Test Book

Career construction, placement e work engagement. Attualità della pedagogia del lavoro
Career construction, placement and work engagement. Actuality of labor pedagogy

Daniela Dato

Ricercatrice di Pedagogia generale e sociale



Sommario

La pedagogia del lavoro, nella sua duplice dimensione teoretica e prassica, mostra la sua grande attualità nell’epoca della “fine del lavoro”, configurandosi come scienza dell’impegno e della mediazione, capace di intrecciare contesti, persone e saperi; di meticciare modelli, ma anche di promuovere forme di intelligenza, possibilità, immaginari e vocazioni. A partire da tali considerazioni il contributo offre una riflessione verso l’individuazione del preciso ruolo che la pedagogia del lavoro oggi può svolgere nel riallacciare i fili di un rapporto difficile: quello tra formazione e lavoro. Tra le molteplici declinazioni pratiche che essa può progettare e realizzare, può rivelarsi scienza militante nel promuovere orientamento al e sul lavoro attraverso quello che, nel contributo, vien definito “placement pedagogico” e attraverso il “work engagement”. Due precisi processi imprescindibili per la costruzione di progetti di sviluppo professionali e per la promozione di una cultura del buon lavoro in una prospettiva “lifelong”.

Parole chiave

Lavoro, placement, engagement.


Abstract

Work Pedagogy, in its double theoretic and praxis dimensions, shows itself as an important tool for understanding the contemporary age of “end of work”. It can be considered a science for engagement and mediation, able to tie contexts, people, knowledges and models, as well as promoting intelligences, possibilities, scenarios, ambitions. Thence, the essay gives a reflection upon the definition of the specific role that Work Pedagogy can today carry out in re-tying the difficult relationship between education and work. Among the plural practical translation that it can plan and realize, the Work Pedagogy unveils itself as a “militant” science for the promotion of work guidance through pedagogical placement and work engagement, both fundamental for the building of professional development plans and for the promotion of a “good work” culture within a Life Long Learning perspective.

Keywords

Work, placement, engagement.


La pedagogia del lavoro oggi

Che la pedagogia del lavoro sia oggi chiamata a rivestire un ruolo imprescindibile tra le scienze dell’educazione è un dato inconfutabile. Ciò in un panorama sicuramente assai complesso che, più in generale, chiede alle scienze della formazione tutte di traghettare il soggetto verso il cambiamento tra continuità e discontinuità in una prospettiva lifelong e lifewide, di orientarlo ad affrontare inedite sfide personali, formative e professionali, a imparare a riprogettare futuro, partendo da una rinnovata consapevolezza anche etica del partecipare alla riproducibilità sociale (Honneth, 2015).

È una premessa, questa, che parte dalla piena consapevolezza dell’estrema fragilità delle categorie che oggi stiamo affrontando: il lavoro e la formazione. Sappiamo che, per quanto esse siano, per parafrasare una nota enciclica (Giovanni Paolo II, 1981), due «verità perenni» che accompagnano l’uomo dalla storia dell’umanità, sia pure in diverse forme e modelli, oggi più che mai stanno attraversano una profonda crisi. Si pensi alla «crisi silenziosa della formazione» di cui parla Martha Nussbaum, o alla «fine del lavoro», per richiamare Rifkin, entrambi processi che stanno mutando forma tra mantenimento di tratti epocali e inedite trasformazioni.

Non è solo la letteratura scientifica a dircelo. Lo sono le storie di vita quotidiana, nostre, dei giovani, dei Neet, degli adulti esodati, dei disoccupati, come pure le storie degli iter di riforma attualmente in corso.

