Vol. 10, n. 2, ottobre 2024

TEORIE PEDAGOGICHE

Ecologia sociale e pedagogia politica in Murray Bookchin

Edoardo Puglielli1

Sommario

Murray Bookchin (1921-2006) è stato uno dei pionieri del movimento ecologista e «padre» dell’ecologia sociale. L’originalità del suo pensiero sta nell’aver individuato l’origine sociale della crisi ecologica. Il suo approccio innovatore e critico allo studio della questione ecologica lo conduce a delineare anche una teoria politica e spunti per una pedagogia politica.

Parole chiave

Murray Bookchin, Ecologia sociale, Anarchismo, Pedagogia politica, Municipalismo libertario.

PEDAGOGICAL THEORIES

Social ecology and political education in Murray Bookchin

Edoardo Puglielli2

Abstract

Murray Bookchin (1921-2006) was one of the pioneers of the ecological movement and the «father» of social ecology. The originality of his thought lies in having identified the social origin of the ecological crisis. His innovative and critical approach to the study of the ecological question also leads him to propose a political theory and ideas for political education.

Keywords

Murray Bookchin, Social Ecology, Anarchism, Political Education, Libertarian Municipalism.

Cenni biografici

Murray Bookchin è considerato dagli studiosi il «padre» dell’ecologia sociale (Varengo, 2007). Nasce a New York il 14/01/1921 da immigrati russi di origine ebraica impegnati come militanti dell’Industrial Workers of the World (Bookchin, 1981, p. 18). Entra assai presto nel movimento comunista giovanile. Lavora come operaio metalmeccanico nell’industria automobilistica e diventa un attivista dell’United Auto Workers. Dall’impegno nelle organizzazioni comuniste passa a posizioni anarchiche. Inizia a scrivere interrogandosi sul rapporto tra sviluppo capitalistico e crisi ambientale, pubblicando, già nel 1952, sulle pagine di «Contemporary Issues», l’articolo The Problem of Chemicals in Food. Negli anni Sessanta è attivo nei movimenti della New Left, in cui introduce l’idea di ecologia sociale (Vaccaro, 2012, p. 7). Il suo primo libro, Our Synthetic Environment, viene pubblicato nel 1962. Poco dopo escono Crisis in Our Cities (1965) e la raccolta Post-Scarcity Anarchism (1971), composta da testi scritti e pubblicati tra il 1964 e il 1969, tra cui Ecology and Revolutionary Thought e Towards a Liberatory Technology.3

Alla fine degli anni Sessanta comincia a insegnare all’Alternative University di New York, quindi alla City University of New York, a Staten Island. Nel 1974 è cofondatore dell’Institute for Social Ecology di Plainfield, nel Vermont, uno dei primi istituti americani che propone percorsi di studio su tematiche quali urbanistica ed ecologia, tecnologie alternative, ecologia e femminismo, arte e comunità. Dal 1974 al 1983 insegna anche presso il Rampart College del New Jersey e pubblica altri libri, tra cui The Limits of the City (1974), Toward an Ecological Society (1981) e The Ecology of Freedom. The Emergence and Dissolution of Hierarchy. Seguono altre pubblicazioni, tra cui Remaking Society: Pathways to a Green Future (1989) e The Philosophy of Social Ecology (1990), nonché numerosi articoli e saggi, tra cui Libertarian Municipalism: An Overview (1991). Negli ultimi anni della sua vita continua a pubblicare ulteriori studi e a tenere corsi all’Institute for Social Ecology (Milani, 2006, pp. 5-9). Muore a Burlington il 30/07/2006.

Sull’ecologia sociale di Murray Bookchin

Bookchin è stato tra i primi a prefigurare l’avvicinarsi di una grave crisi ecologica. Già nell’articolo The Problem of Chemicals in Food denuncia come la corsa al profitto spinga le grandi imprese all’uso incontrollato di pesticidi e concimi chimici che inquinano l’ambiente e il cibo che mangiamo. E nel suo primo libro, Our Synthetic Environment, individua la causa fondamentale dell’inquinamento ambientale nella logica stessa della riproduzione capitalistica, che riduce tutto a risorsa da sfruttare. Come ribadirà circa tre decenni più tardi:

Il capitalismo non può essere «persuaso» a porre un freno al suo sviluppo, così come non si può «persuadere» un essere umano a smettere di respirare. I tentativi di realizzare un capitalismo «verde», o «ecologico», sono condannati all’insuccesso a causa della natura stessa del sistema, che è un sistema di crescita continua (Bookchin, 2021, p. 101).

