Vol. 11, n. 1, aprile, 2025

Teorie pedagogiche

L’immagine come mediatore di conoscenza nel medioevo. Una pista di ricerca per la storia dell’educazione

Luca Odini1

Sommario

Nel contributo cercheremo di inquadrare, dal punto di vista teorico, la funzione dell’immagine come fonte nella storia dell’educazione nel medioevo. Dopo avere esaminato l’importanza e l’evoluzione dell’utilizzo di una fonte come quella visuale per la storia dell’educazione, cercheremo di cogliere la funzione dell’immagine all’interno del contesto medievale, evidenziandone le ricadute dal punto di vista educativo. Oltre all’aspetto teorico esamineremo il suo ruolo non solo come oggetto tra gli oggetti, ma anche altri tre elementi che la costituiscono: il suo referente, il suo ruolo di immagine che si ricostruisce nella mente del referente, e la sua funzione nelle interazioni sociali. Dopo avere inquadrato questi aspetti, individueremo alcune possibili piste di ricerca per valorizzarne al meglio importanza e significatività nella storia dell’educazione.

Parole chiave

Storia dell’educazione, Fonte visual, Immagine, Iconografia medievale, Ruolo dell’immagine.

PEDAGOGICAL THEORIES

The Image as Mediator of Knowledge in the Middle Ages. A Research Path for the History of Education

Luca Odini2

Abstract

In this contribution we will frame, from a theoretical point of view, the function of the image as a source in the history of education in the Middle Ages. After examining the importance and the evolution of the use of a source such as the visual for the history of education, we will try to grasp the function of the image within the medieval context, highlighting its repercussions from an educational point of view. In addition to the theoretical aspect, we will investigate its role not only as an object among objects, but also the other three elements that constitute it: its referent, its role as an image that is reconstructed in the referent’s mind, and its function in social interactions. After framing these aspects, we will identify some possible research paths to enhance their importance and significance in the history of education.

Keywords

History of education, Visual source, Image, Medieval iconography, Role of the image.

Introduzione

Nel contributo che segue cercheremo di inquadrare, dal punto di vista teorico, una pista di ricerca nell’utilizzo dell’immagine come fonte nella storia dell’educazione nel medioevo.

Se, infatti, appare indubbiamente vero che l’immagine non può che essere colta come un oggetto tra gli oggetti, non possono essere ignorati anche altri tre elementi che la costituiscono: il suo referente, il suo ruolo di immagine che si ricostruisce nella mente di chi la guarda e la sua funzione nelle interazioni sociali.

Dopo avere inquadrato questi aspetti, cercheremo di comprendere come sia possibile impostare un lavoro di ricerca che, partendo dalla ricostruzione del quadro teorico di riferimento, possa condurre a un’analisi di fonti visuali non ancora utilizzate nel campo della storia dell’educazione che mostrano potenzialità di assoluto interesse.

La fonte visual nella storia dell’educazione

Come sappiamo, l’utilizzo della fonte visiva nella storia dell’educazione è piuttosto recente. I lavori di Becchi (1994, 2011) hanno portato in Italia quell’aria che si era iniziata a respirare in contesto europeo a partire dalla conferenza Ische (International Stranding Conference on History of Education) di Berlino del 1995.

Depaepe e Henkens (2000) hanno ben mostrato le sfide della fonte visiva nella storia dell’educazione e Dussel e Priem (2017), quasi vent’anni dopo, hanno evidenziato tutte le potenzialità che questa fonte poteva portare nel campo storico educativo.

Studi come quelli di Grosvenor (1999), Mietzner (Mietzner, Myers e Peim, 2005), Pozo Andrés e Braster (2019) hanno segnato momenti importanti nel percorso di utilizzo di questa fonte, e anche in Italia questo filone si è sviluppato portando a esiti decisamente interessanti; pensiamo, ad esempio, agli studi di Meda (2018) o agli sviluppi di Polenghi (2018) e Alfieri (2019).

