Test Book

Teorie pedagogiche/ / Educational Theories

Per un’etica del sentire: una nuova epistemologia per la storia dell’educazione a partire dalla storia dei sentimenti
For an ethics of feeling: A new epistemology of the history of education originating from the history of emotions

Chiara Meta

Assegnista di ricerca



Sommario

Il contributo intende affrontare il tema del rapporto corpo-mente dal punto di vista sia storico-teorico sia educativo. Già all’interno degli studi del settore, ma anche nell’ambito di una nuova frontiera storiografica relativa alla storia delle emozioni, è emersa un’attenzione al ruolo svolto dalla categoria del sentimento in una storia dell’educazione tesa a recuperare una dimensione unitaria tra mente e corpo, intelletto e passioni. In questa prospettiva molte possono essere le ricadute all’interno di percorsi storico-educativi che vogliano basarsi sulla assunzione della corporeità come luogo, non solo simbolico, per l’elaborazione di nuovi percorsi identitari e formativi che muovano dallo sguardo storico al presente.

Parole chiave

Corpo-mente, passioni, sentimenti.


Abstract

The contribution aims to address the theme of the body-mind relation both from a historical-theoretical and educational point of view. Within the studies of the field, but also in the framework of a new historiographical horizon relative to the history of emotions, attention has emerged to the role played by the category of feeling in a history of education that seeks to recover a unitary dimension between mind and body, intellect and passions. In this perspective there may be many repercussions within historical-educational approaches that want to be grounded on the assumption of corporeity as a place, not exclusively symbolic, for the development of new identity and educational pathways that move from the historical perspective to the present.

Keywords

Body-mind, passions, feelings.


 

Introduzione

Negli ultimi anni abbiamo assistito alla nascita di un nuovo ambito di studi relativo alla storia delle emozioni. Esso ha attuato una vera e propria rivoluzione nel modo di guardare alle fonti del passato, attraverso l’angolo visuale della sfera affettiva propria degli esseri umani nella storia.[1] Si tratta, in sostanza, dell’allargamento di una prospettiva che, già individuata negli anni Trenta del secolo scorso dalla rivoluzione storiografica messa in campo da «Les Annales» di Lucien Febvre e Marc Bloch, perviene alla delineazione di una storia della sensibilità che si emancipa da una visione “teleologica” del processo di civilizzazione e da una mera trasposizione della psicologia nella storia. Questa nuova consapevolezza ha sottratto le emozioni e i sentimenti a una dimensione priva di storia.

Come sostiene la storica medievista Barbara Rosenwein, la quale ha fatto da apripista in questo nuovo ambito di studi, le emozioni sono “disposizioni culturali” storicamente in movimento ed evoluzione (Rosenwein, 2016, pp. 20-25). A partire da questo nuovo paradigma socio-costruttivista possiamo dire che anche in ambito storico-pedagogico si sono delineati nuovi percorsi di ricerca che, già da tempo, com’è noto, avevano cercato un dialogo proficuo con le novità tematiche, metodologiche e documentarie messe in campo dal movimento annalista.[2]

Pur essendo molti gli intrecci tematici individuabili tra questo nuovo ambito della storia delle emozioni e le ricadute all’interno della ricerca storico-educativa, in questa sede si vuole in particolare affrontare un campo di indagine a lungo sottratto alla visibilità della storia tradizionalmente intesa, ovvero non solo la dimensione emozionale degli esseri umani, ma anche l’espressione fisica, le modalità corporee attraverso cui le emozioni vengono associate via via a gesti, parole, in sostanza a codici comunicativi che mutano nel corso del tempo. Come ha sostenuto Jan Plamper, nel suo ponderoso lavoro sulla storia delle emozioni, si tratta di delineare, come del resto l’antropologia già dalla fine dell’Ottocento si era avviata a fare, la riunificazione di un mindful body, ovvero di un corpo pensante e consapevole (Plamper, 2018).

 

Corporeità e sentimenti: quali implicazioni storico-educative?

Se dunque il corpo ha una sua storicità e, come sostiene anche Rosenwein, è un dispositivo modellato dalla cultura, non solo nel senso che esso si evolve nel corso delle epoche adattandosi alle trasformazioni dell’ambiente, ma anche che reagisce a tali modificazioni in modo sempre nuovo e inaspettato, ecco che è possibile interrogarsi sul ruolo e il significato che le trasformazioni nel modo di interpretare il corpo, la propria fisicità, di esprimere e manifestare i sentimenti affettivi da parte degli esseri umani nella storia, può comportare in ambito storiografico e soprattutto, per quanto attiene al nostro interesse in questa sede, nel contesto della ricerca storico-educativa.