A partire dagli anni Sessanta, dunque, Bookchin individua la connessione esistente tra problemi ecologici e contraddizioni sociali, elaborando una soluzione che muove dalla trasformazione della società. Da questa prospettiva, l’approccio di Bookchin costituisce «l’esempio più chiaro dell’impossibilità di isolare il discorso sulla giustizia ambientale da quello sulla giustizia sociale» (Iovino, 2004, p. 110). Il saggio Ecologia e pensiero rivoluzionario, ad esempio, costituisce un vero e proprio manifesto in cui l’autore propone una sintesi tra anarchismo ed ecologia. E nell’Introduzione alla raccolta Post-Scarcity Anarchism spiega nei seguenti termini l’origine sociale della crisi ecologica:

Nessun tentativo di risolvere la crisi dell’ambiente all’interno delle strutture borghesi può avere successo. Il capitalismo è antiecologico per definizione. La sua esistenza è regolata dalle leggi di competitività e di accumulazione del capitale, legge che Marx riassume in questa frase: «la produzione fine a se stessa» […]. In una società di questo tipo la natura è per forza di cose trattata come materia prima da saccheggiare e da sfruttare. La distruzione del mondo naturale, lungi dall’essere semplicemente il risultato di errori grossolani, discende inesorabilmente dalla logica della produzione capitalista (Bookchin, 1979, p. 12).

La ricerca di Bookchin si sviluppa a partire dalla percezione del rischio di una grave crisi ecologica che egli giudica imminente e in grado di mettere potenzialmente in pericolo la vita degli esseri umani e l’intero ecosistema planetario. «I problemi dei quali l’ecologia si occupa […] non possono essere ignorati senza porre in forse la sopravvivenza dell’uomo e del pianeta stesso» (Bookchin, 1979, p. 39). Tale preoccupazione costituisce la base di tutta la sua riflessione, che approderà all’elaborazione di un’ecologia che egli definisce appunto «sociale» . Con le sue stesse parole:

Le questioni ambientali s’erano andate sviluppando nella mia mente come questioni sociali e i problemi dell’ecologia naturale erano divenuti problemi di ecologia sociale (Bookchin, 2017, p. 25).

Occorre evidenziare fin d’ora che l’ecologia sociale distingue Bookchin da altri esponenti dell’ecologia radicale. Egli, infatti, non giunge mai a prospettare un’immagine apocalittica del futuro o una visione pessimistica dell’essere umano. Testimonia questo aspetto la grande importanza che riconosce al movimento ecofemminista, ritenuto indispensabile per l’edificazione di una società ecologica, ossia una società egualitaria fondata su rapporti non gerarchici, solidarietà e collaborazione, comunità decentralizzate, equilibrio tra umanità e natura:

Il nuovo movimento delle donne […] mira al cuore della dominazione gerarchica che alimenta la nostra crisi ecologica. Il movimento ecologico potrà realizzare tutta la sua ricca e multiforme potenzialità di trasformazione della società antiecologica e dei suoi valori solo se la controcultura, il movimento per una tecnologia alternativa e il movimento antinucleare si fonderanno sulla sensibilità e sulle strutture non-gerarchiche che risultano soprattutto evidenti nelle tendenze veramente rivoluzionarie del femminismo (Bookchin, 1980, pp. 36-37).

La riflessione di Bookchin si basa dunque sulla convinzione che il problema ecologico sia in realtà un problema sociale e come tale debba essere compreso e affrontato. La causa della crisi ecologica viene da lui individuata nella frattura dell’equilibrio tra uomo e natura, provocata dall’emergere di ciò che egli chiama «logica del dominio» :

Sin dai primi anni Sessanta il mio punto di vista poteva essere schematicamente così formulato: il concetto di dominio dell’uomo sulla natura deriva dal concetto di dominio dell’uomo sull’uomo (Bookchin, 2017, pp. 25-26).

