenetico del pensiero e dunque del discorso che il pensare rende manifesto obbliga a un uso cauto degli esiti del processo di autoindagine. […] L’azione di autoindagine non si limita a cercare di capire quello che si è e come si è, ma è anche azione esplorativa di altri mondi possibili di pensiero e, allo stesso tempo azione trasformativa su di sé» (Mortari, 2009, pp. 23-24).

Se l’educazione è il modo dell’uomo di progettarsi e progettare, di curarsi e di avere cura dell’altro – tanto che rinunciare ad essa significa rinunciare all’umano –, allora le dimensioni della scelta e dei valori per i quali si sceglie sono, parimenti, modi che fondano l’umano nel suo esser proprio: «Infatti che altro è il processo formativo se non il percorso dialettico fra io e mondo, vissuto nella sua ampia articolazione e pensato e ripensato nel suo attivare eventi (i più svariati, ma significativi per il soggetto, per quel soggetto) e distillato nel suo iter che dà-forma, che instaura un’identità e un atteggiamento di cura?» (Cambi 2010, p. 72, corsivo nell'originale). Scelta e valori,  in questo senso, nascono con l’uomo, non sono ad esso né preesistenti né successivi. In questo senso non si dà una non-scelta, o una scelta che non si radichi in un orizzonte valoriale e culturale. Riconoscersi come soggetti educabili significa riconoscersi come progetti che si compiono scegliendo in vista di sistemi valoriali. Riflettere su questo nesso significa collocarsi nel cuore della riflessione pedagogica; in senso inverso: la riflessione pedagogica è il nucleo fondante della relazione progetto-scelta-sistema di valori-riflessione.

Educare significa, strutturalmente, andare oltre il modello corrente, discutendolo, sfidandolo, mettendolo in discussione. Solo così l’educazione può realizzare quella tensione alla libertà che autori di tempi e tradizioni diverse fra loro hanno visto come caratteristica portante del processo educativo, caratteristica senza la quale lo stesso processo educativo appare destituito di senso. L’educazione, inoltre, è fondata sull’unicità e la differenza del singolo e educare è innanzitutto riconoscere tale unicità e differenza. Detto questo, non si vuole affatto sottovalutare la questione che il soggetto si può manifestare come tale e realizzare se stesso e la propria libertà solo in un orizzonte sociale. L’educazione è, per una parte importante, socializzazione, acquisizione di abiti comportamentali e specifiche abilità. Ma ridurre l’educativo alla sua funzione di socializzazione, all’acquisizione di conoscenze e skills funzionali come l’OCSE, attraverso PISA, sembra voler fare, significa mortificare la funzione più propria dell’educazione.

Il concetto di educazione promosso dall’OCSE attraverso PISA è esclusivo piuttosto che inclusivo; promuove un modello fondato sulla competizione non solo fra diversi Stati, ma anche, a cascata, fra regioni, scuole – e, quindi, fra alunni (Alexander, 2011; Au, 2008; Dorn, 2007; Pons, 2011). Inoltre c’è da considerare il rischio – ben noto alla letteratura scientifica di settore – del teaching-to-the-test (Au, 2008; Bonderup Dohn, 2007; Grek, 2007; Mansell, 2007), e dei riduzionismi legati a tale prassi. I lavori, diversi ma convergenti, di Bonderup Dohn, Grek, Au e Alexander citati in precedenza mostrano con chiarezza come la standardizzazione dovuta alla preminenza di PISA porti al fallimento degli stessi obiettivi promossi dall’OCSE attraverso PISA. Non è obiettivo di questo lavoro effettuare un’analisi dettagliata del tema, ma è bene ricordare, in modo necessariamente sintetico, come quando lo studente sa di essere giudicato sulla base di un test si prepari per quel test che, pertanto, non è più indice di alcuna competenza se non dell’abilità nel superare quello specifico test. Il test, detto altrimenti, non misura null’altro se non la preparazione al test stesso.

Ciò che l’OCSE sembra omettere è il fatto che educare – e educarsi – è costitutivamente scegliere, essere responsabili di opzioni culturali diverse. La scelta non è eludibile, e non per dovere morale, ma perché la vita, l’esistenza stessa si presenta come tale. Il punto è, quindi, come e in base a cosa si sceglie in educazione. La circa il fondamento dell’educazione no riguarda pertanto le certezze a partire dalle quali l’edificio pedagogico prende forma, il terreno granitico sul quale i valori sono fondati, ma, piuttosto, i valori scelti fra altri, le teorie scelte fra altre, i modelli costruiti ex-novo o agiti fra quelli disponibili. Si chiede, in altri termini, un posizionamento etico.

La mobilizzazione di valori e conoscenze, non come semplice adeguamento all’esistente, ma come dinamismo interno della realtà socio-culturale ed economica esistente, rappresenta, oggi, un elemento fondamentale per la comprensione e l’azione educativa, a qualunque livello essa sia agita. Senza tale dimensione non è possibile parlare né di educazione, né di crescita e la scuola, pertanto, rimarrà il luogo della mera riproduzione.

[1] La traduzione dei documenti e delle pubblicazioni OCSE è a cura di chi scrive.

 

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Autore per la corrispondenza

Vasco D’Agnese
Indirizzo e-mail: vasco.dagnese@unina2.it
Seconda Università degli Studi di Napoli Dipartimento di Psicologia Viale Ellittico, 31 81100 Caserta


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