Per quanto riguarda la storia medievale non sono mancati approfondimenti in questo senso: pensiamo ad esempio a Le Goff (1985), Eco (1986) e Schmitt (2008).

Tuttavia, questo approccio ha influenzato solo marginalmente la storia dell’educazione nel medioevo, campo, questo, che al netto di alcune eccezioni come Xodo (1980) e Giallongo (1995), rimane ancora poco studiato, nonostante alcuni studiosi ne abbiano mostrato le potenzialità: per citarne solo alcuni, pensiamo a Rosso (2018) e Frugoni (2017).

L’immagine e il medioevo

Una storica come Frugoni (2017) mostra quanto possa essere ricco il contributo che una fonte di questo tipo può dare alla storia dell’educazione. Tuttavia, si percepisce ancora l’enorme mole di lavoro che si debba fare per riuscire ad affrontare in maniera scientificamente fondata l’utilizzo dell’immagine nel medioevo. Questa difficoltà proviene, probabilmente, anche dal fatto che tale fonte richiede un approccio che difficilmente è catalogabile a un solo ambito scientifico disciplinare, ma richiede competenze diverse che si intersecano con più settori disciplinari che spaziano dalla storia della filosofia alla storia dell’educazione e alla storia dell’arte.

Alcuni luoghi comuni devono ancora essere sfatati, perlomeno nel vasto pubblico, ed elementi che portano, ad esempio, a leggere l’immagine medievale come la «bibbia degli illetterati» faticano a essere superati, a volte anche in ambito accademico. L’utilizzo dell’immagine come fonte per la storia dell’educazione nel medioevo può, dunque, condurre decisamente in errore se non correttamente impostata.

Oltre al tema dell’immagine in sé, e quindi dello statuto ontologico dell’immagine, per lo storico dell’educazione risulta essere interessante anche un livello epistemico che tratta l’immagine come mediatore di sapere e di conoscenze. L’attenzione che bisogna usare, nuovamente, è quella di impostare correttamente il «problema» dell’immagine, per poi poterne cogliere elementi che possono arricchire il nostro campo.

Ho accennato a livelli e approccio diversi perché, come ha mostrato Baschet (2014, p. 40), l’analisi dell’immagine richiede letture su piani e con strumenti diversi. Abbiamo un livello di base, potremmo chiamarlo così «centrale», che è il livello dell’immagine come oggetto. È indiscutibile che l’immagine, infatti, abbia una sua fisicità, una sua, appunto, oggettualità. Questa oggettualità, però, va contestualizzata in una differente weltanschauung (Gadamer 2004), che ci richiede di cogliere un’immagine nel suo contesto medievale, e di come sia difficile smarcarsi da idee che si sono radicate in noi, come quella che l’immagine potesse costituire, solamente, una «bibbia dei poveri».

Baschet (2014), tracciando una breve storia di come si sia fossilizzata l’idea dell’immagine come bibbia dei poveri, cita, giustamente, il testo di Mâle (1989). Quest’ultimo ricorda come i primi stampatori del XV secolo avessero dato questo nome, biblia pauperum, a un trattato che si diffonderà nel tardo medioevo e che dimostrava, attraverso immagini, la relazione tipologica di episodi biblici dell’antico e del nuovo testamento (Von Heinecken, 1769). A questo punto, però, un paio di considerazioni vanno fatte.

La prima: come ben mostra Baschet (2014, p. 13), «a quel tempo non esisteva finalità estetica autonoma e l’artista non era distinto dall’artigiano, anche se i creatori medievali (artifex, opifex) restavano anonimi meno spesso di quanto si creda».

In secondo luogo, il fruitore e lo studioso che vogliano utilizzare immagini di quel periodo devono sempre ricordare che il concetto di arte che possediamo noi è decisamente diverso da quanto potevano immaginare e sentire nel medioevo (Schmitt, 2002; Belting, 1998).