In altri termini, per Bookchin lo sfruttamento dell’ambiente e il dominio sulla natura non sono sempre esistiti e non sono connaturati all’uomo, ma sono il prodotto storico dell’esistenza di rapporti sociali fondati su una concezione gerarchica, emersi per la prima volta con lo sviluppo della famiglia patriarcale4 e giunti al massimo sviluppo nel moderno capitalismo.5 In un passaggio di Per una società ecologica si legge:

Tutte le nostre idee di dominio sulla natura derivano dal dominio reale dell’uomo sull’uomo […]. Il dominio dell’uomo sull’uomo è venuto prima dell’idea di dominare la natura. È stato il dominio dell’uomo sull’uomo che ha dato origine all’idea stessa di dominio sulla natura (Bookchin, 2021, p. 40).

E in Post-Scarcity Anarchism:

Pur essendoci del vero nell’asserto di Marx secondo cui la società gerarchica è «storicamente necessaria» per poter «dominare» la natura, non dovremmo mai dimenticare che il concetto di «dominazione» della natura deriva dalla dominazione dell’uomo sull’uomo (Bookchin, 1979, p. 12).

Questa «logica di dominio» può essere spiegata anche con le seguenti parole: se in una data società gerarchica «alcuni individui» sono considerati «intrinsecamente “superiori” ad altri, allora è anche “naturale” assumere che gli esseri non umani sono “inferiori” agli esseri umani, e quindi passibili di assoggettamento e dominio» (Schroeder e Benso, 2000, p. 87). Al riguardo, è importante evidenziare che per Bookchin il concetto di dominio va inteso in senso ampio:

Ho sempre pensato che ecologia fosse sinonimo di ecologia sociale e perciò ho sempre nutrito la convinzione che la stessa idea di dominare la natura derivi dalla dominazione dell’uomo sull’uomo, o dell’uomo sulla donna, del vecchio sul giovane, di un gruppo etnico su un altro, dello Stato sulla società, della burocrazia sull’individuo, così come di una classe economica su un’altra e dei colonizzatori sui colonizzati (Bookchin, 1980, p. 36).

Secondo Bookchin, «i popoli di tutte le epoche hanno proiettato le proprie strutture sociali sul mondo naturale» (Bookchin, 2017, pp. 94-95); per conseguenza, alla società caratterizzata dal dominio sugli esseri umani, concepiti come strumenti da sfruttare, non può che corrispondere una visione in cui la natura è concepita come qualcosa di contrapposto alla società e che, pertanto, se si vuole perseguire il progresso dell’umanità, deve essere dominata e sfruttata:

Abbiamo assunto che lo sviluppo sociale possa solo avvenire a spese dello sviluppo naturale e non che lo sviluppo, concepito come totalità, implichi congiuntamente società e natura […]. La dissociazione che abbiamo operato tra società e natura, a livello dapprima mentale e poi fattuale, poggia sulla barbara riduzione degli esseri umani a mezzi di produzione e oggetti di dominio, un’oggettivazione che abbiamo proiettato su tutto il mondo vivente (Bookchin, 2017, p. 484).

Nella riflessione di Bookchin non vi è «un diretto rapporto causale tra il modello del dominio umano sulla natura e il modello che porta alla costituzione delle gerarchie interumane» ma come «essi rientrano, piuttosto, in un’identica struttura mentale» (Iovino, 2004, p. 112). Si potrebbe quindi non trovare giustificata l’affermazione di Bookchin secondo cui eliminando il dominio tra gli esseri umani si porrebbe fine, conseguentemente e necessariamente, al dominio sulla natura da parte dell’uomo.

A tale critica si può però controbattere affermando che, sebbene Bookchin non parli esplicitamente dell’esistenza di un legame causale necessario fra le due forme di dominio, egli individua però un nesso storico «tra il dominio sociale effettivo e il concetto di dominio sulla natura» tale per cui «vi può essere tra i due modelli un rapporto di reciproco rafforzamento. Ciò significa che un abbattimento delle strutture gerarchiche, dovunque provenga, non può che avere delle positive ripercussioni generali» (Iovino, 2004, p. 112). In altre parole, in forza del nesso esistente fra i problemi ecologici e quelli sociali, a prescindere dal fatto se tale nesso sia causale o storico, per Bookchin è necessario cambiare radicalmente i rapporti sociali per poter risolvere sia la crisi ecologica sia le contraddizioni sociali:

Nessuna liberazione sarà mai completa, nessun tentativo di creare un’armonia tra gli esseri umani e tra l’umanità e la natura potrà mai avere successo finché non saranno state sradicate tutte le gerarchie e non solo le classi, tutte le forme di dominio e non solo lo sfruttamento economico (Bookchin, 2017, p. 10).