Basti pensare ai numerosi titoli di giornali che, per primi, ci inducono a prendere un impegno responsabile in quanto formatori. È di più di un mese fa il titolo di copertina del settimanale «l’Espresso» che recitava Chi ci ha rubato la felicità (Vicinanza, 2015) denunciando, a partire da indagini statistiche, l’iperrealismo dei giovani anche rispetto al loro progetto professionale, o ancora il titolo dell’articolo dell’inserto di «la Repubblica», che denuncia come La scuola non (si) orienta (Dell’Oro, 2015) anche in riferimento al rapporto con il mondo del lavoro. Si pensi, ancora, alle ultime dichiarazioni del ministro Poletti sull’età della laurea che certo non possono lasciare indifferente chi crede in una formazione che sia dell’umano e non solo del lavoratore. E si pensi, anche, alle più recenti riforme in materia di lavoro e di scuola che hanno riportato al centro dell’attenzione il rapporto tra formazione e lavoro con specifico riferimento al tema dell’alternanza, anche in questo caso producendo non poche riflessioni critiche e perplessità di carattere pedagogico e didattico.

Del resto, anche a livello internazionale, non sono pochi i documenti che inducono a interrogarsi su come ripensare il rapporto tra formazione e lavoro salvando le buone prassi e le buone teorie, aprendosi, però, alla progettualità di un nuovo futuro. Come, ad esempio, invita a fare uno degli ultimi documenti dell’OECD Skills outlook: Youth, skills and employability, in cui si evidenzia quanto educazione e mercato del lavoro tuttora «co-exist as two separate worlds» e come «it is very difficult for youg people to manage the transition from one to other» (2015, p. 3).

Si legge, ancora, nel rapporto:

"Young people are best integrate into the world of work when education systems are flexible and responsive to the needs of the labour market, when employes are engaged in both designing and providing education programmes, when young people have access to high-quality career guidance and futher education that can help them to mach their skills to prospective jobs, ancd when istitutionalised obstaclese to enter the labour market, even for those with the right skills, are removed". (Ibidem)

Sono parole che mettono in luce la complessità e spesso l’ambiguità esistente tra mondo della formazione e mondo del lavoro, ma che, al contempo, prospettano la possibilità di migliorare la comunicazione e l’incontro tra questi due mondi, soprattutto grazie all’impegno della formazione che può favorire un avvicinamento e un dialogo costruttivo funzionale all’occupabilità dei giovani.

In un siffatto quadro storico-culturale, e diremmo anche educativo, è compito della pedagogia riflettere sul senso e sul significato del lavoro per riconoscere e tracciare un orizzonte interpretativo antropologico e culturale sufficientemente saldo, dal quale ripensare la riprogettazione concreta di teorie, modelli e prassi di apprendimento permanente e di orientamento al e sul lavoro, di occupabilità, di incontro tra domanda di lavoro e formazione e di sensibilizzazione verso tematiche legate al lavoro, in una temperie storica che, come tutti sanno, nel lavoro ha trovato il suo tallone d’Achille.

Questa pedagogia, chiaramente intenzionata a costruire una riflessione teorica e pratica sul lavoro, trova oggi il suo principio di legittimità e articola i suoi pilastri epistemologici a partire dal connubio tra una riflessività complessa, che si radica nelle analisi della trasformatività dell’uomo e del mondo, e una spiccata sensibilità nel saper leggere lo stato materiale delle attuali emergenze storico-produttive.

In quest’azione, la pedagogia del lavoro prende atto, tra l’altro, della trasformazione di ciò che la generazione precedente alla nostra ha chiamato “futuro” (lavoro sicuro e stabile, casa, famiglia, figli, carriera lineare, certezza del diritto, sicurezza del reddito, pensione ecc.) e ne fa il “tragico”, ma anche fertile, humus sul quale potersi attestare come disciplina con un proprio statuto epistemologico e prassico e, prima ancora, come lente di ingrandimento sulla realtà, come alfabeto progettuale “per” un “a-venire” da costruire ricorrendo a un sistema aperto e complesso di saperi, strategie, metodi e competenze orientate a realizzare una vita buona “in” e “di” una comunità e una società.