Questo ci permette di sottolineare che, se vogliamo analizzare l’immagine come oggetto nel medioevo, dobbiamo sempre tenere presente almeno tre livelli che vengono sempre mobilitati:

  1. ogni immagine ha un suo referente, e questo è un aspetto decisamente inevitabile;
  2. l’immagine-oggetto favorisce la creazione di altre immagini che si costruiscono nella nostra mente, immagini mentali;
  3. l’immagine attiva una serie di interazioni sociali.

Tutti questi livelli insistono su problematiche che attraversano e interessano anche il campo della storia dell’educazione.

In buona sostanza, si tratta di sottolineare quello che Baschet stesso evidenzia (2014, pp. 21-22), ovvero che l’immagine non può essere semplicemente letta come un oggetto tra gli oggetti, ma, per essere correttamente compresa, ha bisogno di una lettura complessa, che non si limiti al suo essere oggetto. Essa, infatti, dipende da così tante e molteplici variabili che non possono non essere prese in considerazione. Appare evidente come un’immagine miniata all’interno di un manoscritto avesse una funzione completamente diversa da quella che ritroviamo su una pala d’altare o su un oggetto di culto. Tutti questi elementi non possono essere letti in maniera autonoma, l’uno dall’altro. Ed è altrettanto chiaro come si debba considerare, nell’interpretazione dell’immagine, non solo il suo ruolo o il suo risvolto in ambito sociale e di funzione all’interno di questi meccanismi, ma anche un aspetto quantomeno intellettuale o spirituale (l’immagine che consente di creare immagini mentali), che lega anche alla dimensione dell’ultraterreno.

Dobbiamo quindi contemperare, nell’analisi, due orizzonti: uno verticale e l’altro orizzontale. In quello verticale è presente un movimento che lega il divino all’umano, la matrice con le cose, e in quello orizzontale l’immagine si propone di essere un oggetto funzionale non solo al singolo individuo, ma anche alla collettività. Baschet, allievo di Le Goff, da quasi trent’anni cerca di sottolineare la ricchezza del termine imago nel mondo medievale; il suo primo contributo, in questi termini, risale a una conferenza di Erice (Baschet e Schmitt, 1996), e da allora lo sviluppo dei suoi studi è stato notevole. Cogliendo questa lezione, dunque, non si può effettuare una lettura dell’immagine nel medioevo limitata a un solo punto di vista; a maggior ragione se, come storici dell’educazione, intendiamo utilizzare questa fonte.

Homo in imagine ambulat

Nel 2008, in Francia, insieme al testo di Baschet (2014), è stato pubblicato un altro interessante volume di Boulnois (2008) dal titolo significativo: Au-delà de l’image. Une archéologie du visuel au Moyen Âge. Ve — XVIe siècle. L’autore è uno storico della filosofia, e sembra voler sottolineare aspetti simili a quelli individuati da Baschet, prendendo, però, un sentiero diverso. Il titolo stesso ne è un indizio perché, nel tentativo di rendere la complessità del concetto dell’immagine nel medioevo, l’autore preferisce parlare di un’archeologia del visuale che in qualche modo supera il termine stesso di immagine.

Gli studi sull’immagine nel medioevo sono molti e certamente conosciuti, ma Boulnois compie un viaggio a nostro avviso interessantissimo, che ripercorre testi teologici e filosofici che mostrano la ricchezza del dibattito in corso (nel medioevo) sull’immagine. Il tema e il nucleo fondamentali sono quelli di Agostino nel De Trinitate:

L’immagine di Dio va trovata nell’anima immortale dell’uomo, in cui è immortalmente impressa. Non dunque quella trinità, che ora non esiste, sarà immagine di Dio; nemmeno questa, che un giorno non esisterà più, ma è nell’anima umana, razionale e intelligente, che bisogna trovare l’immagine del Creatore, immortalmente incisa nella sua immortalità. […] Perciò se essa è stata fatta a immagine di Dio, nel senso che può far uso della ragione e dell’intelligenza per comprendere e vedere Dio, è evidente che, dal momento in cui ha incominciato a esistere una così grande e meravigliosa natura, sia che questa immagine sia talmente logorata da non esistere quasi più, sia che sia ottenebrata e sfigurata, sia che sia chiara e bella, non cessa di essere. Finalmente è compassionando la deformazione della sua dignità che la Scrittura dice: Benché l’uomo cammini nell’immagine, tuttavia si agita invano; egli accumula senza sapere per chi raccoglie. La Scrittura non attribuirebbe così la vanità all’immagine di Dio, se non vedesse che ha perduto la sua forma. Questa deformazione, tuttavia, non giunge al punto da far scomparire l’immagine, come lo mostra sufficientemente la Scrittura dicendo: Benché l’uomo cammini nell’immagine. Per questo si può, senza falsarne il senso, enunciare questa frase invertendo le proposizioni; invece di dire: Sebbene l’uomo cammini nell’immagine, tuttavia si agita invano, si può dire: «Benché l’uomo si inquieti invano, tuttavia cammina nell’immagine» (De Trin. XIV, IV, 6).

Questo, sostanzialmente, è un tema da cui non si può non partire se si vuole cogliere appieno il senso dell’immagine nel medioevo. L’immagine medievale, come ricorda Vernant (1983), è una presentificazione, compie il suo ruolo di medium tra questo mondo e la matrice che rappresenta. Questo rapporto tra l’immagine e la sua matrice, o il suo prototipo, potremmo così chiamarlo, si esplicita in maniera del tutto evidente nel sacramento dell’eucarestia. Gli studi di Mazza (2001) a questo proposito ben mostrano come durante il medioevo, a partire dal nono, decimo secolo, si fosse via via sostituita una categoria interpretativa che leggeva il rapporto immagine-prototipo in termini diversi. In somma (e sommaria) sintesi, si passava da un’interpretazione tipologica, comune alle tradizioni patristiche e di sfondo neoplatonico, a un’interpretazione in cui al permanere delle sembianze, si modificava, ontologicamente, la sostanza. Pensiamo alle diverse posizioni di Pascasio Radberto e Ratramno di Corbie.

Un tema controverso

Come si può intuire, il tema dell’immagine è sempre stato centrale e controverso, almeno in Occidente. Il fatto è che non solo si è discusso di cosa potesse essere l’immagine, di cosa potesse rappresentare o essere la sua funzione. Si è discusso dell’immagine stessa, in sé. Potremmo senza timore di smentite dire che l’Occidente si è letteralmente convertito all’immagine, come sottolinea suggestivamente Baschet (2014, p. 9).

Effettivamente i cristiani dei primi secoli erano del tutto ostili alle immagini. Non tanto per pregiudizio o per timori superstiziosi. La bibbia, nel libro dell’Esodo (20,4-5) impone: «Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso»; e ancora ne Levitico (26,1): «Non vi farete idoli, né vi erigerete immagini scolpite o stele, né permetterete che nel vostro paese vi sia pietra ornata di figure, per prostrarvi davanti ad essa; poiché io sono il Signore vostro Dio». In Deuteronomio (4,15) viene esplicitato il perché della negazione delle immagini. Visto che Dio, sull’Oreb, non ha mostrato il suo volto, bisogna essere attenti e vigilare perché non si cada nella tentazione di cercare di mostrare colui che non si è mostrato. Per questo bisogno vegliare diligentemente sulle proprie anime ed evitare le immagini.