La consapevolezza delle radici sociali della crisi ecologica e dell’impossibilità di risolvere la seconda senza trasformare radicalmente le strutture economiche, sociali e politiche vigenti costituisce l’elemento che più degli altri distingue l’ecologia sociale dalla «ecologia profonda» (deep ecology), dall’«ecologia umana» e dall’«ambientalismo progressista» . A giudizio di Bookchin, l’errore fondamentale dei sostenitori di tali forme di ecologismo e ambientalismo consiste proprio nel non comprendere che «ogni problema ecologico è un problema sociale» (Bookchin, 1995, p. 9); essi finiscono così per soffermarsi soltanto sui sintomi della crisi ecologica, senza indagare le cause, e per considerare erroneamente l’umanità intera colpevole del disastro ecologico:

A dispetto di tutta la sua retorica sociale, l’«ecologia profonda» non ha capito, in realtà, che i nostri problemi ecologici affondano le radici nella società e nelle problematiche sociali. Predicando, farnetica di una sorta di «peccato originale», dannazione di una specie indefinita detta «umanità» — come se si potesse fare d’ogni erba un fascio: gente di colore e bianchi, donne e uomini, Terzo Mondo e paesi sviluppati, poveri e ricchi, sfruttati e sfruttatori. Questa «umanità» indifferenziata e indefinita è vista fondamentalmente come un’orribile cosa «antropocentrica» — presumibilmente, un prodotto maligno dell’evoluzione naturale — che sta «sovrappopolando» il pianeta, «divorando» le sue risorse, distruggendo la natura e la biosfera (Bookchin, 1988, p. 37).

E ancora:

Gli ambientalisti progressisti e misantropi ci ammanniscono una dieta costante di rimbrotti circa il modo in cui «noi» , in quanto specie, siamo responsabili del degrado ambientale […]. Non dimenticherò tanto facilmente la mostra «ambientalista» organizzata negli anni Settanta dall’American Museum of Natural History […] con una lunga serie di scenografie che mostravano al pubblico esempi di inquinamento e distruzione ecologica. L’ultima di esse […] aveva l’incredibile titolo L’animale più pericoloso della terra, e consisteva in un grande specchio che rifletteva l’immagine del visitatore che si fosse trovato a sostare di fronte a esso. Ho ancora in mente l’immagine di un bambinetto nero che guardava lo specchio, mentre il suo maestro bianco cercava di spiegargli il messaggio che l’arrogante scenografia tentava di comunicare. Non c’erano invece scenografie che rappresentassero i vertici manageriali delle grandi industrie nel momento in cui decidono di disboscare montagne intere, né i funzionari governativi che agiscono in collusione con i primi. Il messaggio della rappresentazione era uno solo, fondamentalmente antiumano: sono gli individui in quanto tali, non la società rapace e coloro che ne beneficiano, a essere responsabili degli squilibri ecologici, i ceti poveri non meno di quelli ricchi, la gente di colore non meno dei bianchi privilegiati, le donne non meno degli uomini, gli oppressi non meno degli oppressori. Una «specie umana» astratta rimpiazza così le classi, gli individui rimpiazzano le gerarchie, i gusti personali (molti dei quali modellati dai media) rimpiazzano i rapporti sociali, e i diseredati che vivono stentate e isolate esistenze rimpiazzano le multinazionali aggressive, le burocrazie conniventi e le reazioni violente dello Stato (Bookchin, 2021, pp. 16-17).