In tal senso, nell’epoca della mancanza di lavoro, dei Neet, degli esodati, ma anche del lavoro proteiforme e immateriale, del mobbing e di nuove forme di alienazione dei lavoratori, la pedagogia del lavoro, in quanto sapere dal forte carattere “storico”, è chiamata ad affrontare la difficile scommessa, da un lato, di dover educare le giovani generazioni a condividere una nuova cultura del lavoro e della career construction in termini, tra l’altro, di diagnosi degli scenari, sviluppo delle competenze, capitalizzazione delle expertise; dall’altro, di dovere orientare gli adulti a ricostruire, valorizzare quando non reinventare il proprio progetto di sviluppo professionale tra stasi e cambiamento. E ciò, senza tralasciare l’impegno comunitario (anch’esso suo per “statuto”) nel traghettare lo stesso mercato del lavoro e le sue policy verso forme maggiormente etiche e responsabili, verso un lavoro inteso come diritto non solo normativo (la classica interpretazione costituzionale del “diritto al lavoro”), ma anche formativo (l’esigenza di pensare nuove forme per comunicare e dare concretezza al “diritto alla formazione al lavoro”).

 

Formare al lavoro: un passaggio di alta caratura pedagogica

La formazione e l’orientamento al lavoro e sul lavoro sono, allora, un passaggio di alta caratura pedagogica nell’attuale società del meta-cambiamento (Bauman, 2003), che richiede un altrettanto elevato livello di impegno e responsabilità teso a «portare a sistema l’educazione alla cultura del lavoro e all’autoimprenditorialità» (MIUR, 2014).

Dal momento dello sviluppo di competenze autorientative per la costruzione di un progetto di sviluppo personale, formativo e professionale, all’ingresso nel mondo del lavoro, alla formazione in servizio, sino ai temi caldi dei Neet che necessitano di essere accompagnati e di sviluppare competenze di agency e capacitazione, alla complessa e contraddittoria condizione di un’età adulta che si confronta (e spesso si scontra) con situazioni di licenziamento prematuro, mobilità, riposizionamento, riorganizzazioni aziendali, la pedagogia del lavoro prende le mosse per cercare di costruire un ponte tra “potenzialità” e “occupabilità”, che renda più efficace la comunicazione delle istanze economico-produttivo-sociali provenienti dal mondo del lavoro con quelle progettuali-esistenziali-personali emergenti dal mondo della formazione.

Nella costruzione di questo incontro (e di questo dialogo) la pedagogia del lavoro investe le proprie risorse interpretative e applicative facendosi portatrice dei valori dell’engagement e della mediazione tra questi due mondi promuovendo, a tutti i livelli e in tutte le occasioni, un orientamento che – si legge nelle Linee guida per l’orientamento permanente – «non può essere […] limitato alla dimensione psicologica e individuale della conoscenza di sé, ma deve estendersi a una proiezione sociale e culturale con riferimento alle comunità di appartenenza, all’identità sociale e professionale, alla memoria storica, ai valori condivisi e all’etica del lavoro» (MIUR, 2014).

Si tratta, dunque, di percorsi di orientamento integrati e sistemici, diacronico-formativi; percorsi di promozione delle capacità, di sostegno ai progetti personali e professionali dei singoli, finalizzati a facilitare la pratica di comprensione, mediazione, interpretazione dei comportamenti personali da ricondurre all’interno di una nuova riflessività professionale improntata al self-knowledge management, potendo così tradurre ogni esperienza in nuovo apprendimento e risorsa cognitiva ed emotiva. Così, al fianco di interventi di orientamento finalizzati alla formazione di competenze di ricerca attiva del lavoro, di placement e autoplacement, di self-marketing, di aggiornamento professionale e di riqualificazione, è necessario considerare anche e soprattutto quegli interventi di orientamento utili alla riprogettazione delle epistemologie personali e professionali, ovvero tesi a ricostruire nuove biografie utili a fronteggiare le crescenti complicazioni legate alle istanze del rischio, della precarietà, della crisi e, più in generale, della complessità.