D’altronde, anche islam ed ebraismo vietano la rappresentazione in termini visibili della divinità. Ma la motivazione di avversione alle immagini va ricercata solamente in questo tentativo di aderenza alla fede religiosa e al dettato biblico? Forse la questione è un po’ più complessa. Un testo che si potrebbe prendere in considerazione, funzionale a quanto vogliamo evidenziare, è Octavius di Minucio Felice. In questo dialogo, una pietra miliare di primaria importanza nella letteratura cristiana, si sottolinea una netta differenza tra i pagani e i cristiani. E la differenza consiste proprio nel tema dell’immagine e del suo utilizzo. I pagani, infatti, venerano statue di legno o idoli di divinità, sedotti, in questo senso, dalle forme di quello che queste rappresentano. La differenza con i cristiani è netta. I cristiani, infatti, non hanno bisogno di queste cose perché la gloria di Dio è l’uomo vivente, ed è per questo che si deve ricercare in lui la sua immagine. Agostino, in fin dei conti, non fa altro che tematizzare proprio questo aspetto. Questa, secondo Minucio, è la differenza tra i cristiani e i pagani. I cristiani, pur non vedendo Dio, non hanno bisogno di idoli per credere in lui, come invece fanno i pagani che si prostrano davanti a tronchi di legno o blocchi di marmo.

Tale posizione di condanna delle immagini viene ribadita da Eusebio di Cesarea, che in continuità con Origene nega del tutto la possibilità di rappresentare la divinità. Non solo nelle sue vestigia divine, ma anche la sua immagine storica. Il tema fondamentale che si pone è l’impossibilità di riproporre con forme umane qualcosa che umano non è. Ed è interessante notare come Eusebio riaffermi una contrapposizione tra l’atteggiamento anti-iconico cristiano e la tendenza, invece, dei pagani e degli infedeli a rappresentare degli idoli. Se proprio si vuole un’immagine di Dio, conclude Eusebio, la si cerchi nella sua Parola. Come fa notare anche Stella (2021, p. 22), il tema che si pone sembra essere, al netto delle argomentazioni di carattere scritturistico e di adesione a un dettato della legislazione ecclesiastica, di tipo identitario. In sostanza, per rafforzare un’identità cristiana che si stava via via costruendo, si trovava nel forte atteggiamento anti-iconico un collante e un segno di differenza.

Anche la prima legislazione è andata in questo senso, cercando di segnare una netta differenza identitaria tra i cristiani e i pagani. Sebbene Belting (1991, 1994) evidenzi come i dettati legislativi e l’elaborazione teologica non abbiano influito nella produzione artistica, ci risulta veramente difficile concordare nel ritenere che questi aspetti siano stati del tutto ininfluenti. Fatto sta che l’evidenza della storia ci dimostra come l’Occidente cristiano, dopo l’iniziale ritrosia all’immagine che abbiamo solo in parte sottolineato, pensiamo ad esempio al concilio di Elvira del 313 in cui si vietano tassativamente pitture o dipinti (canone 36), abbia vissuto una vera e propria conversione all’immagine (Baschet, 2014, p. 11). Pensiamo a quanto rapidamente l’immagine si sia fatta strada. Già un teologo come Gregorio di Nissa sembrava essere decisamente più conciliante nei confronti dell’immagine, ammettendo, in un certo qual modo, un fine educativo dell’arte.

Baschet scrive (2014, pp. 11-12):

Evidenziamo almeno, per quel che concerne la chiesa, quanto si rafforza la posizione dominante della casta sacerdotale, radicalmente separata dai laici e fortemente sacralizzata dalla riaffermazione del celibato e della capacità di riprodurre spiritualmente la società, grazie ai sacramenti. Essa pretende allora di ordinare l’insieme del mondo sociale, pensato come una totalità organica, corpo unificato e cristianizzato, sotto la guida del papa. La chiesa è più che mai l’istituzione insieme dominante (in quanto parte clericale della società) e inglobante (in quanto comunità di tutti i battezzati). Ora, si può ragionevolmente supporre che l’incremento delle immagini stia in qualche rapporto non solo con la dinamica generale dell’Occidente, ma anche con tale accentuazione della dominazione ecclesiastica.

