La Disabilità in parossistica ciclicità di esclusione e inclusione

Disability in paroxysmal cyclical time of exclusion and inclusion

Tonia De Giuseppe

Dottoranda presso il DISPSC in Scienze del Linguaggio, della Società, della Politica e dell’Educazione, dell’Università degli Studi di Salerno - Ha curato il paragrafo “Individui e società: sentimenti dissonanti ed esclusioni emarginanti”.

Felice Corona

Professore Associato presso il Dipartimento di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi di Salerno - Ha curato il paragrafo “Inclusione e società: storicizzazione di esempi positivi”.

 

Premessa

Le percezioni dei fenomeni sociali, all’interno della collettività, si originano e si sviluppano attraverso continui e significativi processi d’interazione e comunicazione. Una riflessione, basata su una retrospettiva lettura di teorie della pedagogia e dell’educazione, che evidenzi interazioni, fenomenologiche e costanti, individuo/società, società stabile e società religiosa, deve essere incardinata in quadri storico-socio antropologici, con un particolare riguardo alla visione della diversità. La disabilità, in tale ottica, costituisce l’espressione di un fenomeno sociale totale, in cui convivono storiche e perduranti cause, ma anche percezioni, individuali e plurali del fenomeno. Pregiudizio e stereotipi sono il prodotto della personale e collettiva rappresentazione simbolica, che diviene la base della non accettazione/rifiuto/paura di quanto diverge dalla “norma”: nel caso della disabilità, dall’ideale estetico delle culture dominanti, che non rientrano nei canoni di bellezza e perfezione prescritti. Pertanto, la consapevolezza della diversità e della disabilità nel tempo ha sempre sortito sentimenti contrastanti, emotivamente connessi all’immaginario collettivo, prodotto di una visione storico-sociale condivisa. La pedagogia, in quanto disciplina che coordina e dispone quale fine educativo/formativo il processo evolutivo dell’uomo, svolge un ruolo determinante in un percorso di lettura e decodifica dei modi di pensare e di essere, espressione di approcci storico-socio- antropologici sistemici e nella formazione di una coscienza storico-culturale, che garantisca la massima allerta, per evitare di precipitare in condizione di vita subumana.

Di conseguenza, nelle varie epoche si assiste all’incidenza sull’alternanza educativa di investimenti nell’autonomia o eteronomia, conservazione e rinnovamento, istruzione intellettuale e professionale, educazione morale ed estetica, dicotomiche posizioni espressione di contesti sociali ed epoche storiche. In generale, ritracciando un excursus storico, si può osservare che in tutti i secoli della storia pedagogica siamo dinanzi a una dura polemica contro metodologie e prassi educative antiquate, autoritarie, a volte violente e grette, cui si oppongono assunti teorici comprensivi, tolleranti, razionali. Tutto ciò costituisce l’espressione discrasica tra teoria alta e prassi consolidata, connessa a consuetudini: da un lato, le teorie pedagogiche più libere; dall’altro, le istituzioni scolastiche reali, che procedono imperterrite con metodi illogici e inumani. In questo contributo, con sintesi criticamente riplasmate, si ripercorrono, a confronto, i grandi periodi della pedagogia, tenendo conto delle realtà storiche e sociali, in cui teorie pedagogico- didattiche e stigmi ghettizzanti sono venuti a collocarsi, per investire in un nuovo approccio educativo, garante di una quotidiana normalità inclusiva, quale consolidato atto socioculturale.

Individui e società: sentimenti dissonanti ed esclusioni emarginanti

Nelle varie epoche storiche si sono succedute posizioni oppositive, con priorità assegnata a profili individualistici, a visuali socio-comunitarie, con conseguenti risvolti in campo educativo. In tal senso, la parossistica coesistenza di visioni/azioni prassiche contrapposte muove, in ordine ciclico, gruppi sociali, comunità e società tra eventi ed epoche storiche. Si è infatti assistito, nel tempo, a ciclici posizionamenti verso educazioni al servizio della religione o integralmente statalizzate, che ne misconoscevano la funzione. Fenomeni di aberrazione anarcoide, di derivazione romantica, hanno ceduto il posto alla chiusa eteronomia e sovrapposizione di istituzioni con preclusione di spontaneità/autonomia educativa. Si tratta di un’interazione insidiata, colloquio continuamente interrotto tra dottrine pedagogiche e prassi educativa.

In particolare, a partire dalla civiltà greca classica, che va dalla lontana protostoria cretese fino alla fulgida storia ateniese classica, si evidenzia l’assenza di differenziazione tra educazione civile e religiosa. La cultura da sola non era esaustiva per una corretta educazione, ma necessitava di un’educazione continua, quotidiana e assidua del corpo. La scuola era intesa come un affare privatistico e lo Stato si occupava soltanto dell’educazione fisica che, dura e impegnativa, esigeva anche qualità morali di sacrificio e prontezza. La contraddizione tra teoria e prassi era rappresentata da un’educazione teorica, non più individualistica, fatta però di proposte non riscontrabili nella realtà: la scuola, di fatto, non era ancora pubblica. La dissonante discrasia tra ideale teorico e prassi educative consolidate è riscontrabile in maniera evidente nelle mirabili pagine educative di Platone e nei suoi alti valori di libertà, gaiezza spirituale, contrapponibili ai quadri della reale vita educativa greca, espressione di pedagoghi, descritti dai poeti e autori satirici, dai brutali modi irruenti che scuotono le coscienze.

Altre contraddizioni sono attribuibili all’ideale greco di virtù aristocratica della καλοκαγατια (calocagatia-la bellezza/bontà, qualità spirituali connesse inscindibilmente alle fisiche), che determina la disapprovazione sociale della disabilità, condizione da eliminare, sopprimere e abolire, in quanto espressione di discostamento dalla prestanza fisica prescrittiva, utile alla comunità: a Sparta, gli inutili erano da inviare a “depositi”, voragine sulle pendici del Taigeto (Plutarco: XVI). Ad Atene (VI secolo a.C.) era fatto divieto di allevare bambini deformi, inutili alla Repubblica.

Il termine stigma, segno corporeo fastidioso e fuori dalla norma, al punto da inficiare lo statuto morale della persona portatrice, era proprio della cultura greca. Pertanto, bontà, bellezza e salute erano ritenute “proprietà naturali” contrariamente alla malvagità, alla bruttezza e alla malattia, che erano concepite come proprietà contro natura (innaturali). La cultura greca, dotando l’uomo di un'immoralità causata dalla malattia, disconosce la condizione di disabilità, percepita come una sorta di condizione impossibile, negando così l’esistenza stessa delle persone disabili. In particolare gli ipoacusici (i sordi-kophoi e muti-eneos, associabili terminologicamente allo “stolto”), insensati e incapaci di ragionare, non erano educabili: “tanta fu la forza del pregiudizio da far sì che lo stesso Aristotele emettesse una terribile sentenza con cui il sordomuto si escludeva da ogni partecipazione alle umane condizioni” (A. Gonnelli Cioni, 1888)[1].

Esempi di condizione svantaggiate, contraddistinte da ripudio/abbandono, sono riscontrabili in letteratura nella figura emblematica di Filottete, protagonista dell’omonima tragedia di Sofocle e guerriero citato da Omero. Filotette venne abbandonato da Ulisse e dai compagni per la sua nuova condizione di svantaggio, ferito a una gamba, e ormai al di fuori dai canoni di perfezione, di bellezza e di forza, tipici della tradizione greca. Pertanto, nonostante gli alti e teorici valori proclamati, è possibile constatare che le consuetudini sociali diventano parte del pensiero di ogni pensatore. Infatti, la stessa città ideale di Platone doveva essere abitata da individui perfetti, che avessero generato figli sani. Egli era a favore di un incremento degli accoppiamenti fra eletti, per un fine riproduttivo, e auspicava una morigeratezza di costumi fra i mostri, onde evitare che la bruttezza e l’indegnità fisica avessero un seguito generativo. Pertanto, i bambini nati con malformazioni dovevano essere esposti, abbandonati al loro destino, per prevenire classi sociali formate da indigenti. Si incoraggiava, di conseguenza, un’avvilente selezione della specie: anche coloro che, in una condizione iniziale assenza di visibili deformità, crescendo dimostravano anomalie, come la sordità e il mutismo, erano considerati incompatibili con la vita. Quest’uso divenne successivamente anche uno strumento di controllo delle nascite, in quanto l’esposizione di bambini malati o deformi scoraggiava le famiglie a mettere al mondo i figli. Tale convincimento ha consentito il perpetuarsi di una tradizione/consuetudine/norma socio-culturale d’eliminazione fisica dei disabili, dal mondo greco e, nel suo protrarsi ciclico temporale, in molte società.