L’ecologia sociale, pertanto,

non è né ecologia umana né ecologia profonda, termini e concezioni che rendono a deviare la nostra attenzione dagli aspetti sociali dell’attuale crisi ecologica. È necessario affrontare onestamente il fatto che, se non trasformiamo la società in senso libertario, gli atteggiamenti e le istituzioni che ci spingono follemente verso il disastro ecologico continueranno a operare (Bookchin, 2021, p. 8).

Dunque, alla società della dominazione e dello sfruttamento, caratterizzata «dalla competizione, dall’egoismo, dalla crescita illimitata, dall’anomia e da una razionalità puramente strumentale» (Bookchin, 2021, p. 9), deve subentrare la «società ecologica» , ovvero una società non più classista e non più antagonista, basata su rapporti universalmente liberi e ugualitari, contraddistinta da valori quali «la complementarità, il mutuo appoggio, il senso del limite, un profondo sentimento comunitario» (Bookchin, 2021, p. 8), l’equilibrio tra umanità e natura. E questa trasformazione non può essere realizzata attraverso una politica riformista, inevitabilmente capace solo di interventi inefficaci e illusori:

Questa crisi ambientale va valutata in maniera radicale: il problema va ben al di là del far approvare leggi, ben al di là del cercare cure parziali […]. Il problema non è soltanto una questione di legislazione, non è solo un problema di stabilire controlli sulle multinazionali […]. Il problema è insito nella società stessa. È un problema […] divenuto grandissimo nella società di oggi, in cui tutta la mentalità è basata sulla crescita o la morte. Mi riferisco all’economia di mercato, dove non ci sono limiti alla crescita e al consumo, stante che il principale obiettivo della società è di espandersi, espandersi, espandersi (Bookchin, 1995, pp. 6-7).

Si tratta quindi di prendere coscienza del fatto che la società capitalisticamente organizzata è incompatibile con la prospettiva di un rapporto armonioso sia tra gli esseri umani sia tra l’umanità e l’ambiente. «Nessun tentativo di risolvere la crisi dell’ambiente all’interno delle strutture borghesi può avere successo. Il capitalismo è antiecologico per definizione» (Bookchin, 1979, p. 12). L’attuale società deve essere dunque smantellata e sostituita da rapporti sociali fondati non più su dominio e sfruttamento ma su uguaglianza, cooperazione e libera coesistenza. La futura società ecologica non potrà quindi che orientarsi in senso socialista-libertario:

Una società ecologica deve essere una società libertaria, in cui la gente vive in confederazione e in comunità con gli altri, il cui scopo non è il progresso nella competizione, progresso nell’egoismo, progresso nella dominazione della natura, progresso con la dominazione dell’uomo […]. Deve essere progresso verso la cooperazione, attraverso il mutualismo, il reciproco aiuto nell’armonia. In breve, un mondo pacificato in cui la creatività e il progresso scaturiscano dall’armonia e non dalla competizione. Senza questo, non soltanto faremo a pezzi il pianeta, ma faremo a pezzi lo spirito umano (Bookchin 1995, p. 15).

Tracce di pedagogia politica

Secondo Bookchin l’attuale società si trova a un bivio di fronte al quale o diverrà capace di comprendere e tutelare un interesse umano generale o le crisi ecosistemiche e sociali diverranno sempre più ingovernabili. E poiché «la rivoluzione non è solamente una rottura con l’ordine sociale costituito, ma con le strutture psichiche e la mentalità che queste comportano» (Bookchin, 2003, p. 15), sono indispensabili, per la transizione alla società ecologica, oltre che una radicale trasformazione socio-politica, anche trasformazioni culturali che portino allo sviluppo di «una nuova razionalità, una nuova scienza, una nuova tecnologia» (Bookchin, 2017, p. 11), nuovi modi di pensiero non gerarchici. Nella costruzione della società ecologica «dobbiamo cercare […] di estirpare l’orientamento gerarchico della nostra psiche, oltre che di eliminare le istituzioni che incarnano il dominio sociale» (Bookchin, 2017, p. 418). Tale obiettivo potrà essere raggiunto solo attraverso un lungo processo educativo intellettuale ed etico fondato su una prospettiva che Bookchin definisce «umanesimo ecologico» (Bookchin, 2017, p. 11), incentrato sui principi della libera partecipazione nell’uguaglianza, della diversità e della complementarità:

Il passaggio da «qui» a «là» non avverrà certo grazie a un’improvvisa esplosione, ma implicherà una lunga preparazione intellettuale ed etica. C’è bisogno di un percorso di apprendimento approfondito se sono gli individui a dover cambiare la propria esistenza, in prima persona […]. La sensibilità, l’etica, il modo di vedere la realtà, il senso di sé devono cambiare attraverso modalità educative, argomentazioni razionali, sperimentazioni che mettono in conto la possibilità di imparare dai propri errori: solo questo consentirà all’umanità di raggiungere la coscienza necessaria per la propria autogestione (Bookchin, 2021, p. 219).