In termini generali, da un punto di vista strettamente teorico-filosofico, non si può non sottolineare come la storia dell’Occidente e la nascita della filosofia nei suoi modelli speculativi razionali, da Platone in poi, abbia coinciso con la rimozione di questa unità originaria della persona. In particolar modo la dottrina orfico-platonica tesa non solo a stabilire una dicotomia tra psiche e soma, ma anche a una svalutazione della corporeità considerata il luogo del disvalore, penetra nella cultura della cristianità occidentale sin dal suo sorgere, già dal primo secolo dopo Cristo, venendo a rappresentare, per dirla con Peter Brown, un modello etico di condotta fondato sul valore della castità alla base delle concezioni sull’uomo e la società dell’Europa medievale (Brown, 1992).

Nel delineare questo percorso relativo ad una possibile ricostruzione del ruolo del corpo nella storia del pensiero occidentale e nelle teorie educative, dobbiamo però osservare come a partire dall’età moderna e in particolare dal Seicento con la rivoluzione scientifica, si assiste a una “contraddittoria” riscoperta della corporeità. Da un punto di vista storico, come ha osservato Franco Cambi, con l’Umanesimo italiano prima ed europeo poi viene messa in gioco un’altra visione del corpo; essa nasce sia dal recupero della lectio dei classici antichi e della loro concezione della corporeità sia «da una rilettura più evangelica del cristianesimo, che ora mette al centro il soggetto anche nella sua naturalità […] il suo essere per-sé, come valore e come principio, il suo costituire il fondamento identitario dell’individuo e il suo elemento vitale stesso» (Cambi, 2004, p. 16). Allo stesso tempo però, sul piano squisitamente filosofico, la modernità si presenta sin da subito nel suo aspetto ambivalente. Da un lato abbiamo la riflessione di Baruch Spinoza, il quale, riagganciandosi al vitalismo e all’immanentismo rinascimentale, mette a punto un sistema filosofico che tende a integrare l’essere umano nella sua complessità di corpo e mente.

Dall’altro, invece, ci troviamo di fronte a Cartesio e alla codificazione sistematica della scissione mente-corpo, del primato della volontà sulle passioni che declassa la fisicità a mero strumento della ragione calcolatrice. Tale modello fonda e sostiene l’epistemologia fino al Novecento, generando ricadute significative anche sul piano pedagogico.

Proprio a partire dalla visione filosofico-cristiana a fondamento della storia dell’occidente e incentrata sul dualismo mente/corpo, «anche tutto il pensiero educativo occidentale verrà influenzato da questo cliché e da una radicale sottostima del corpo» (Mariani, 2004, p. 8).[3] Solo a partire dalla fine dell’Ottocento e poi nel corso del Novecento la scissione soma-psiche verrà denunciata in parte dalla corrente dall’attivismo pedagogico, ma soprattutto con molta insistenza da due pensatori che pur appartenendo a correnti filosofiche molto distanti, da un lato il pragmatismo statunitense, dall’altra il marxismo, ovvero John Dewey e Antonio Gramsci, metteranno in discussione, a partire proprio dalla denuncia della svalutazione del ruolo della corporeità nei sistemi educativi, quella visione “gerarchica” dei saperi funzionale alla divisione della società in classi sociali distinte.

Gramsci, nei Quaderni del carcere, connette la critica alla divisione della società in classi alla riflessione sui motivi della separazione tra formazione teorico-umanistica destinata alle future classi dirigenti e formazione tecnico-professionale rivolta alle classi subalterne (Gramsci, 1975, pp. 1547-1548). Analogamente Dewey, anche se da una prospettiva differente, in Democrazia e Educazione, critica aspramente la separazione dei percorsi formativi. Egli infatti sostiene la necessità, in un regime democratico, in cui vige «un’uguaglianza tra dirigenti e diretti e in cui tutti gli individui sono potenzialmente governanti» (Dewey, 2018, p. 110), di riformare e diffondere un’istruzione pubblica, fondata sull’idea di una formazione globale dell’individuo. Da questo punto di vista, per il filosofo statunitense, occorre elaborare un progetto pedagogico unitario che sia in grado di promuovere, attraverso l’istruzione scolastica, una cultura democratica volta a spezzare la secolare divisione tra un insegnamento teorico e uno tecnico specialistico.