Il mondo romano eredita e interpreta, anche legislativamente, la vasta esperienza greca. Nell’antica Roma, dominava un sentimento di Fastidium verso una gamma di oggetti primari, con l’estensione di una situazione emozionale a persone significativamente associabili alla condizione di primarietà: le persone disabili. Un tale sentimento di avvertita alterigia e superiorità, derivante dall’idea aristocratica dell’esistenza di un rango e di una gerarchia piramidale, propria della cultura greco-romana, implicava un’evidente considerazione minimale delle potenzialità altre e si connetteva intimamente al sentimento di disprezzo. Dal 753 a.C. Romolo, nello Iuris Romani Antiqui, aveva decretato che nessun bambino dovesse essere ucciso prima del compimento del terzo anno di età, a meno che non mostrasse gravi deformità già dalla nascita.[2]

La scuola, sempre rigida e intimidatrice, coi suoi duri castighi, subisce la critica interna di Seneca, Quintiliano e Plutarco. Ma le discrasie teoria-prassi continuano anche nel mondo romano, dove alle belle pagine di un Quintiliano, di un Plutarco, di un Seneca, si contrapponeva la scuola violenta e disumana. Anche le leggi e le usanze della Grecia si diffusero ben presto anche a Roma. Il pater familias aveva la podestà di decretare la pena di morte per un familiare che presentava minorazioni o malformazioni. Di fatto, aveva diritto di morte sui bambini definiti mostruosi e perciò gettati dalla rupe Tarpeia. Lo stesso Cicerone giustificava l’infanticidio previsto dalla quarta delle Dodici Tavole Romane.[3] La contraddizione continua a essere onnipresente e, infatti, lo stesso Seneca sosteneva l’infanticidio dei bambini malati, nelle Epistule.[4] I luoghi dell’abbandono in Roma erano le rive del Tevere oppure il Foro Olimpico.

L’avvento del cristianesimo, con la sua rivalutazione dei sofferenti e l’esclusione del concetto di inutilità o ripugnanza, accoglie tutti; ma pur arricchendo ideologicamente la visuale dell’uomo, non rifiuta gli istituti pubblici di Roma. L’avvento dell’Impero, soprattutto sotto i Flavi e gli Antonini, mostra come lo Stato si prenda cura della scuola, con sussidi, assegnando stipendi agli insegnanti e concedendo loro esenzioni e privilegi fiscali. Notevole lo sviluppo delle biblioteche pubbliche accanto alle private.  Nonostante l’avvento del cristianesimo, permangono stereotipie discriminanti, le cui radici sono di ordine culturale.

Il diritto romano classificava i sordi insieme ai mentecatti e furios e ne affermava l’ineducabilità, convincimento che perdurerà fino al 1600. Dunque, deformità, disabilità e menomazioni suscitano paura e sentimenti di orrore condiviso tra l’ignoranza e le credenze della povera gente. Infatti, era convenzione culturale greco romana, condivisa e inalterata fino al Medioevo cristiano, basata su regole moralistico-religiose, l’identificazione della disabilità con il peccato. Occorre sottolineare che la storia del Cristianesimo impatta con pregiudizi di figure come quella di papa Gregorio Magno, le cui convinzioni discriminanti sono di ordine culturale, non certo religioso.[5] Infatti, con l’affermarsi della nuova visione religiosa, la disabilità, considerata come una malattia, viene identificata come conseguenza del peccato. Già nella prima metà del VI secolo il Vescovo Cesario di Arlès informava i fedeli in merito al fatto che gli sposi incontinenti avrebbero messo al mondo "figli lebbrosi o epilettici o forse persino demoniaci".

In quest’ottica la persona disabile soffrirebbe per redimersi dal peccato, fornendo agli altri la possibilità di salvare se stessi, nel mostrarle carità. Si passa, quindi, dalla pratica della soppressione a una pratica di accettazione condizionata dalla visione cristiana della vita. Nel Medioevo, le donne che generavano esseri deformi o mostruosi erano accusate di avere avuto rapporti carnali col diavolo e per questo venivano considerate streghe, perseguitate e uccise; i loro mostruosi figli venivano derisi, oltraggiati e la loro deformità sbeffeggiata nelle piazze. Dunque, anche nel Medioevo continuano le contraddizioni e la sfasatura di teoria e prassi: in chiesa si parlava di anime libere e responsabili, di maestri che, sulla scorta di Agostino, avrebbero dovuto scoprire nelle anime dei discepoli i segni di Dio, i semi della verità, e invece i maestri flagellavano i ragazzi, torturati con metodi barbarici, riempiti di idee prefabbricate, nozioni imposte e precetti indiscutibili.

Durante il feudalesimo i sordi vennero totalmente emarginati e privati di diritti, per l’impossibilità a combattere in guerra; non gli era concesso neppure celebrare messa, ereditare e contrarre matrimonio, né tanto meno ricevere istruzione.

La cultura umanistico-rinascimentale è eminentemente pedagogica. L’educazione umanistica, che puntava alla cultura classica e cristiana, vide un largo uso dei Classici e puntava all’indurimento fisico, assumendo una posizione polemica contro i castighi. Un’età di educazione alla scienza alla filosofia, alla politica, alla riforma sociale. Temi nuovi emergono: oggetto di interesse è l’uomo da educare. Fioriscono scritti sull’educazione della donna, del principe, del corteggiano, del vescovo, da cui deriva l’educazione dei sudditi, dei contadini del piccolo clero, delle milizie. Le conoscenze sulla fisiologia del corpo umano sono rimaste per secoli quasi intatte, insieme alle conoscenze sulle origini e le cause della disabilità, che comunque era intesa come una malattia. Infatti, nel Quattrocento, nel Cinquecento e nel Seicento, l’antropometria stabilisce per il tramite di rapporti numerici la giusta proporzione dell’uomo sano e bello; anche in questo caso, chi non rispettava tali dimensioni veniva segregato in luoghi appartati. Le scuole erano prevalentemente private e comunali. Nelle Corti d’Europa, nel XVI secolo, affiora la presenza delle persone colpite da nanismo. La loro infermità rappresenta motivo di divertimento/scherno per Signori e Dignitari. Molti quadri d’epoca testimoniano la loro presenza. Si introduce il concetto di educazione mediata, che si rivolge immediatamente solo ad alcuni ceti, mediatamente a tutti, che nel Sei-Settecento motiverà le revisioni operate ai presupposti della pedagogia rinascimentale.

Il Rinascimento ha rivendicato i diritti dei fanciulli; ma alle scuole esemplari di Barbizza da Bergamo, di Guarino Veronese e di Vittorino da Feltre si opponeva, resistendo, l’immutata oscurità educativa di stampo autoritario, per l’ostinazione nel conservare l’antico, valido in quanto tale, e con chiusura totale verso la proclamata apertura verso le forze dello spirito.

Nel Seicento, l’educazione pone come finalità ultima l’acquisizione della massima cultura con il minimo sforzo, operando con chiarezza, certezza e disciplina razionale. Si punta all’istruzione per tutti, anche della donna, per educare al rispetto reciproco. Progressivamente il metodo accantona la sicurezza nella validità dei castighi; la violenza cede il posto alla mitezza e alla persuasione. La metodologia si sviluppa su di un terreno che educa e istruisce, ma non senza preoccupazioni di proselitismo religioso.

Nella ciclicità dei corsi e ricorsi, è possibile riscontrare un ritorno all’istruzione elitaria, con Locke che ripunta all’educazione dei nobili, quali uomini predisposti ai compiti politici nuovi. In tal caso, l’educazione investe nello sviluppo critico valutativo e nell’indipendenza di giudizio, nella correttezza di un edificare sul positivo, per produrre un miglioramento riflessivo non rivoluzionario. Intorno al 1600 i malati di mente, ritenuti inguaribili, sono segregati in luoghi lontani dall’abitato e ben recintati: siamo dinanzi a una primordiale forma di internamento, di clausura a vita. Il territorio tedesco offriva i suoi grandi fiumi per organizzare le navi dei folli.[6] Siamo, inoltre, nell’epoca dei grandi viaggi e della scoperta di nuove terre, che ha tra le sue conseguenze negative l’importazione di malattie orrende e deformanti, che producevano elevati livelli di disabilità, come la lebbra e la sifilide. Si comincia a parlare di aborto, per evitare che i fanciulli “non divenghino loschi, storti, gobbi, ò zoppi”[7] [...] (François Mauriceau, 1685[8]).