In questo processo trasformativo assume un ruolo importante anche lo sviluppo di un nuovo tipo di uso della tecnologia. A giudizio di Bookchin — che si era già occupato di questo problema nel saggio Verso una tecnologia liberatoria (1965) — ogni tecnologia è frutto della società che la realizza; questo significa che una società fondata su dominio, estorsione di pluslavoro e sfruttamento di ogni risorsa non può che generare una tecnologia pensata per perpetuare quegli scopi. Usata capitalisticamente, in altri termini, anche la tecnologia fa sì che «settori sempre più ampi della società vengano assimilati dal sistema gerarchico e autoritario» (Bookchin, 1979, p. 24).6 Una società libertaria, al contrario, sarà capace di produrre una «tecnologia umanistica e liberatoria» (Bookchin, 1979, p. 47), in grado di contribuire alla realizzazione del pieno sviluppo umano in forme egualitarie di convivenza compatibili con l’equilibrio ecosistemico del pianeta.

Bookchin si richiama alla cultura del movimento libertario anche per proporre il paradigma pedagogico della società ecologica: «le organizzazioni anarchiche davano grande importanza a quella che veniva definita “educazione integrale” — lo sviluppo globale dell’individuo» (Bookchin, 1979, p. 139). Contrastando la società classista e il suo fondamento, ossia la concentrazione monopolistica presso un polo della società dei mezzi di produzione (tra cui, di primaria importanza, scienza, saperi e conoscenze inerenti alla produzione), i teorici dell’anarchismo hanno sempre proposto un progetto pedagogico universalista fondato sulla prospettiva della formazione di individui in possesso, da un lato, delle teorie scientifiche fondamentali e delle conoscenze pratiche dei processi produttivi e, dall’altro, dei saperi necessari all’organizzazione e all’amministrazione di tutti gli ambiti della vita associata, in vista dell’autodeterminazione e dell’autogestione politica e produttiva di comunità di individui liberi e uguali.7

La teorizzazione della formazione integrale come fattore imprescindibile per la realizzazione della più completa uguaglianza aveva avuto — come è noto — una larga diffusione nelle organizzazioni anticapitaliste fin dai tempi dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori (Codello, 2005, pp. 146-170; Guillaume, 2004, pp. 210-211; Smith, 1990, pp. 40-41). L’obiettivo dell’universalizzazione dello sviluppo onnilaterale — formulato nel modo più coerente da Bakunin e da Marx (Manacorda, 2008; Puglielli, 2019; Puglielli, 2023) — aveva esercitato una forte influenza nella cultura pedagogica elaborata successivamente in tutto il variegato mondo socialista (Baldacci, 2022, pp. 345-353). È vero che il concetto di formazione integrale non è esclusivamente anarchico e socialista, in quanto presente anche nelle teorie pedagogiche progressiste. Tuttavia vi sono delle differenze significative: in campo progressista, l’idea di «educare l’uomo nel suo complesso rimanda a un astratto individualismo che è molto lontano dall’interpretazione datane dai libertari» (Smith, 1990, p. 27); la pedagogia libertaria ha infatti dei precisi punti di riferimento sociali e politici di cui la pedagogia progressista è spesso priva, e i suoi concetti portanti acquistano significato solo in base a questa relazione. L’approccio di Bookchin muove evidentemente dalla prospettiva libertaria. Egli condivide il modello pedagogico della formazione integrale poiché coerente con il progetto di costruzione della società ecologica da lui teorizzata:

Fintantoché la società non sarà restituita a un’umanità indivisa capace di usare la sua saggezza collettiva, le sue conquiste culturali, le sue innovazioni tecnologiche, le sue conoscenze scientifiche, la sua creatività innata, a beneficio proprio e del mondo naturale, tutti i problemi ecologici continueranno ad avere le proprie radici nei problemi sociali (Bookchin, 2021, p. 36).