Occorre sottolineare come la ricerca pedagogica negli ultimi anni, specie in ambito italiano, abbia lavorato molto nella direzione di risanare questa antica frattura[4]. Fra i molti lavori da menzionare, vale la pena, in questa sede, ricordare un volume a cura di Massimo Baldacci e Enza Colicchi del 2016. Come sottolineano i due curatori del volume:

[…] la tematizzazione del rapporto tra teoria pedagogica e prassi educativa séguita, allo stato attuale delle cose, a soffrire di un radicato pregiudizio: la concezione della teoria e della prassi come una coppia di diversi se non addirittura di opposti e antagonisti […] questo perché la dicotomia (o antinomia) stabilita tra la teoria e la prassi inevitabilmente condiziona la formulazione stessa del problema del loro rapporto, restringendo l’area delle soluzioni possibili (Baldacci e Colicchi, 2016, p. 14).

Per questo motivo, che affonda le sue ragioni in una tradizione secolare, l’interpretazione della sola teoria in termini di razionalità, scientificità, generalità, necessità e «la complementare interpretazione della prassi in termini di non razionalità, particolarità, arbitrio, determina l’attribuzione alla teoria il compito di fornire modelli di disciplinamento pieno delle pratiche educative; cioè a dire di diffondere la razionalità in una prassi che ne è priva» (Baldacci e Colicchi, 2016, p. 18).

 

Una nuova erotica del sentire. Fra scoperta del desiderio e controllo sociale

Volendo insistere ancora sul tema della separazione tra corpo e mente, teoria e prassi, per dirla con Gramsci e Dewey, anche da un punto di vista storico, l’età moderna si fonda su un’antinomia che segnerà il percorso di una soggettività che, ancorché ridefinita nella sua dimensione corporea, non riesce pienamente a dispiegare il suo potenziale emancipatorio.

In realtà, in una prima fase, ci troviamo davanti alle conseguenze scaturite dalla Rivoluzione francese vista come espressione ed esito, al contempo, dell’ascesa di una classe sociale, la borghesia, nella sua fase espansiva di rottura dell’ancien règime. Sono ancora le parole di Gramsci a poterci illuminare da questo punto di vista. Egli, nei Quaderni del carcere, utilizza la categoria storico-interpretativa di “giacobinismo” per indicare la fase espansiva-egemonica della borghesia europea la quale «ha suscitato e organizzato la volontà collettiva nazionale-popolare e ha fondato gli stati moderni» (Gramsci, 1975, p. 1559). In sostanza la borghesia divenne classe nazionale dirigente attraverso non solo, come nel caso dei giacobini francesi, l’utilizzo dell’elemento della forza, pure presente, ma soprattutto attraverso la capacità di sollecitare una rivoluzione dei costumi e una nuova etica ad essa conforme.

Un simile discorso si intreccia con un lavoro di approfondimento storiografico compiuto recentemente dalla storica Tiziana Plebani, la quale, peraltro, ha avuto il merito di riattivare, in ambito italiano, l’interesse per la storia delle emozioni attraverso un volume pubblicato negli anni Duemila Un secolo di sentimenti. Plebani sostiene che se è vero che la modernità rappresenta il momento di svolta per la nascita di un'epistemologia fondata sul soggetto, questa scoperta, non avrebbe avuto la stessa forza espressiva se non fosse intervenuta anche una contemporanea conquista di un nuovo senso di sé da parte di una soggettività riconsiderata nella sua dimensione corporea. Si tratta della diffusione, anche se in una determinata cerchia sociale ‒ in particolare Plebani si concentra sull’aristocrazia e l’alta borghesia veneziana di inizio Settecento non dimenticando però il confronto con il contesto europeo ‒ di una nuova etica del sentire basata sulla rivalutazione positiva del corpo che sovverte le gerarchie sociali, producendo una messa in discussione del modello patriarcale di società (Plebani, 2012).

Un angolo visuale privilegiato che la storica mette a fuoco per comprendere a pieno questa trasformazione è quello del conflitto generazionale tra padri e figli in cui si palesa la crisi di un modello autoritario di famiglia, basato sulla verticalità asimmetrica dei rapporti e sulla deferenza e la nascita di un nuovo modo di vivere le relazioni affettive, basato sulla ridefinizione e l’ascesa del sentimento d’amore nella gerarchia di valori culturali e sociali.