In buona sostanza, l’immagine, dopo essere stata bandita, ha assunto una chiara funzione non solo identitaria, ma anche educativo-pedagogica, quando non politica. A dimostrazione di questo pensiamo all’editto iconoclasta di Leone III l’Isaurico del 726. In questo caso è evidente come, in estrema sintesi, l’editto venga emanato per motivazioni politico-identitarie. L’imperatore, con questo atto, mirava non solo a depotenziare le critiche di idolatria che venivano mosse al mondo cristiano, ma anche a ridurre l’influenza che avevano i monasteri sul vasto pubblico dei fedeli che li seguivano anche, e soprattutto, per la venerazione delle immagini che custodivano.

Le immagini, dunque, contribuivano a orientare l’attenzione, la sensibilità e i comportamenti di fedeli e religiosi, con un ruolo a tutti gli effetti educativo. Per tutti questi aspetti che abbiamo sottolineato, per analizzare la valenza educativa dell’immagine, non si può prescindere dal luogo nella quale essa si trova. Dal chiostro al refettorio, da un’abside al portale di una chiesa, l’immagine non era posta a caso in un posto, e tali aspetti devono essere considerati insieme. Pensiamo alla complessità ma anche alla ricchezza che un’indagine di questo tipo ci può restituire. Un’indagine di questo tipo è stata oggetto di studi dal punto di vista storico artistico, ma a noi sembrerebbe assolutamente interessante valutare questi aspetti anche da un punto di vista pedagogico-educativo. Pensiamo a quello che ci dice Baschet (2014, pp. 54-55):

Restiamo ora sulla soglia dell’edificio. Laici e chierici si avvalevano spesso di accessi differenti, almeno negli edifici importanti; e il portale principale non era sempre situato a ovest, anche per i laici (nelle regioni centrali e meridionali della Francia si apre spesso sul fianco sud della chiesa). Esistevano, inoltre, soprattutto negli edifici romanici, spazi di transizione fra esterno e interno (nartece, portico, galilea) […] Trattando della porta, tre aspetti degni di nota sono associati alla sua funzione di soglia: la sua importanza pratica (vi si celebrano riti multipli; vi si amministra la giustizia episcopale); la sua importanza simbolica, fondata sull’equivalenza fra Cristo e la porta («Io sono la porta», Giovanni 10,9); infine l’amplificazione del decoro scolpito o dipinto, conseguenza dei due punti precedenti […] Per il loro statuto di soglia, porte e spazi d’accoglienza costituiscono altrettanti luoghi pertinenti per temi iconografici che esprimono un passaggio, che si tratti di una congiunzione (come l’Annunciazione, momento di unione dell’umanità con il divino) o di una separazione (come il Giudizio finale).

Vediamo dunque come gli aspetti architettonici di una chiesa, di un monastero, di un luogo di culto, siano stati arricchiti con elementi decorativi che contribuivano il fruitore a disporre il suo animo a vivere un momento particolare, a portare la sua attenzione, concentrandola, dove era necessario. Anche la liturgia, in questi termini, con i suoi riti e gli oggetti che utilizza può e dovrebbe essere letta in questi termini. In questo caso si tratta di elementi che sarebbe sicuramente interessante sottolineare dal punto di vista storico-pedagogico per mostrare come l’edificio di culto o il monastero si costituissero come luoghi educativi a tutti gli effetti in cui venivano riservate attenzioni particolari perché tutto fosse funzionale al fine che ci si prefiggeva.

Prospettive di ricerca

Dati questi aspetti, possiamo quindi affermare che l’immagine svolge a tutti gli effetti una funzione educativa, a maggior ragione se prendiamo spunto da Gregorio Magno, che in una lettera al vescovo di Marsiglia Sereno scrive: «Una cosa infatti è adorare un dipinto, un’altra imparare dalla storia dipinta cosa si debba adorare: infatti quello che la scrittura offre a chi legge, agli analfabeti che guardano lo offre la pittura, perché in essa gli ignoranti vedono a cosa debbano uniformarsi, in essa leggono coloro che non sanno leggere; perciò la pittura è veramente come una lettura per il popolo» (Stella, 2021, p. 29).