Nel Settecento francese, la prima educazione deve essere puramente negativa, garantendo il cuore dal vizio e lo spirito dall’errore. Non si investe più nell’insegnamento della virtù e della verità, l’educazione diviene laica e privata, per riformare quella pubblica, e si introduce una religione naturale. La Germania del Settecento, invece, non ha un’incondizionata fiducia nello Stato, come si evince dalla proliferazione di scuole e collegi, economicamente autosufficienti, per utopismo economico ma soprattutto per prevenzione di potenziali asservimenti pedagogici al potere politico o religioso: è il caso di Kant, Fichte e Schleiermacher. Agli antipodi la posizione educativa italiana. Infatti, nell’Italia settecentesca giansenista si tende a sostituire alla morale sentimentale e classistica una morale rigida e ferma sotto la guida esclusiva della Chiesa. Si punta alla scoperta di forme dell’educazione di nazioni e individui, basate su disciplina e timore di Dio.

Nell’Ottocento matura il movimento socialista e comunista, la cui finalità è quella di portare l’istruzione a tutti i livelli sociali, ma con la subordinazione di questo ideale a fini politici, nei sistemi scolastici di ispirazione marxista. Siamo dinanzi all’immanentizzazione dei valori e dei fini per l’edificazione della società comunista. Con l’applicazione delle scoperte, relative alle strumentazioni di osservazioni, all’evoluzione della medicina verso la biologia, la genetica e la psichiatria, i progressi della fisica e della chimica, si iniziano a esaminare i cromosomi umani. Nasce l’antropologia culturale e, quindi, cominciano le prime classificazioni comportamentali, fatte sulla base di studi psichici e neurologici, che riproposero un’impostazione discriminante verso le diversità.

Con l’avvento del Positivismo, assistiamo alla diffusione degli ideali produttivistici, che delineano sempre più il profilo di una persona normale, in opposizione a quella anormale: persisteva l’immagine del disabile come malato pericoloso e i metodi di osservazione sono a lungo rimasti poco efficaci.

Nella cultura del Novecento, si evidenzia un ritorno all’antico, negli aspetti di un’educazione intesa come sforzo e indurimento: il castigo serve a determinare disciplina, secondo Gentile. Matura un attivismo critico, che succede al pionieristico ed entusiastico. Il nuovo attivismo vede un ritorno alla rigorosità metodologica, integrando il concetto di interesse con quello di valore per formare forti individualità e garantire un incontro di individualismo e democrazia. Il valore dell’esperienza attivistica ha gettato un rilevante disordine nel vecchio ordine italiano. Si avvia il perfezionamento di istituzioni speciali, per l’educazione delle persone diversamente abili.

L’istruzione veniva impartita grazie alla beneficienza privata: Sante de Sanctis, medico, fondò nel 1899, a Roma, il primo asilo per minorati psichici. Maria Montessori si avvicinò ai bambini frenastenici, inizialmente in qualità di assistente, nella clinica pediatrica dell’Università di Roma, successivamente come insegnante, presso la scuola magistrale. Con il suo apporto, nel 1900, si dette avvio alla scuola magistrale ortofrenica, che segnò il passaggio a una stagione di attenzione nei confronti dei bambini disabili. Si diffondono le prime istituzioni per minorati psichici, ciechi e sordi, ad opera dei Comuni, sostenute da famiglie benestanti.  Nel 1908, vennero introdotte le classi differenziali a carico dei Comuni, che nel 1933 divennero statali, con superflui, nulli interventi educativi, a favore dei minorati. Benché non mancassero iniziative lodevoli, il ruolo delle scuole speciali era ridotto a una semplice custodia: gli aspetti educativi e riabilitativi venivano tralasciati, anche perché il personale non era preparato ad accogliere le loro richieste di aiuto.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale, l’elevatissimo numero di disabili, otto milioni di scemi di guerra, invalidi, mutilati, ciechi e pazzi, fa assumere un nuovo atteggiamento generalizzato verso la disabilità. Intesa come connotazione sociale differente, viene riconosciuta e da ciò deriva la necessità di rispetto, intervento e rimedi economici. La Riforma Gentile, nel 1923, non cambia sostanzialmente la situazione: rimane predominante l’idea di scuola fortemente selettiva. Da questo momento l’istruzione pubblica prende in carico anche l’educazione speciale, che viene disciplinata da una nuova normativa riguardante l’obbligo scolastico[9], che comporta anche la previsione di percorsi di formazione per insegnanti specializzati. Sembra di intravvedere un cambiamento di rotta, seppur graduale: si passa dall’iniziativa privata e dal volontariato, all’intervento educativo in scuole speciali. Ciò è sintomo di una sempre maggiore attenzione alle esigenze delle persone con deficit, nonostante la filosofia continui a essere quella dell’esclusione delle persone diverse dagli ambienti normali. Ma le discrasie e contraddizioni storiche persistono.

L'evoluzione delle conoscenze del Settecento e Ottocento ha contribuito a migliorare la condizione sociale delle persone con disabilità, grazie al raggiungimento di avanguardie scientifiche (strumentazioni di osservazioni, evoluzione della medicina verso la biologia, la genetica e la psichiatria, progressi della fisica e chimica) che hanno agevolato spazi di conoscenza sull’uomo. Tali successi, inadeguatamente utilizzati negli anni successivi, hanno favorito l’incorrere in pericoli, come l’utilizzo improprio della genetica, nel momento in cui la storia dell’umanità impatta nella follia hitleriana: periodo di forte regressione ideologica.

Nel 1913, il premio Nobel Charles Richet[10] pone disposizioni discriminatorie costrittive[11]. La scienza viene usata dai Tedeschi per supportare e giustificare l’Eutanasia di Stato, eutanasia sociale (Alfred Hoche, Karl Binding, 1920)[12]; nuovamente la soluzione della disabilità è considerata condizione inguaribile. I medici nazisti ritenevano che la disabilità «provocasse sofferenze nei parenti della persona che ne era affetta» e sottraeva importanti risorse economiche, che sarebbero state più proficuamente utilizzate per le persone sane, pensiero già riscontrato nel passato. I disabili non meritavano di vivere; era dovere dello Stato ucciderli, in quanto inutili e improduttive bocche da sfamare, incompatibili con i requisiti razziali della società nazista, ancorata classicamente al bello, al sano, all’utile (progetto Aktion T4).

Nello stesso periodo, i Paesi scandinavi (Danimarca, Svezia, Norvegia e Finlandia) emanarono leggi non molto diverse da quelle tedesche che, pur non portando all’eliminazione fisica delle persone, né a persecuzioni, puntarono a una sterilizzazione più o meno forzata di decine di migliaia di persone. Anche negli Stati Uniti fino al 1949 furono praticate in tutto 50.000 sterilizzazioni. Pure l’Italia vivrà consapevolmente la scelta discriminante xenofoba, frutto della cultura fascista totalitaria. Ciò nonostante, la scuola italiana avvia un lunghissimo processo di integrazione degli alunni con disabilità. Per molti secoli, tutte le forme di disturbo psichico furono assimilate alla malattia mentale e gestite negli istituti, nei manicomi o nel silenzio e nella vergogna delle famiglie, colpite dal pregiudizio e dai bisogni della società dei sani, per allontanare da sé una rappresentazione di malattia e di sofferenza.

L’Italia ha fatto una scelta di integrazione delle persone disabili che potremmo ritenere speciale rispetto ad altri Paesi europei, che la induce oggi a seguire un approccio unico, insieme alla Grecia, alla Spagna, al Portogallo, alla Svezia, all’Islanda, alla Norvegia e a Cipro, che si differenzia da una condizione di scolarizzazione separata presente in altri Paesi europei. Infatti, in altri Paesi prevale ancora una condizione di scolarizzazione separata (Approccio duale in: Danimarca, Finlandia, Irlanda, Lussemburgo, Austria, Inghilterra, Lituania, Repubblica Ceca, Estonia, Polonia, Slovenia, Francia) o mista (Approccio multiplo in: Svizzera, Belgio). In Italia, un passo importante viene compiuto nel 1948 con l’avvento della Costituzione, che sancisce il principio della pari dignità sociale. All’articolo 3, viene affermato il principio dell’uguaglianza di tutti i cittadini, a prescindere dalle loro condizioni personali e sociali, e il diritto di tutti a frequentare la scuola.[13] Durante la prima metà del Novecento, l’intervento dello Stato in favore dei soggetti disabili è stato di tipo assistenziale (fase dell’esclusione, 1920-1960).