Più in generale, come è noto, nel corso dell’Ottocento e per certi aspetti ancora prima nel tardo Settecento, il vertice della struttura sociale, aristocrazia e alta borghesia, è attraversata da mutamenti di grande rilievo. Si assiste ad un graduale passaggio da un sistema di matrimonio combinato dai genitori, mosso esclusivamente da interessi di tipo economico e sociale ad uno basato sulla libera scelta dei coniugi, sull’attrazione fisica, sull’amore. Muta il rapporto tra coniugi. La tradizionale asimmetria di potere fra marito e moglie si è attenuata, la freddezza e il distacco hanno lasciato il posto al calore affettivo e all’intimità.[5]

Plebani inserisce il suo discorso proprio in questo contesto, analizzando, ad esempio, sempre riferendosi al contesto veneziano, come nei primi anni quaranta del Settecento sia avvenuta una vera e propria esplosione di casi di suppliche da parte di padri che si rivolgevano ai magistrati cittadini per dirimere conflitti familiari esplosi in seguito a disaccordi su destini matrimoniali imposti. In sostanza l’esplosione di una nuova erotica del sentimento amoroso diviene il grimaldello per mettere in discussione e sovvertire l’ordine gerarchico della società.

C’è anche un altro aspetto da considerare connesso a questo fermento rinnovatore. Proprio l’analisi delle annotazioni riguardanti le suppliche di «figli o figlie disobbedienti e le conseguenti richieste di intervento da parte dei padri», mostra come esse rappresentano anche un terreno visibile di negoziazione dei nuovi diritti del soggetto moderno nei confronti dello Stato. Proprio perché ha di mira la pacificazione dello spazio sociale e la censura di ogni forma di violenza selvaggia, l’elaborazione di una nuova etica fondata sulla “sociabilità affettiva” che dalla corte, per imitazione, si estende anche ad altri strati sociali, contribuisce alla fondazione di uno Stato di tipo nuovo, dalla fine del Medioevo e poi lungo i secoli XVII e XVIII, attraverso un nuovo modo di essere in società, fondato sul controllo più severo delle pulsioni e su una maggiore padronanza delle emozioni, grazie anche all’innalzamento, attraverso un complesso codice di buone maniere, della soglia del pudore (Elias, 1999). Da questo insieme di rivolgimenti che creano un nuovo costume, «nasce la sfera del privato» (Costant, 1987, p. 4); vengono ridefiniti i comportamenti che è lecito tenere in pubblico e quelli che ormai «devono essere assolutamente sottratti allo sguardo degli altri» (Costant, 1987, p. 4).

Come ha osservato un altro studioso che ha contribuito, in ambito internazionale insieme alla Rosenwein, alla riscoperta delle emozioni come oggetto di indagine storica, William Reddy, esistono “regimi emotivi”, ovvero forme di linguaggio e di azione, che danno vita per così dire, nelle diverse epoche, agli stati emotivi a cui si riferiscono (Reddy, 2001).[6]

Prendendo in esame proprio la Rivoluzione francese, secondo lo studioso, a sostituire i valori della società monarchica, fondata sull’autoritarismo del sistema della deferenza, avrebbe contribuito una nuova atmosfera che egli definisce «the flowering of sentimentalism» (Reddy, 2001, p. 141), una forma di regime emotivo della generosità, una sorta di nuova etica della condivisione. Si trattò di «a new optimism about human nature […] based in part on new confidence in the power of human reason, in part on the belief that certain natural sentiment», proprii di ciascun essere umano, «were the foundation of virtue and could serve as the basis for the political reforme» (Reddy, 2001, p. 145)[7]. Questo sentimento in tal modo avrebbe rivoluzionato, ancora prima del sovvertimento politico scaturito dalla rivoluzione del 1789, il modo di intendere i rapporti tra gli individui. Si trattò, a dire il vero, scrive ancora Reddy, di una vera e propria parabola già conclusa con l’instaurarsi del Terrore giacobino.

In seguito, infatti, a conclusione del ciclo rivoluzionario innescato dalla Rivoluzione francese, si situa l’età Napoleonica che rappresenterà una cesura fondamentale, determinando, con la successiva età della Restaurazione ottocentesca che chiude le guerre napoleoniche, una ristrutturazione del ciclo storico precedente.

In realtà, come ha osservato in proposito Plebani, già sul finire del Settecento quel sentimento di “sociabilità”, «la sympathy e la benevolence, viste come mezzi efficaci per il miglioramento della società» (Plebani, 2012, p. 323) tendeva ad assumere una veste diversa. Cominciava a prendere forma un’enfasi sulla dimensione intima dell’individuo che connaturerà l’epoca romantica e che sarà funzionale anche al separarsi dell’individuo dal contesto sociale per ripiegarsi nel privato dello spazio domestico.