L’intento pedagogico è, dunque, quello di promuovere una cultura educativa del lavoro che non sia piegata ai valori del profitto, della produttività e del mercato, ma che rivendichi il primato della dimensione emancipativa del lavoro per il soggetto e per l’intera comunità, riconoscendo in esso il modo eminente attraverso il quale ciascun uomo può entrare in contatto e comunicare al mondo il proprio io. Perché, come scriverà Maria Montessori (1956), già nel bambino «esiste un’irrefrenabile, per quanto dolce, calma, esatta tendenza […] al lavoro» senza il quale non può costruirsi un’identità sana ed equilibrata. «L’uomo – precisa la studiosa – si costruisce lavorando. Nulla può sostituire la mancanza di lavoro: né il benessere, né l’affetto» (p. 262).

Si palesa, allora, un rapporto sempre più stretto e imprescindibile tra formazione e lavoro, non solo come dialogo finalizzato a una migliore integrazione tra offerta formativa e bisogni del mercato del lavoro (problema certamente cruciale) quanto, piuttosto, come sistema teso alla revisione e alla reinterpretazione del lavoro e della sua funzione nella vita del soggetto. Se, infatti, la pedagogia del lavoro deve offrire il suo contributo per migliorare i processi di occupabilità e dunque contribuire alla diminuzione della forbice tra domanda e offerta di lavoro, se deve traghettare pedagogicamente l’emergenza educativa dell’alternanza scuola-lavoro, se deve, ancora, impegnarsi nella promozione di career management skills funzionali all’occupabilità e alla riprogettazione professionale, è però anche vero che non deve mancare di perseguire fermamente il proprio telos che recita dell’emancipazione e del ben-essere del soggetto attraverso la promozione di forme di impegno personale e comunitario verso tale attività.

 

Pedagogia del lavoro e career construction

Per ottemperare a tale sfida, la pedagogia del lavoro non può rimanere imbrigliata in un’autoreferenzialità che la privi di slancio critico e visione strategica, ma deve farsi militante (Dato, 2015), aprirsi al mondo, al confronto con le altre scienze e discipline articolando le proprie cifre teoretiche con la sua specifica vocazione all’agire concreto. Tale dialogicità mette a frutto la sua stessa matrice interdisciplinare che vede l’incrociarsi e l’arricchirsi vicendevole di scienze che hanno per oggetto il lavoro, la formazione, i sistemi sociali produttivi, l’autorealizzazione di uomini e donne.

Nell’opera di mediazione di saperi, di metodi di ricerca, di formae mentis e di prassi operative essa promuove processi di ri-progettazione, innovazione, pianificazione, programmazione e formazione di uomini e donne, di sistemi e organizzazioni che sappiano guardare al lavoro come spazio di generatività personale e sociale, come volano di una cultura d’impresa improntata alla responsabilità sociale, come occasione per la costruzione di reti di conoscenza, di pratiche da diffondere e condividere al fine di ottimizzare le competenze e le risorse. Questa prospettiva, chiaramente vincolata a una temperie storica che, in qualche modo, ha portato la riflessione sul lavoro a tornare su se stessa per valorizzare dimensioni altre rispetto alle teorie classiche, rende conto di come una pedagogia del lavoro debba porsi come un sapere che svolge un ruolo sociale essenziale, «quello di aiutare a ricostituire una nuova pensabilità per il singolo e per la società nella loro “normalità” [...] essa può offrirsi, proprio come struttura concettuale disciplinare, come l’apparato per pensare i pensieri, in questo caso di una società che si è smarrita dopo il crollo dei modelli tradizionali, come se, caduti quei modelli, fosse crollato anche l’apparato per pensare [...]. Ora occorrerebbe promuovere – e la pedagogia potrebbe assumere, insieme alle altre scienze, un ruolo di guida importante in questo – la costruzione di un nuovo apparato per pensare, basato su un contenitore di nuovo tipo, che accolga, metabolizzi, rielabori, sostenga nella creazione di confini e limiti flessibili» (Riva, 2012, p. 43).