La caratteristica fondamentale di questa prima legislazione è la separazione dei soggetti disabili dal contesto sociale: nel concetto di esclusione ritroviamo, infatti, l’utilizzo di diverse terminologie come inadatto,[14] disadatto[15] e disadattato.[16] Una discrasia riscontrabile nel settore scolastico è da connettere all’assenza di registrabili cambiamenti significativi, successivi alla promulgazione della Carta costituzionale del 1948, relativi al riconoscimento di precisi diritti a tutti i cittadini. La tendenza ad allontanare gli invalidi dal tessuto sociale e scolastico collettivo rimase invariata, così come contestualmente si registrò un’assenza di disposizioni che avrebbero consentito la presenza e la crescita vertiginosa di classi differenziali e scuole speciali.

Durante gli anni ’60 iniziò nel nostro Paese il fenomeno della scolarizzazione di massa, che comportò l’aumento progressivo delle scuole speciali per i soggetti minorati e la tendenza generalizzata ad allontanare gli invalidi dal tessuto sociale, una modalità per proteggere la collettività e, quindi, anche l’istituzione scolastica. Considerato il periodo storico d’avanguardia legislativa italiana, si provò a fronteggiare il fenomeno dell’esclusione attraverso l’azione educativo-didattica della pedagogia curativa. Essa ha assunto, nel tempo, l’intento negativo di colmare le carenze e correggere le storture dei cosiddetti insufficienti mentali. La pedagogia curativa si fondava sul presupposto che a un’azione di cura non poteva corrispondere un’azione educativa: il malato rimane tale, non si può cambiare la situazione, è possibile solo provare a migliorarla, con interventi adeguati.

Nella fase della medicalizzazione il bisogno viene ridotto a malattia, nel senso che siamo dinanzi a una traduzione, in termini medici, di problemi da affrontare con misure sociali. Il fulcro dell’intervento è rappresentato dal corpo miserabile, dalle esistenze perdute nelle istituzioni totali, su cui occorre avviare un processo conoscitivo, un sapere fatto di separazioni e classificazioni, assoggettamenti e discipline. Ma la medicalizzazione è il processo di formazione di una medicina del corpo sociale, governo delle popolazioni che, attraverso un progetto di igiene pubblica, punti alla totalizzazione imperativa della salute, quale dovere di una società, in un periodo di trasformazione capitalistica.

Anche con la legge 30 marzo 1971, n. 118, che segna la strada per l’inserimento delle persone disabili, nodo centrale della legge, non veniva garantito un vero diritto di pari opportunità, poiché non erano precisate le modalità di adempimento dell’obbligo, a carico della scuola pubblica. Sul piano pedagogico e didattico l’attenzione della legge è centrata esclusivamente sugli interessi dell’alunno disabile e non della comunità scolastica. L’assenza di mirata progettazione didattica, inoltre, rappresenta un ulteriore elemento non garantista e discriminante, che traccia la strada a una delega totale al docente del diverso: il docente di sostegno, implicitamente l’unico delegato al progresso educativo del soggetto disabile.

Il concetto di integrazione, introdotto con la legge 517/77, che segna il passaggio dall'inserimento all'integrazione, ha un grande limite: è un concetto assimilazionista. Si parte, infatti, dal presupposto che l'alunno disabile debba adattarsi a un'organizzazione scolastica strutturata con barriere e pensata in relazione agli alunni normali. È dovere della scuola evitare che le diversità si trasformino in difficoltà di apprendimento e in problemi di comportamento, poiché quasi sempre questo prelude a fenomeni di insuccesso e dispersione scolastica, dando adito alle conseguenti disuguaglianze sul piano sociale e civile.

Il concetto di inclusione[17] conduce al riconoscimento di un diritto come forma di contrasto al suo opposto: l’esclusione. Porta ad affermare che le strategie e le azioni da promuovere devono tendere a rimuovere quelle forme di esclusione sociale di cui le persone con disabilità soffrono nella loro vita quotidiana. La realizzazione di questi intenti causa problemi di gestione organizzativa alla scuola ed esige l’attivazione di processi di cambiamento adattivi dell’intera comunità educante. La scuola, istituzione e organismo sociale, micro-espressione sistemica della macrostruttura-società, si trova a dovere rispondere alle spinte contraddittorie sul versante tecnico-politico e su quello culturale. Infatti, nonostante la normativa vigente all’avanguardia sotto il profilo inclusivo, l’educazione personalizzata, non sempre applicata adeguatamente, si è trasformata nella più grave violazione del diritto a imparare, per l’assenza di produttivi interventi, frutto di retaggi socio-culturali, storico-strutturali. Con il riconoscimento dei Bisogni Educativi Speciali e il Diritto all’apprendimento per tutti gli alunni e gli studenti in situazione di difficoltà si intravedono subdoli rischi di potenziale ritorno a una medicalizzazione etichettante/stigmatizzante. È latente il senso di un agire didattico basato sull’identificazione di profili individuali, tracciati esclusivamente sul piano clinico-diagnostico. L’utilizzo di dispositivi valutativi e d’intervento prestrutturati, standardizzati di psicologia clinica comportamentale e cognitivista, come i test per la valutazione del profitto scolastico e delle competenze, rischiano di inficiare i processi formativi/educativi che la stessa didattica deve produrre, per un utilizzo esclusivo e improprio degli schemi preconfezionati, intesi come manuali d’uso univoco. Solo riappropriandosi della dimensione pedagogica del lavoro, il docente potrà tornare ad essere mediatore dialettico, di socratica memoria, nel processo di co-costruzione delle competenze sociali e pro-sociali, basate anche su un sapere critico, proattivo e consapevole, un soggetto significante per i propri studenti e la società.

Inclusione e società: storicizzazione di esempi positivi

Il livello di civiltà raggiunto da una società va osservato e valutato alla luce del grado di equiparazione e sostegno alle varie forme di diversità. Leggere e interpretare la rappresentazione mentale e conseguente accettazione/inclusione o esclusione della disabilità è un’azione critica e consapevole di decodifica del contesto e si manifesta anche nelle varie forme di espressione e creatività artistica. Dal breve excursus delineato si potrà constatare che in ogni epoca sono presenti anche molti aspetti culturali e azioni politiche con risvolti inclusivi, non sempre dichiarati. Esempi di riconoscimento della condizione di disagio/disabilità/cura/tutela, inseriti nei diversi contesti storico-sociali-educativi, si possono evincere nelle varie epoche storiche, fin dall’epoca preistorica e nello specifico in quest’ultima, su di una specifica disabilità, il nanismo, intorno al quale si costruirono pratiche e immaginari collettivi non sempre negativi e con una propria dignità.

I Babilonesi, popoli della Mesopotamia, nel XVIII a.C, attenzionavano i mali fisici e ogni altra manifestazione de “il male della sofferenza”, attuando pratiche terapeutiche e per la salute, come ampiamente validato dall’antico Codice di Hammurabi (1792-1750 a.C.), dal cui epilogo si evince espressamente l’intenzione di proteggere i deboli/oppressi, pur non trattando esplicitamente di “colpa-disabilità” (artt. 168 e 169). L’educazione in Mesopotamia vede lo scontrarsi/incontrarsi di razze e mentalità molto diverse: sumeri, di razza non semitica, con costumi onoranti l’uomo di cultura; semitici babilonesi e assiri, il cui approccio politico educativo fu influenzato da una concezione cosmologica e storica del sapere e della società, che assurge il Cielo ad archetipo di Stato politico da imitare in terra.

Il sapere e la direzione politica dello Stato semitico erano detenuti dai Magi, i Dotti, che istituivano scuole, forgiavano il sapere, guidavano la politica dei sovrani. Queste teorie riappariranno nel mondo religioso ebraico e rifioriranno anche nel cosmopolitismo degli Stoici, dei quali è stata dimostrata la origine semitica. In tale ottica si evidenzia un primitivo riconoscimento dell’alterità, quale aspetto da considerare in una visione globale, determinato da una mentalità culturale aperta, generata dal confronto tra razze. Gli Arabi invasori nel secolo VII d.C. ci privarono delle conoscenze del mondo antico e islamizzarono la Persia, annullando ogni altra diversità culturale.

La società egizia è notoriamente elitaria. Del mondo egizio ci sono pervenuti, però, reperti di protesi funzionali.[18] Il mondo egizio e la sua iconografia ci propongono numerosi casi di disabilità: sono rappresentati amputazioni, nanismo e deformazioni.