Il paradigma pedagogico condiviso da Bookchin è dunque strettamente connesso al suo programma di trasformazione sociale. Il modello politico proposto dall’autore per la società ecologica si fonda su una netta distinzione tra il potere decisionale e la sua esecuzione amministrativa: «il primo deve essere di competenza esclusiva di assemblee popolari, con pieno potere decisionale, il secondo può essere affidato a un corpo amministrativo delegato, eletto con mandato revocabile in ogni momento» (Varengo, 2012, pp. 228-229). Infatti, «il pericolo di consegnare le decisioni politiche a un corpo amministrativo, che è normalmente un corpo delegato e spesso altamente specializzato, è quello dell’elitarismo e dell’usurpazione del potere pubblico» (Bookchin, 2017, pp. 515-516). La società ecologica dovrà pertanto caratterizzarsi per la pratica della democrazia diretta, basata su assemblee popolari con pieno potere decisionale.

La democrazia diretta non può che presupporre l’esistenza di «un’educazione politica» (Bookchin, 2015, p. 83) universalmente diffusa, ossia la formazione, in ciascuna persona, di ciò che Bookchin chiama «competenza individuale riferita alla gestione degli affari sociali» (Bookchin, 2017, p. 519). La democrazia diretta è infatti possibile in «una società in cui ogni individuo sia considerato capace di partecipare direttamente alla formulazione della politica» (Bookchin, 2017, p. 519), in grado cioè di prendere decisioni riguardanti se stesso e la comunità di cui fa parte. Democrazia diretta e azione diretta (ovvero intervento non mediato degli individui in questioni di pubblico interesse) si basano perciò sullo stesso principio:

Il principio comune che legittima l’azione diretta e la democrazia diretta è la convinzione che un popolo riunito in assemblea, formato da individui liberi e autonomi, possa occuparsi direttamente e con competenza della direzione degli affari pubblici (Bookchin, 2017, p. 217).

La formazione in ogni individuo di una tale competenza individuale e comunitaria è dunque indispensabile alla creazione di una società antigerarchica:

Gli sforzi per ricostruire una politica autentica […] implicano una rinascita del corpo politico stesso, ovvero una politica intesa come recupero della cittadinanza e dell’educazione civica […]. Finché gli attuali innovatori sociali non abbandoneranno la concezione secondo cui il «processo politico» va inteso come mobilitazione invece che educazione, come espressione di leader carismatici invece che di cittadini attivi, come propugnatore di soluzioni contingenti invece che di visioni prospettiche cariche di senso etico, fino ad allora la politica, lungi dall’essere nuova, sarà la vecchia statualità autoritaria infiorata di mera retorica (Bookchin, 2015, pp. 68-69).

L’applicazione politica della proposta di Bookchin trova forma nel «municipalismo libertario» . Il municipalismo libertario auspica lo sviluppo di libere municipalità di dimensioni moderate, decentrate, caratterizzate dalla pratica della democrazia diretta, ciascuna delle quali composta da una comune di comuni più piccoli, le cui attività vanno progettate in armonia con l’ecosistema in cui si trovano. Il municipalismo libertario costituisce quindi sia la forma che la società deve assumere per diventare «razionale ed ecologica» (Bookchin, 2015, p. 29), sia la prassi necessaria per conseguire tale trasformazione.

Bookchin è convinto che sia indispensabile decentralizzare il più possibile la società per permettere lo sviluppo di comunità in cui il potere decisionale sia effettivamente nelle mani di cittadini in grado di autogovernarsi. A tal proposito è necessario «creare una politica che addestri a una genuina cittadinanza […]. Ciò implica che va data forma ai valori dell’umanesimo, della cooperazione, del comunitarismo nella pratica quotidiana della vita civica» (Bookchin, 2015, p. 61). E aggiunge:

La polis ateniese, nonostante le sue numerose imperfezioni, ci offre esempi significativi di come l’alto senso di cittadinanza che la permeava venisse rinforzato non solo da una sistematica educazione, ma anche dallo sviluppo di un’etica di comportamento civico e di una correlata cultura estetica che rivestiva i propri ideali di servizio civico con i fatti concreti di una pratica comunitaria. Il rispetto degli oppositori nei dibattiti, il ricorso alla parola per ottenere il consenso, le interminabili discussioni pubbliche nell’agorà, durante le quali i personaggi più in vista della polis erano tenuti a discutere dei temi di pubblico interesse anche con i meno noti, l’uso della ricchezza non solo per scopi personali ma anche per abbellire la polis (attribuendo così maggior valore alla redistribuzione più che all’accumulazione della ricchezza), una moltitudine di ricorrenze pubbliche […] in gran parte incentrate su argomenti civici e sul bisogno di incoraggiare la solidarietà… tutti questi e altri ancora sono gli elementi che hanno contribuito a creare in Atene un senso di responsabilità e lealtà civica che ha a sua volta prodotto cittadini attivamente coinvolti e consapevoli della propria missione civica. Il senso di cittadinanza […] deve diventare […] un’arte creativa in senso estetico che si appella al profondo desiderio umano di esprimere se stessi in una comunità spirituale che abbia senso; un’arte personale in cui ogni cittadino è pienamente cosciente del fatto che la comunità affida il proprio destino alla probità morale, alla lealtà e alla razionalità di ognuno (Bookchin, 2015, pp. 61-62).

Le tante comuni che si verrebbero a creare, organizzandosi secondo i principi dell’uguaglianza, dell’unità nella diversità, della democrazia diretta e del decentramento del potere decisionale, troverebbero poi spazio per un reciproco confronto e una progettualità condivisa nella struttura confederale della «Comune delle comuni» (Bookchin, 2015, p. 29). Essa implica l’interdipendenza delle comunità sia dal punto di vista culturale, evitando particolarismo e localismo, sia dal punto di vista economico, costituendo in tal modo una sfida al centralismo statale. Decentramento, localismo, autosufficienza e interdipendenza, tuttavia, sono fattori considerati sì necessari ma non del tutto sufficienti. C’è bisogno anche di altro:

Il qualcosa in più che va aggiunto è la necessaria educazione morale che i Greci chiamavano paideia, una formazione del carattere in grado di preparare cittadini attivi e razionali al posto degli elettori passivi e dei meri consumatori che abbiamo oggi. Se vogliamo ricostruire in modo consapevole le relazioni umane, sociali e con il mondo naturale, non ci sono alternative (Bookchin, 2015, p. 101).

Bibliografia

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  1. 1 Ricercatore TdB di Storia della Pedagogia presso il Dipartimento di Scienze Umane dell’Università degli Studi dell’Aquila.

  1. 2 TdB researcher of History of Pedagogy at the Department of Human Sciences of the University of L’Aquila.

  1. 3 Nella raccolta Post-Scarcity Anarchism sono presenti i seguenti testi: L’anarchismo nell’età dell’abbondanza (1969); Ecologia e pensiero rivoluzionario (1964); Verso una tecnologia liberatoria (1965); Le forme della libertà (1968); Ascolta, marxista! (1969); Dibattito su: «Ascolta, marxista!» (1971); Gli avvenimenti di maggio e di giugno in Francia (1968); Desiderio e bisogno (1968).

  1. 4 «La famiglia patriarcale seminò nel campo dei primi, elementari rapporti sociali il germe della dominazione» (Bookchin, 1979, p. 42).

  1. 5 Si vedano in particolar modo i capitoli L’emergere della gerarchia ed Epistemologie del dominio del testo L’ecologia della libertà. Emergenza e dissoluzione della gerarchia.

  1. 6 È questo un tema messo in rilievo anche dalla pedagogia contemporanea che osserva criticamente uno sviluppo tecnologico che «invece che strumento di liberazione diviene strumento di dominio» (Trasatti, 2004, p. 17).

  1. 7 Pertanto, è stato opportunamente evidenziato, l’anarchismo, in quanto teoria politica volta all’emancipazione umana completa e universale, comporta una «tutt’altro che marginale dimensione pedagogica» (Tomasi, 1977, p. 261).

Vol. 10, Issue 2, October 2024

 

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