Indubbiamente, allora, il fine ultimo della pedagogia del lavoro risulta essere l’emancipazione del soggetto attraverso la valorizzazione della dimensione formativa e trasformativa del lavoro. Un lavoro che, evidentemente, è riconosciuto non solo come «inestricabile miscuglio di dolore e creazione» ma anche, pur nella sua ambiguità e complessità, come strumento ineludibile di una vita «buona». Definendolo come strumento di «assoluta miseria» e, al contempo, di «assoluta possibilità di ricchezza», Marx ne aveva individuato la sua forma contraddittoria in quanto spazio di alienazione e di emancipazione. Come, su un’altra sponda e a un secolo di distanza, si era sentita la necessità di puntualizzare, evidentemente riferendosi a una realtà mancante di quanto auspicato, come le «varie azioni appartenenti al processo del lavoro […], indipendentemente dal loro contenuto oggettivo, devono servire tutte alla realizzazione della sua umanità, al compimento della vocazione a essere persona, che gli è propria a motivo della stessa umanità» (Giovanni Paolo II, 1981).

Obiettivo della pedagogia del lavoro è, allora, pensare modelli e prassi operative capaci di cogliere lo stretto e inscindibile legame tra lavoro e vita, tra lavoro, giustizia ed equità, tra lavoro e salute, tra lavoro e inclusione, laddove questo si configuri nella sua generatività e non, invece, attraverso le ombre dell’alienazione, dello sfruttamento, dell’abbrutimento, dell’usura e della privazione, considerandolo non un semplice prodotto dell’azione umana ma parte del processo che realizza l’umanizzazione dell’uomo.

Sono, del resto, le più recenti teorie di Guichard e di Savickas, l’una, più generale, sul life design, l’altra, più specifica, ritagliata sull’ambito professionale della career construction, a invitarci a cogliere la processualità dell’attività lavorativa, nonché la partecipazione attiva del soggetto al suo processo di costruzione di un progetto di vita e/o professionale, che lo vede agente proattivo in grado di auto-organizzare e gestire le esperienze e le competenze che da esse derivano.

La carriera è così intesa anche come storia formativa, frutto di un processo complesso che coinvolge il soggetto, le sue scelte, i suoi progetti, senza soluzione di continuità, mettendo in gioco competenze complesse che vanno oltre la sola specializzazione tecnico-professionale.

Essa è l’esito più o meno felice di un progetto che poggia su impliciti culturali acquisiti in famiglia, a scuola, nella comunità di appartenenza, così come sull’acquisizione più o meno efficace di career management skills utili ad analizzare, selezionare, condurre a sintesi in modo autonomo tutte le informazioni sul mondo dell’istruzione, della formazione e del lavoro, come anche a «prendere decisioni e affrontare i momenti di transizione. La formazione a tali competenze può aiutare gli individui a gestire percorsi di carriera (formativa e professionale) non lineari» (MIUR, 2014).

In tal senso, uno degli obiettivi dichiarati e ormai condivisi da parte delle istituzioni formative, in primis scuola e università, è la necessità di promuovere quelle skills utili al soggetto a supportare la «capacità di orientamento al lavoro», quell’«insieme di competenze che forniscono, a individui e gruppi, modalità strutturate per raccogliere, analizzare, sintetizzare e organizzare autonomamente informazioni in materia di istruzione e lavoro, nonché per prendere decisioni e affrontare i momenti di transizione. Si tratta di competenze necessarie ai cittadini per poter gestire le complesse transizioni che caratterizzano i diversi percorsi educativi, formativi e occupazionali» (Rete Europea per l’Orientamento Permanente).

Esse chiamano in gioco tre macrocategorie di competenze:

  • personal management: insieme delle competenze utili a costruire e mantenere un’immagine positiva di se stessi; di comprendere che influenza ha tale percezione di sé sulla propria vita e sul lavoro; sviluppare abilità per costruire relazioni positive nella propria vita; imparare a rispondere al cambiamento e sviluppare strategie per rispondere ad esso;
  • exploring learning: insieme delle competenze utili a partecipare agli obiettivi dell’apprendemento permanente; legare e coniugare l’apprendimento permanente alla costruzione del proprio percorso di carrirea; individuare, interpretare, valutare e usare concretamente le informazioni; comprendere la relazione tra lavoro, società ed economia, e come i bisogni economici e sociali influenzano la natura e la struttura del lavoro;
  • work and life/work building: insieme delle competenze utili a cercare, ottenere e creare un lavoro, esplorare e mettere in gioco il proprio decision making, elaborare e avere il controllo del proprio processo di carriera, essere in grado di bilanciare vita privata e lavoro, ecc. (Sultana, 2012).