Nella cultura egizia, nel XIV secolo a.C. la perpetuazione dell’esistenza oltre la morte avveniva con il tramite di iconografie, da cui si traggono informazioni relative al peso sociale dei personaggi rappresentati, espresso grazie a proporzionali raffigurazioni iconografiche.[19] Il forte valore conservatore e lungimirante di una società fondata sul senso dell’edificare in via definitiva, esemplare, archetipica, testi di legge, massime educative e istituzioni pubbliche è proprio dell’educazione nel mondo egiziano, nei quasi trenta secoli di vita, dalle origini dell’unificazione politica (sec. XXXIII a.C.), fino all’inclusione dell’Egitto nell’impero ellenistico di Alessandro Magno (sec. IV a.C.). Si puntava, attraverso la religione, a formare uomini ben educati, sudditi devoti del sovrano obbedienti alle leggi, desiderosi della giustizia più che del successo mondano. Fin dai tempi più lontani della storia egiziana era stata scoperta la scrittura; abbiamo documenti di scrittura su pietra, ma ciò non deve far pensare che tutti sapessero leggere. Due soli ceti venivano istruiti accuratamente: i sacerdoti e gli scribi. Tuttavia è possibile riscontrare un significativo passaggio storico evolutivo della società egizia, che riguardò il cambiamento d’impostazione conservatrice, da formalistica totale verso un’interiorizzazione profonda della moralità e dei suoi principi. Infatti, a concezioni religiose di carattere immanentistico vennero ad affiancarsi concetti morali basati sull’alto valore dell’intenzionalità, rispetto all’azione. Pertanto, la legge morale diviene l’espressione totale dell’interiorità: che fa perdere importanza all’esteriorità dei precetti e consentirà un seppur non ufficiale ri-conoscimento della diversità/disabilità come condizione del vivere quotidiano.

La cultura Greca, con il culto dell’uomo sano e virtuoso, punta a una visione inclusiva, democratica, ma contestualmente molto selettiva. Nonostante i numerosi esempi storici di azioni discriminanti messi in essere nel modo greco, nel IV secolo a.C. in Grecia, età ellenistica, anche gli Asclepei, a Pergamo, avevano istituito un tempio importante per curare i malati, che venivano da lontano per cercare la guarigione in questi luoghi sacri. Si tratta di una forma di riconoscimento del male fisico, a cui è possibile fornire risposte e dare risoluzioni. I templi, luoghi del corpo, della mente e dell’anima, centri di salute e cura, puntavano al benessere e, quindi, al noto culto del sano e bello. Si diffusero, con l’insita cultura, rapidamente anche in tutta la Magna Grecia. Visione senza dubbio nuova e positiva della malattia.

Nell’antica Grecia la formazione dell’uomo sano, valente, saggio e ossequiente alle leggi, che non dava importanza all’ultraterreno, ma investiva nell’esercizio, nell’azione dell’uomo/sull’uomo, nell’efficacia educativa delle buone leggi. A Sparta, si investe nel modello di vita militare, severamente disciplinata; ad Atene, invece, su un quadro ideale, di vita piena e totale, con virtù morali, doti squisite di finezza nell’eloquenza, canto poetico, che sublima ogni aspetto della vita. Gli elementi comuni sono: studio dell’eloquenza, con culto dell’amicizia; la richiesta di una forte educazione fisica, a cura dello Stato, gratuita e quotidiana; una comune diffidenza per la musica di puro diletto, ma l’adozione del canto corale e di strumenti per una musica, atta a stimolare la volontà e a disciplinare i movimenti. Il rinnovamento introdotto dal mondo greco riguarda l’inserimento dell’educazione morale, intellettuale della donna e l’importanza della scuola, per l’educazione e lo sviluppo del sentimento comunitario. Si introduce la figura del pedagogo. Alcune metodologie greche risultano ancora attuali. Il maestro non detta, non legge una lezione impersonale, ma colloquia.[20]

In Palestina già dal IV secolo nelle leggi ebraiche si evidenzia la prima considerazione esplicita della condizione di disabilità,[21] fino a un riconoscimento di competenze e diritti[22] e relativi provvedimenti a tutela dei sordi Talmud ebraico.[23] Gli Ebrei dell’età precristiana si possono considerare come una grande comunità pedagogica con una cultura giudaica severa, cristallizzata e chiusa in sé: la verità era già tutta data da Dio, inutile cercarne altre. Hanno il merito di essere stati, prima dei Cristiani, artefici di sintesi di ebraismo e di ellenismo, di un sapere dato da Dio e di un sapere portato dagli uomini. Ben differente è il profilo spirituale degli Ebrei dopo la loro dispersione nel mondo e dopo la fine della loro unità nazionale (60 a.C.-70 d.C.).

Nell’antica Roma il cieco veniva ritenuto un veggente; per L.S.Vygotskij (1978)[24] la rappresentazione sociale del cieco si collocava tra l’“essere indifeso, debole e negletto”; l’albino era espressione del divino; il disabile veniva curato, tollerato e addirittura valorizzato. Nel Corpus Iuris Civilis di Giustiniano, anche se vi sono restrizioni legali per i sordi, vi è anche la prima distinzione ufficiale tra mutismo e sordità, con l’introduzione di pieni diritti per le persone ipoacusiche in grado di scrivere: tanto ottenuto fu abolito nel Medioevo.

L’avvento del Cristianesimo cambia il corso della storia. Il cambiamento epocale, basato sull’uguaglianza ontologica degli esseri umani, segnato dall’avvento del Cristianesimo, determina la rottura del cerchio marginalizzante e l’abbattimento di stereotipi, relativi alla condizione fisica, psichica, sociale e conseguente inserimento delle persone in difficoltà. È l’avvento della pietà, della difesa degli infelici, della protezione dei più deboli e dei malati. Nel II secolo d.C., il soggetto disabile svolge un ruolo sociale, redime se stesso dal peccato e consente ai caritatevoli intorno a lui di salvarsi.

Nella prima metà del VI secolo, nel 529 d.C. indirettamente, la necessità di comunicare in maniera alternativa, connessa al voto del silenzio, vedrà il linguaggio dei segni “benedettino”, quale consuetudine utile a intraprendere la sfida dell’educazione dei sordi, nei secoli XVI-XVII.

Nel XII secolo, nel 1198, è da annoverare un unico emblematico diritto riconosciuto a una persona con sordità, a cui venne consentito di contrarre matrimonio, in quanto ritenuto capace di esprimere segno. Nel XIV e XV secolo la Chiesa ripristina e recupera la sua autentica vocazione cristiana fatta di carità e amore per i più deboli e sofferenti. I lebbrosi vengono ricoverati in strutture apposite, così come altri malati vengono lentamente tolti dalle strade.

Nel Rinascimento nascono i primi istituti adatti all’accoglienza: con oblazione, molti bambini disabili erano affidati a monasteri. La diversità è stata studiata storicamente anche nella sua rappresentazione pittorica attraverso il tempo. Il corpo infermo è sensibile ai fenomeni marginali: una diversa cultura dell’integrazione influenza modalità e rappresentazioni della disabilità nel racconto e nelle sue illustrazioni a seconda del paese e della propria dimensione educativa. Nella cultura del XVI secolo d.C., secondo A.S. Levitas e C.S. Reid[25], la raffigurazione benigna di una persone con disabilità, sindromi e malformazioni, potrebbe essere riconducibile al non riconoscimento o all’accettazione di specialità, quali condizione che non necessitava di abbandono neonatale, per il suo semplice discostarsi dall’aspetto normale.

Nel XVII secolo d.C. alla corte di Spagna, ad opera di Velazquez (1635-1645), venne rappresentata la disabilità con consapevolezza, senza ipocrisia sarcastica, espressione di vita della famiglia reale, ma anche del mondo altro, con la raffigurazione di figure che esprimono un’umanità estranea all’enfasi e alla caricatura. Molto blandi o inesistenti gli interventi a favore delle persone disabili durante il lungo periodo medioevale. L’aspetto più interessante del XVII secolo è legato all’allargamento dell’istruzione e dell’educazione a tutti i ceti sociali quale riconoscimento implicito anche di altri status sociali. La cultura è intesa come mezzo e la virtù come fine; tutto si fonda sull’acquisizione della moderazione, del rispetto, della disinvoltura, ma nell’ortodossia cattolica. Si evidenziano, pertanto, un culto e una cultura dell’Io, attraverso l’educazione intellettuale e sentimentale. La nascita della scuola del popolo, per tutti, fa emergere la necessità/problema della metodologia.