Senza cadere nell’equivoco al quale abbiamo accennato all’inizio di questo nostro articolo, ovvero dell’immagine come della bibbia per gli illetterati, è però fuori dubbio che si debba riconoscere una funzione educativa all’immagine.

Immagine che, come suggerisce anche la filosofa e storica dell’arte francese M.-J. Mondzain (2005), va letta come se fosse un oggetto sociale con la mobilitazione di una serie di elementi che vanno oltre la tecnica di realizzazione, i materiali, ecc. L’immagine muove passioni, sentimenti, politica, contribuisce a creare vissuti, letture del mondo. Non li interpreta solo, li cambia anche.

In buona sostanza, la svolta visual nella storia dell’educazione ci ha consegnato almeno un paio di aspetti che dobbiamo prendere in considerazione e che ci portano, come Dussel e Priem hanno mostrato, a due prospettive di ricerca che non possono far altro che essere interconnesse. La prima che vede l’immagine e la sua fisicità assumere un ruolo ermeneutico che si basa proprio sul suo essere fisico. Questo aspetto costruisce un significato, o almeno una parte (Edwards, 2015).

Ma c’è anche una seconda prospettiva che è quella socio-relazionale in cui le immagini acquisiscono significati all’interno di un contesto, a seconda del contesto e grazie a una serie di variabili diverse che possono cambiare durante il tempo. Questi aspetti, materiale e sociale, sono elementi che devono essere presi in considerazione entrambi nell’indagine sull’immagine e sul suo ruolo attivo di comunicatore (Erll e Rigney, 2012).

In questo senso, riservandoci ulteriori altre indagini in merito, riteniamo però decisamente interessante una tipologia di immagine che per molti aspetti è stata trascurata, sia nella storia dell’arte che come fonte nella storia dell’educazione. Ci riferiamo alla miniatura e riteniamo che questa fonte visiva sarebbe decisamente interessante da indagare proprio nei termini ai quali abbiamo fatto riferimento. Le miniature, infatti, sono spesso utilizzate in testi o articoli scientifici per aiutare il lettore a trarre una conclusione o per stimolare riflessioni su comuni interpretazioni dell’argomento. Abbiamo anche notato come, generalmente, siano state utilizzate sempre le stesse miniature, contribuendo così alla creazione di veri e propri canoni interpretativi che in alcuni casi sono errati o contengono interpretazioni fuorvianti.

Un paio di contributi, tuttavia, possono andare nella direzione che auspichiamo, mostrando la ricchezza che potenzialmente può riservare tale approccio. Fiorentini (2018) e Botana (2020) dimostrano infatti non solo la quantità di informazioni che la miniatura ci può dare analizzata in sé, ma anche il suo ruolo di mediatore di sapere e di conoscenze, oltre che educativo.

Tutti questi aspetti ci fanno comprendere quanto la miniatura possa contribuire a svelare un vero e proprio mondo e a fornire contributi decisamente innovativi nel campo sia della storia dell’educazione che nella storia dell’arte, a patto di saperla leggere — indagata in sé e in relazione al testo in cui è inserita −, e di utilizzarla come fonte iconografica nella sua funzione educativa e di trasmissione del sapere. In sostanza, si tratta di cogliere una sfida che appare ancora tutta davanti a noi e che ci porta a voler leggere le miniature come oggetti culturali e come sistemi di segni funzionali all’educazione e alla trasmissione del sapere.

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  1. 1 Professore associato, Università degli Studi di Urbino Carlo Bo.

  2. 2 Associate Professor, University of Urbino Carlo Bo.

Vol. 11, Issue 1, April 2025

 

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