Si tratta di competenze che, come hanno sottolineato gli studi in precedenza richiamati, al fianco di altri più recenti sull’orientamento, sulla formazione e sui modelli organizzativi, devono e possono essere coltivate sin dai primi anni di vita, contribuendo a costruire gli stili relazionali e interpretativi dei soggetti in formazione, potendo influire positivamente o negativamente anche sulla “carriera”, intesa qui non solo come sequenza di ruoli e funzioni professionali ricoperti da un soggetto nel corso della sua vita, ma anche come “storia di formazione”. È sin dai primi anni di vita (in primo luogo, ad esempio, in famiglia confrontandosi con un padre e/o una madre lavoratori e con la percezione che questi hanno del proprio lavoro, con le credenze e gli atteggiamenti che lo riguardano, con gli stereotipi professionali che comunicano, ecc.) che il bambino comincia costruire quelle competenze che incideranno, in futuro, sulle proprie scelte professionali (Eccles, 1993), sulla costruzione di un suo preciso modello di vita, di lavoratore e, conseguentemente un modello di «buon lavoro», orientato, cioè, all’eccellenza, all’etica e al benessere (Gardner, 2009; 2010; Dato, 2014).

 

Placement pedagogico e work engagement

Ora, è chiaro come siano estremamente ampie e diversificate le possibili problematiche che la pedagogia del lavoro può elevare a proprio oggetto di studio e di intervento formativo in vista dell’obiettivo appena descritto. Tuttavia riteniamo che possano essere indicati due precisi processi imprescindibili per la costruzione di progetti di sviluppo professionali e per la promozione di una cultura del buon lavoro in una prospettiva lifelong.

Il primo è un processo che accompagna soprattutto i più giovani alla scelta professionale: il placement. Il secondo, invece, è un processo più specificamente dedicato all’adulto lavoratore: il work engagement.

Sono due esempi concreti di orientamento (il primo “al” e il secondo “sul” lavoro), che operano con una logica che allontana dai rischi di una deriva quantitativa e funzionalistica-operativa che spesso molti processi odierni di orientamento mettono in atto implicitamente.

Un orientamento al «buon lavoro» nega, infatti, ogni politica che releghi le azioni formative a sole soluzioni di tipo emergenziale, ripartivo o palliativo, prive di respiro progettuale e proiezione esistenziale. Siamo, dunque, ben lontani da quella che negli anni Settanta del Novecento Watzlawick, Weakland e Fisch chiamavano Relevance, ovvero quel principio in base al quale doveva essere valutato e realizzato ogni tipo di formazione, contraddistinta da una «corsa a ciò-che-serve», appiattita sulla «forte richiesta di nozioni che siano immediatamente utili nella vita [negando i più] complessi problemi con cui per secoli hanno cercato di venire a patti i pensatori e gli insegnanti più illuminati» (Watzlawick, Weakland e Fisch, 1974, p. 57; Dato, Cardone e Mansolillo, in corso di stampa). Si tratta, allora, di fare propria un’idea educativa che, come direbbe Massimo Baldacci (2014), nell’abilitare il soggetto in formazione a stili di pensiero, formae mentis, competenze operative, abilità interpretative persegua la formazione non tanto del produttore quanto del cittadino.

Più nello specifico, l’idea di placement alla quale facciamo riferimento è un “placement trasformativo”, secondo quanto Mezirow ci ha insegnato. Un placement che assume una dimensione pedagogica perché orientato al cambiamento, all’emancipazione; che rifiuta un uso strumentale delle attività di orientamento e fa propria tutta la pregnanza formativa che la dimensione orientativa ha rispetto alla finalità più generale di formare una persona capace di governare criticamente e creativamente i processi di costante cambiamento che la coinvolgono a livello individuale e comunitario.