Leibniz afferma infatti che, finché le scuole erano riservate a pochi, ogni uomo era un metodo e, di conseguenza, il problema del metodo era relativo. È su questo terreno che si sviluppa l’educazione del popolo, al quale si estendono i metodi e i criteri dell’educazione nuova, un’istruzione fatta di azioni più che di parole, per avviare un impegno produttivo nelle diverse professioni. In realtà, il problema della metodologia risale all’antichità classica, che già aveva discusso sugli accorgimenti per sviluppare la memoria. Si impianta, però, un’educazione che, estendendo a tutti i ceti i vantaggi della nuova cultura, faciliti il pieno riconoscimento di ciascuno, pur nel chiaro differenziarsi di compiti e mezzi.  Passaggio storico rilevante ai fini dell’inclusione sociale.

Tutto ciò lascia dedurre che siamo dinanzi a un’epoca didatticamente rilevante, anche per l’avvento della metodologia moderna: Rachitius e Comenius, con radici nella ricerca del metodo di origine baconiana; con Montaigne e il suo scetticismo, l’introduzione di un metodo del sapere, basato sull’ascolto, sulla risoluzione problematica e la ricerca di soluzioni per un’educazione non dotta, ma saggia. L’intervento didattico, pur sempre di stampo religioso, evidenzia un impegno diversificato a seconda degli ordini: i Gesuiti educavano i figli della nobiltà e della borghesia; gli Oratoriani, i Fratelli delle Scuole cristiane, i Protestanti luterani e i Riformati di Boemia istruiscono i figli del popoli.

Dal XVII secolo, ma soprattutto dalla fine del secolo XVIII, le nuove e diverse meditazioni sull’uomo investono ideologicamente sulla centralità dell’Uomo e sul superamento dei pregiudizi, anche verso la persona disabile. Con l’avvento dell’Umanesimo prima e dell’Illuminismo poi, assistiamo a un nuovo cambio di paradigma: la disabilità non viene più riferita esclusivamente a un’intenzionalità divina o magica. Comincia a delinearsi un approccio alla disabilità che poggia su basi anatomo-fisiologiche. Il riconoscimento della malattia e della sofferenza come stato da alleviare e curare produce stimoli nella ricerca medica e scientifica, attraverso l’approfondimento di ricerche sul funzionamento del corpo: si osserva per capire e cercare di curare. Anche il riconoscimento della persona disabile va al dì là delle sue parti mostruose e conduce al tentativo del suo recupero. Relativamente alla disabilità psichica, Pinel, il fondatore della psichiatria moderna, ne sostiene la curabilità. Purtroppo, come si è detto, lo sviluppo scientifico raggiunto non fu sempre utilizzato per finalità inclusive.

Nel Settecento francese, il razionalismo cartesiano ed empirico introduce il dubbio metodico, la deduzione, e si avviano la volgarizzazione del sapere razionale e l’eliminazione delle fedi tradizionali. Il filosofo francese Diderot, nell’anno 1749, divulga la famosa Lettera sui ciechi e ad uso di coloro che ci vedono, con le sue riflessioni sul concetto di normalità.

Nella cultura tedesca settecentesca si avvia una grande rinascita spirituale: l’educazione non è soltanto teorica, ma anche pratica. I pedagogisti attuano riforme, giungendo a rendere obbligatoria l’istruzione primaria e a statizzare le scuole. La posizione è di sostenere uno Stato che si avvicini alla scuola, non per asservirla ma per servirla. Sono così poste le basi dello sviluppo scientifico della Germania, focolaio di scienza positiva. La Germania fu la prima nazione del mondo a eliminare l’analfabetismo. Nel Settecento italiano, l’istruzione primaria è gratuita e obbligatoria, lo Stato deve pensare all’educazione del popolo; l’istruzione secondaria è facoltativa. I metodi di intuizione pestalozziani puntano alla formazione di cittadini liberi da pregiudizi, capaci di lavorare con senso vivo per la patria. Fu l’Italia meridionale a segnare i punti essenziali di un’educazione positiva e non retorica.

L’avvento dell’era industriale dell’Ottocento e l’evoluzione della scienza aprono nuove prospettive. Attraverso la chimica, con l’aiuto di nuovi strumenti di indagine, la medicina viene utilizzata per curare, raddrizzare, rieducare e tutto ciò facilita la lotta nei confronti dei pregiudizi. Tale atteggiamento positivo sviluppò una gara di civiltà tra nazioni, incentrata sulla capacità di produrre azioni politico-sociali, a supporto/sostegno delle persone in difficoltà. La ricerca scientifico-pedagogica, basata sull’azione educativo- sociale- filantropico- civile oltre ogni diversità[26], pose tra i suoi intenti primari, il supermento di disagi e pregiudizi.

La finalità della pedagogia svizzera ottocentesca, che ha il pregio e il difetto di essere semplice e di saggezza popolare, attira l’attenzione di tutto il mondo con la teorica svizzera. Il loro intento pedagogico è di formare gente serena, fiduciosa nell’uomo e in Dio. Siamo dinanzi a un’educazione popolare, religiosa, tollerante e fiduciosa, che intende realizzare la saggezza stoica e cristiana, in cui l’educazione della donna diviene un momento fondamentale per la società. Il metodo del mutuo insegnamento interessa e incuriosisce: i metodi sperimentali e intuitivi di Pestalozzi saranno discussi e lodati, migliorati teoreticamente (gnoseologia) in Italia da Romagnosi e Rosmini.

Grande innovazione ottocentesca tedesca è l’introduzione degli asili infantili; con Froebel si punta a formare cittadini che abbiano il senso religioso della nazione. L’educazione italiana risorgimentale si alimenta di tradizioni culturali e spirituali italiane, cattoliche, con apporti nazionali. L’educazione diviene l’educare i figli del popolo cattolicamente, formando la volontà, dando appropriati livelli di istruzione, educando al dovere più che al diritto. Si teorizza, ma si bada molto alla pratica. Il pregio dell’educazione positivistica, finalizzata a eliminare l’eteronomia dell’educazione religiosa e a educare la coscienza, più che a fornire abilità tecniche, è di avere consentito la scoperta della realtà psicologica e il richiamo all’autonomia del potere politico e della cultura, rispetto alla Chiesa, puntando a un’autodidattica adattiva.

La cultura del Novecento mette in evidenza il carattere pratico del pensare e, con B. Croce, l’educazione punta alla religione della libertà, che sappia far conoscere e valorizzare le proprie passioni, per utilizzarle. Le esperienze europee e americane mirano a rendere libero il fanciullo nella scuola, rimuovendo il banco. L’insegnamento da cattedratico si fa dialogico, dialogo attivo non passivo. L’educazione nazionalistica, antiliberale, antimarxistica e filocattolica delle sorelle Agazzi viene accompagnata dal perfezionamento del metodo Séguin e dall’educazione sensoriale e creatrice di un metodo di apprendimento adeguato, con risultati rapidi, della Montessori. Nel metodo montessoriano non si parla di alunno buono, diligente, istruito, ma di persona che si ordina. Con il bambino conoscitore pratico si supererà una lezione oggettiva e si punterà a una lezione del silenzio per un dominio di sé, basato sul criterio di immobilità volontaria. Si mira, dunque, all’autoeducazione con materiali scientificamente predisposti, per fissare l’attenzione, polarizzata su incastri attraenti. Da una pedagogia scientifica, meccanizzata, si ha un ritorno alla pedagogia della cultura, che mira alla valorizzazione culturale, in senso antropologico, che non trascuri alcun aspetto della personalità. Comprendere il valore della cultura compete a una pedagogia della cultura, in grado di inquadrare ogni proposta educativa in una salda cornice culturale. Per E. Cassirer (1944) si tratta di un ritrovare l’uomo, con la personalizzazione degli interventi educativi formativi, non già per livellare le differenze, ma per potenziare le capacità creative, che si congiungono alle differenze degli ingegni, senza escludere forme simboliche, come linguaggio, mito, religione.

Una tappa fondamentale dell’evoluzione legislativa del fenomeno dell’esclusione/inclusione è rappresentata dalla promulgazione della Costituzione (1948), che sancisce i fondamentali diritti civili della nostra società, come l’uguaglianza effettiva dei cittadini dell’articolo 3. Si apre un forte dibattito socio-politico, entro il quale matura sempre più la critica al modo in cui vengono assistiti, curati e educati i soggetti disabili negli istituti. Negli anni ’70, il potere politico investe sul benessere fisico e sociale dei cittadini. Si dà avvio alla fase della medicalizzazione (1960-1970); sono gli anni della grande democratizzazione della scuola e della società, in cui la figura del disabile perde la sua marginalità.