Preciso obiettivo del placement pedagogico è, in tal senso, la promozione nei giovani, prima ancora che di competenze di ricerca attiva del lavoro, di strumenti di conoscenza di sé, di decision making e problem solving utili a sviluppare competenze progettuali in merito al proprio futuro personale, formativo e professionale.

D’altro canto, il work engagement (Schaufeli, Dijkstra e Borgogni, 2012; Schaufeli et al., 2002) al quale ci riferiamo è proprio frutto anche di processi di placement efficaci e rappresenta la dimensione della cura per il «capitale d’identità» (Coté e Levin, 2002) dei lavoratori. Già in un’altra sede (Dato, 2014) abbiamo richiamato l’importanza della tutela e della promozione di un work engagement, ovvero di quello stato emotivo e motivazionale positivo che il lavoratore assume nei confronti del proprio lavoro e che è esattamente l’opposto di uno stato di stress e burnout (Bakker e Leiter, 2010) e che consente al lavoratore di sviluppare un senso di appartenenza e di responsabilità rispetto al lavoro svolto. I capisaldi che lo connotano sono il «vigore», la «dedizione» e l’«immersione» (Schaufeli et al., 2002), ovvero rispettivamente il livello di perseveranza, di resilienza e di volontà del lavoratore, il significato che il soggetto attribuisce al proprio lavoro e il livello di coinvolgimento che esso implica e, infine, la concentrazione e il forte senso di responsabilità che il soggetto dedica al lavoro che svolge.

Placement pedagogico e work engagement rappresentano due processi evidentemente interconnessi, che possono contribuire a promuovere la costruzione attiva della vita professionale e sostenere lo sviluppo di quella che Savickas (2014) ha definito «adattabilità professionale». Essa è caratterizzata, secondo lo studioso, da dimensioni precise:

- la preoccupazione verso il futuro che comporta capacità previsionale e di pianificazione;

  • il controllo professionale, che nasce dalla presa di consapevolezza del lavoratore che almeno in parte si può essere attori dei processi che si vivono;
  • la curiosità professionale, una curiosità epistemica, una formae mentis divergente e aperta al confronto, al mondo;
  • la fiducia nelle proprie capacità, una forma di resilienza e di perseveranza rispetto alle sfide, ai problemi, agli ostacoli che si possono incontrare;
  • la cooperazione, cioè la capacità di lavorare in team agendo non solo per se stessi ma anche per gli altri.

Tutte dimensioni che, sappiamo, non sono innate o legate solo a un talento e a una vocazione, ma possono essere apprese attraverso interventi formativo-orientativi idonei ad attivare nei soggetti, sin dai primi anni di vita, a scuola innanzitutto, sul lavoro poi, capacità di monitorare, riprogettare e capitalizzare le proprie risorse – cognitive ed emotive – e integrare competenze tecnico-professionali e trasversali.

L’impegno della scuola nella formazione di base, dell’università nell’alta formazione e nell’aggiornamento e l’orientamento sul lavoro riveste uno spazio privilegiato in cui tali azioni e tali processi possono essere promossi, perseguiti e realizzati. Sono, questi, in una prospettiva lifelong e lifewide, i luoghi deputati allo sviluppo di quella cultura educativa che potrà restituire dignità al lavoro e ai lavoratori.

Sono quegli spazi, fisici e sociali, in cui la pedagogia del lavoro può assolvere al suo compito formativo: riavvicinare e integrare il cittadino con il produttore, il lavoro con la democrazia (Baldacci, 2014) per promuovere cittadinanza e inclusione, facendo del lavoro non solo un “compito” o una “necessità” o una semplice “fonte di sostentamento”, ma anche un metodo di vita, di apprendimento, di engagement personale e di comunità.

 

 

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Autore per la corrispondenza

Daniela Dato
Indirizzo e-mail: daniela.dato@unifg.it
Università di Foggia Dipartimento di Studi Umanistici Via Arpi, 155 71100 Foggia


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