Il nuovo orientamento pedagogico si manifestò anche sul piano legislativo: infatti, gli atti normativi dei primi anni’70 segnarono l’abbandono dell’approccio medico a favore dell’adozione di una politica di inserimento. Con la legge del 30 marzo 1971, n. 118, si assiste alla progressiva affermazione dei diritti civili delle persone con disabilità. Prendono avvio così le prime esperienze di inserimento scolastico, fase dell’inserimento (1970-1977), con un’enfasi posta sullo stare con gli altri, sulla co-partecipazione responsabile e consapevole da perseguire per tutti gli alunni, a prescindere dalla disabilità. Al di là dell’indubbia validità dei cambiamenti apportati dalla legge 118,[27] che prevede un limite all’integrazione per i soggetti affetti da gravi disabilità.

Il termine integrazione ha sostituito quello di inserimento, nell’ambito scolastico e sociale, segnando il passaggio dall’isolamento/evitamento del bambino disabile, inserito nella scuola, alla fase in cui egli risulta pienamente integrato nel gruppo dei suoi coetanei. L'evoluzione terminologica, Inserimento-Integrazione rappresenta il punto di svolta dettata dalla legge 517/77, che sancisce il diritto alla frequenza scolastica di tutti i soggetti disabili. Infatti, a partire dal 1977, fase dell’integrazione (1977-1994), venne superato l’approccio dell’uguaglianza e riconosciuto il valore della diversità come risorsa individuale, anche della persona con disabilità.

Il termine integrazione indica l'insieme di processi sociali e culturali che rendono l'individuo membro di una comunità: il senso di appartenenza a una comunità può rompere ogni barriera. Compito della scuola è aiutare ogni alunno della classe a sentirsi parte integrante di un gruppo. Non si tratta semplicisticamente di inserire, per favorire il raggiungimento di standard presunti di normalità, ma di assicurare a tutti i ragazzi, a prescindere dalle doti e dalle competenze personali, normodotati e soggetti disabili, la possibilità di potenziare competenze e fronteggiare ostacoli, individuando soluzioni vicarianti. Con questa legge vengono, quindi, abolite le classi differenziali.

Un'altra legge fondamentale per l'integrazione è la legge quadro 104 del 1992, che sottolinea come la condizione di disabilità non sia esclusiva preoccupazione del soggetto, ma coinvolga tutti i contesti in cui egli interagisce: il contesto d’apprendimento va progettato e adeguato alla disabilità. Tutti i luoghi sociali e pubblici devono essere adatti ad accogliere le persone con disabilità, per garantire reale uguaglianza. Le persone disabili devono potere avere analoghe opportunità di scelta e di impiego alla pari dei normodotati, in campo sia lavorativo che scolastico. Le classi integrate consentono di sviluppare l’autostima e il rispetto, se basate su programmazioni didattiche e offerta formativa predisposte in relazione alle effettive esigenze degli alunni, nella prospettiva globale di vita e di un’inclusione permanente.

La fase dell’inclusione, a differenza dell’integrazione scolastica, presuppone che la persona con disabilità sia inserita nella scuola e non si limiti ad accoglierla e inglobarla nel sistema esistente.  L’inclusione scolastica presuppone un cambiamento nella struttura scolastica, al fine di garantire condizioni di pari opportunità, con adeguati e personalizzati supporti e sostegni. Occorre formare alle differenze, accogliendole come eterogeneità; attivando percorsi inclusivi intesi come disponibilità. In particolare, il processo di inclusione si propone di riconoscere la diversità e di valorizzarla, provando a costruire legami, che riconoscano la specificità e la differenza di identità. Si tratta di puntare a una didattica inclusiva i cui elementi fondanti siano rappresentati da una sinergica interrelazione/motivazione/apprendimento e da un’impostazione didattica esplorativa/attiva/cooperativa, per una consapevole presa in carico.

L’inclusione presuppone, quindi, un vivere insieme basato sulla persona, sulla pedagogia della Persona, in un reciproco adattamento tra singolo, gruppo e collettività. Affinché ciò si possa realizzare bisogna avere la capacità di oltrepassare se stessi, nella reciprocità dell’interazione, e dare avvio adì un processo evolutivo comune e condiviso. I metodi e i sussidi didattici, predisposti per gli alunni disabili, sono rimasti a lungo confinati nelle scuole speciale. Appare estremamente utile prendere atto dell’attenzione che la legislazione scolastica dedicata alla disabilità rivolge al discorso didattico e ricercare dei criteri psico-pedagogici, su cui si fondano le indicazioni in essa contenute. A questo approccio teorico deve corrispondere un impegno volto alla concretizzazione operativa dei vari criteri didattici, per superare il più volte citato gap tra teoria e prassi. L’essere didatticamente inclusivi implica il costruire una classe/scuola che sia comunità, provando a tessere reti di solidarietà e di aiuto reciproco, che prescindono dalla certificazione diagnostico-sanitaria di un disturbo o dall’individuazione di un bisogno speciale e che puntino alla formazione di persone speciali nella singola unicità che le caratterizza.

Il breve excursus, anche legislativo, che regola la vita dell’istituzione scolastica va inteso quale indicatore della sensibilità di una società nei confronti delle diversità. Questo il senso dell’avere messo in evidenza i passaggi storici, espressione di transfert di pensiero e di coscienza sociale, sensibilità e rispetto verso le diversità, in un continua altalenanza di processi di inclusione/esclusione.

Conclusioni

Per comprendere complessivamente un fenomeno storico-socio-educativo ha valore, in un’ipotetica baconiana tabula praesentiarum, ogni aspetto che ne è espressione. Guerre, rivoluzioni, strati orizzontali e sostrati sociali, opere di autori, istituzioni scolastiche, educative, politiche, codici di leggi scritte, consuetudini o leggi non scritte rappresentano gli elementi su cui fondare una riflessione storiografica pedagogica consapevole, per una conoscenza, una ricognizione delle condizioni reali della società e un agire per modificarli.

Anche le caratteristiche dell’educazione di una società o di un’epoca non possono essere identificate esclusivamente con il livello del pensiero pedagogico dei suoi autori. L’excursus evolutivo tracciato non fa altro che sottolineare che la disabilità e la mancata accettazione non sono connesse alla limitazione nelle funzioni o delle strutture corporee, bensì sono segnate/stigmatizzate dalla presenza di barriere culturali, fisiche, architettoniche, sociali che intralciano, fino ad annullare ogni forma di partecipazione alla collettiva vita civile e sociale. L’obiettivo da porsi è migliorare e accrescere le forme di partecipazione e responsabilità individuale e collettiva, quale presupposto di superamento delle disuguaglianze e delle discriminazioni. Nel moderno Stato sociale l’impatto della disabilità sulla società si è completamente trasformato e si contraddistingue per la lotta programmatico-istituzionale all’emarginazione, in vista di una reale inclusione sociale. Gli Stati di tutto il mondo sono stati indotti a sviluppare norme e leggi per politiche sanitarie, sempre più attente alla disabilità.

È necessaria una politica sociale attiva per “individuare azioni atte a costruire nuove sensibilità e culture, senza incorrere necessariamente in un limitante ‘welfare caritatevole’ noncurante dei diritti delle persone, un rischio a cui è necessario rispondere con un aumento di impegno e anche di “protagonismo” (Schianchi, 2012). In definitiva, anche nel XXI secolo siamo dinanzi al rischio di  una nuova deriva eugenista, si torna a parlare del senso del disgusto da parte del presunto uomo ragionevole verso le persone disabili (e non solo), quale estensione di una costruzione sociale. Il disgusto, per Angyal, Rozin e Miller, attiene alla relazione problematica di ciascuno con la propria animalità, diventa lo strumento che ci consente di evitare la consapevolezza dell’animalità/mortalità, provocando un senso di avversione.

L’avvicinamento metaforico deduttivo a secrezioni animali e/o a sostanze in decomposizione, al decadimento della carne, scarto/rifiuto organico, riduce l’uomo alla condizione di animalità e sottolinea la sua prossimità alla decomposizione, alla sua potenziale vulnerabilità e alla sua condizione di mortalità. Il timore intrinseco di una tale finitezza minimale induce a produrre una rimozione forzata del reale, fino a disconoscerlo, negarlo, abolirlo con i mezzi che la società consente di sviluppare e applicare. La ciclicità temporale di visioni e sentimenti si manifesta attraverso l’alternarsi di un riconoscimento positivo dell’alterità, a fasi di alienante e autovelante negazione difensiva delle diversità, quale forma di controllo, per J. Le Goff, o espressione delle difficoltà socio-esistenziali individuali, connesse alle crisi storico- politico-economico-valoriali, che nel tempo attraversano le varie società.

L’atavica paura della disabilità, che prima la confinava come qualcosa dell’altro, diventa sempre più qualcosa che può riguardare anche me. La disabilità è una minaccia, una condivisione possibile per ogni essere umano (Schianchi, 2012). La sfida per ciascuna società e ciascun cittadino risiede nell’individuazione, nella creazione e nella tutela di contesti di rispetto e riconoscimento delle diversità garanti di quotidiana normalità, intesa quale diritto/possibilità/opportunità di partecipazione a luoghi di vita, a ruoli sociali, attraverso la valorizzazione delle individualità/specificità/peculiarità, costruendo un quotidiano che, nel progettare il futuro, non dimentichi di tenere a bada gli errori circolari di un presente/passato/presente.

La pedagogia e le scienze dell'educazione sono chiamate a rispondere circa l’assenza di risposte adeguate o almeno sufficienti per nuova cultura dell’inclusione, dove la normalità sia l’espressione delle singole diversità. “Non c'è cosa peggiore che fare parti uguali fra disuguali, se la scuola non è integrante per tutti, non può esserlo neppure per l’allievo disabile”, scriveva don Milani. In questo nuovo contesto va riconosciuto il diritto della persona a esistere puntando alla valorizzazione di ognuno, come singolo e come collettività.

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[1] Gonnelli Cioni A., Per la fondazione del Primo Istituto d'idioti in Italia, Chiavari, 1888, p. 4.

[3] “Il bambino che abbia una notevole deformità è bene che sia ucciso presto” (dal De Legibus di Cicerone).

[4] Uccidiamo i cani idrofobi con un colpo alla testa, abbattiamo il bue furioso e selvaggio, accoltelliamo la pecora malata per evitare che infetti il gregge, distruggiamo la progenie snaturata, affoghiamo anche i bambini che al momento della nascita siano deboli o anormali!” (Seneca, Epistule).

[5] Papa Gregorio Magno sosteneva che: “un’anima sana non troverà mai albergo in una dimora malata”.

[6] Imbarcazioni cariche di dementi o minorati fisici che in un punto del loro percorso si accostavano a rive deserte per “scaricare”, abbandonandole al loro triste destino, masse di persone infelici e inabili.

[7] Se qualche membro avesse qualche cattiva figura, bisognerebbe accomodarla con fascie. [...] Quando il petto, ò la spina del dorso fosser torte, gli si faranno giupponcini d’osso di balena, di latta, ò d’altro, acciò possino pigliar la lor forma naturale» (François Mauriceau, 1685).

[8] Famoso chirurgo parigino, 1685, Trattato delle Malattie delle Donne Gravide e Infantate, capitolo XXXIX.

[9] “L’obbligo è esteso ai ciechi e ai sordomuti che non presentino altra anormalità che ne impedisca loro l’ottemperanza nelle scuole ad essi riservate” (art. 5).

[10] Premio Nobel, autore della Selection Humaine.

[11] Controllo dei matrimoni e sterilizzazione dei portatori di geni cattivi, gobbi, zoppi, deboli che rischierebbero di introdurre germi nocivi in tutta la razza, Charles Richet, 1913.

[12] Nel 1920 venne pubblicato il libro L'autorizzazione all'eliminazione delle vite non più degne di essere vissute, opera dello psichiatra Alfred Hoche. (1865-1943) e del giurista Karl Binding (1841-1920): “Il malato incurabile era da considerarsi non soltanto portatore di sofferenze personali, ma anche di sofferenze sociali ed economiche”.

[13] Art. 34: “La scuola è aperta a tutti”.

[14] Inadeguato per uno scopo.

[15] Incapace di compiere determinati lavori o funzioni.

[16] Fuori dal proprio contesto, perché non si accettano le condizioni di vita.

[17] Introdotto con la legge 170/2010, il decreto ministeriale n. 5669 del 12 luglio 2011 (attuativo della legge 170/2010) e la direttiva ministeriale del 27 dicembre 2012, che amplia il perimetro della riflessione sull’inclusione introducendo il concetto di Bisogni Educativi Speciali (BES), seguita dalla relativa circolare ministeriale applicativa n. 8 del 6 marzo 2013.

[18]  un pollice in legno dipinto del piede destro, che veniva attaccato con un supporto in cuoio al piede della donna a cui apparteneva, e),esposto al museo del Cairo; la gamba in bronzo di Capua dotata di un ginocchio artificiale in legno; conservata al Royal College of Surgeons di Londra prima di essere distrutta dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, temporalmente collocabili tra 1069 a. C. e il 664 a.C

[19] “la Stele di Rem” (2000 a.C.) una delle prime rappresentazioni grafiche della persona servo-disabile, a un corteo funebre: rappresenta l’esplicito livello di integrazione quasi paritetico, nella comunità-corte del faraone.

[20] Dal metodo socratico maieutico deriva l’invito alla ricerca; Aristotele affida agli allievi il reperimento di documenti di storia naturale civile, politica artistica. Isocrate legge i testi dell’eloquenza e sollecita i discepoli a proporre emendamenti.

[21] “Se un bue di un audiente cozza di bue di un sordomuto, di un pazzo o di un minorenne, quello deve pagare, ma se il bue di un sordomuto, di un pazzo o di un minorenne cozza il bue di un audiente, quelli sono assolti” (trattato Babà Kammà, antico codice civile Mishnaiot, Cap. IV: 4 cit. ibidem p. 22).

[22] “Non vogliate annoverare il sordo e il muto nella categoria degli idioti e dei fanciulli come individui privi di responsabilità morali, poiché essi possono essere istruiti e fatti intelligenti” (Grimandi A., 1960, Storia dell’educazione dei sordomuti, Bologna, Tipografia sordomuti).

[23] Talamud: raccolta enciclopedica della tradizione ebraica, compilata in un periodo di ottocento anni circa, dal 300 a.C. al 55 d.C., in Babilonia e in Palestina. Il materiale comprende l’Halakhan, il cammino da seguire nella vita per realizzare i precetti della Torah (il Pentateuco degli Ebrei) e l’Haggadah o “narrazione” di genere vario. L’Halakhan è composto di Mishnah grazie a numerosi commentari sulla Legge.

[24] Vygotsky L.S., Mind in society, Cambridge, Harvard University Press, 1978.

[25] Levitas A.S. e Reid C.S., An Angel with Down Syndrome in a Sixteenth Century Flemish Nativity Painting, "Am J Med Genet", 2003.

[26] Jean Marc Gaspard Itard (1774-1838) fonda la pedagogia speciale con i suoi Mèmories relativi all’enfant sauvage Victor.

[27] “L’istruzione dell’obbligo [degli alunni disabili] deve avvenire nelle classi normali della scuola pubblica, salvo i casi in cui i soggetti siano affetti da gravi deficienze intellettive o da menomazioni fisiche di tale gravità da impedire o rendere molto difficoltoso l’apprendimento o l’inserimento nelle predette classi normali”.

 

Sommario

Il contributo, nel valutare i fenomeni di interazione e contrapposizione tra elementi teorici, prassi, consuetudini sociali e pregiudizi discriminanti, nonché tensioni ricorrenti e tentativi di conciliazione tra elementi opposti e contrapposti, intende fare riflettere sul ruolo chiave della pedagogia e dell’educazione, nell’individuazione delle contraddizioni e nel superamento delle stesse. Fornendo strumenti di lettura critica e decodifica di realtà sociali e dimensioni stigmatizzanti, la teoria pedagogica e la prassi didattica hanno il compito di favorire lo sviluppo consapevole non solo di una visione sistemica del processo ideologico-evolutivo inclusivo, ma anche delle cicliche battute d’arresto discriminatorie. Tale approccio educativo deve contribuire alla costruzione di una sana quotidiana normalità inclusiva, che vada oltre la semplicistica declamazione, pure se legislativa, e diventare atto sociale, culturalmente consolidato.

Parole chiave: Stigmatizzazioni, Disabilità, Inclusione.  

Abstract

While evaluating the phenomena of interaction and juxtaposition of theoretical elements, practices, social customs and discriminating prejudices, this paper aims to reflect on the key role of pedagogy and education by identifying and overcoming their contradictions. Providing tools for critical reading and decoding of social realities and stigmatizing dimensions, educational theory and teaching practice have the task of promoting the conscious development of a systemic view of the inclusive process, taking into account its cyclical discriminatory setbacks. This educational approach has to promote the building of an healthy inclusive everyday normality, going beyond the simplistic legal declamation becoming a social act, culturally consolidated.
Keywords: Stigmatization, Disability, Inclusion.

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Pedagogia più Didattica - Volume 1, Numero 2, Ottobre 2015
Registrazione presso il Tribunale di Trento n. 1336 del 5/10/2007. ISSN 2421-2946

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