Come ha messo bene in luce Alberto Mario Banti nel suo importante lavoro dedicato al ruolo dell’immaginario sessuale nella costruzione delle ideologie politiche tra Sette e Ottocento, se è vero che la categoria del sentimento nel corso dell’epoca romantica tenderà ad assumere un carattere restaurativo, è pur vero che tale fenomeno è già largamente presente in alcuni tratti dell’illuminismo settecentesco (Banti, 2005). In particolare sono alcuni aspetti del moralismo giacobino, formatosi sui principi rousseauiani di un intransigente virilismo repubblicano,[8] a mettere sotto attacco i comportamenti delle famiglie regnanti e delle élites aristocratiche dedite al libertinismo dei costumi, alla promiscuità sessuale e alla pratica disinvolta dell’adulterio, concepito come elemento di stabilità all’interno della pratica dei matrimoni combinati.

 

Alcuni esempi letterari

In questa chiave interpretativa alcuni romanzi di grande successo, da Clarissa (1748) di Samuel Richardson a Giulia o La Nuova Eloisa (1761) di Jean-Jacques Rousseau e ai I dolori del giovane Werther (1774) di Johann Wolfgang Goethe, svolgono una serrata polemica anti-aristocratica in cui il bersaglio privilegiato viene individuato nella dissolutezza dei costumi esibita dalle donne aristocratiche.

La castità e la virtù della Giulia di Rousseau o dalla Lotte di Goethe divengono il vincolo su cui deve ergersi la nuova famiglia coniugale-intima borghese. Come spiega Rousseau, tornando numerose volte sul tema nelle sue opere, «nei matrimoni che si fanno per volontà dei padri, si tiene conto unicamente delle istituzioni e delle opinioni: non le persone si uniscono, bensì i ceti e i patrimoni» (Rousseau, 2001, p. 560) e ciò è fonte di una profonda devastazione etica e morale.

 Il punto è che se Rousseau, ma anche Goethe, affidano ai loro testi letterari la possibilità di costruire relazioni umane fondate su una nuova compattezza affettiva che lasci ai giovani sposi la libertà di una scelta dettata dal cuore, dal sentimento, esibiscono, allo stesso tempo, una visione della relazione tra i sessi fondata su una totale asimmetria dei ruoli tra uomini e donne[9]. In sostanza la perorazione a favore del matrimonio d’inclinazione, della virtuosa castità femminile, dell’allattamento al seno, alla fine comporta anche una netta riduzione degli spazi di “sociabilità”, affettivi e simbolici, riservati alle donne.

Un modo per cogliere in maniera perspicua il carattere modernizzante e restaurativo, a un tempo, svolto dalla società borghese ottocentesca è dato, ad esempio, dalla emanazione del Codice civile napoleonico e dalla sua successiva diffusione dalla Francia a molte parti d’Europa, che avrà il compito di sancire il nuovo assetto della famiglia borghese, ove il pudore femminile fosse la garanzia della certezza della paternità e quindi della stabilità dell’intero ordine sociale (Banti, 2005, pp. 33-40). Esso infatti pur abolendo molte delle arretratezze dell’ancien règime fece poco per limitare il potere che il marito aveva sulla moglie (Covato, 2007, pp. 31-34; Vincenzi Amato, 1988, pp. 635-636).[10]

Inoltre occorre sottolineare come l’Ottocento sia il secolo che vede il decollo dell’industrializzazione, all’ambito domestico in particolare sono affidati compiti strategici fondamentali. La famiglia diviene la cellula di base, fondamento della morale e dell’ordine sociale (Perrot, 1988, pp. 100-102; Hobsbawm, 2003).

Alla luce di questo discorso, anche per quanto riguarda le implicazione relative alla corporeità e al sentire e dunque alle strategie educative messe in atto, si segnalano novità rilevanti. Proprio lo stile di vita borghese «sottopone il corpo a una ricostruzione di identità e di funzione» (Cambi, 2004, p. 22).

«[Esso] si fissa come identikit della persona […] nella vita sociale è la cura del corpo che si afferma come paradigma, ormai al di là della stilizzazione delle buone maniere, del principio del dominio di sé, della conformazione a un tipo di ideale. Si pensi a Rousseau e al primo o al secondo libro dell’Emilio, che sono un vero e proprio riscatto del corpo, dei suoi bisogni e della sua centralità nell’infanzia e nella formazione del soggetto» (Cambi, 2004, p. 23).

Da questo punto di vista Gaetano Bonetta, in Corpo e Nazione, mette in luce come attraverso l’educazione corporale, in particolar modo tramite la diffusione della disciplina della ginnastica intesa come strumento di igiene fisica e mentale, si sia ad esempio diffusa, nell’Italia liberale di fine Ottocento e inizio Novecento, in analogia con altri Paesi europei come Germania e Francia, una pedagogia centrata sul corpo che «diventa religione, liturgia quotidiana che deve valorizzare e celebrare tutto il bene del progresso abbattutosi sulla civiltà europea» (Bonetta, 1990, p. 13). L’uomo dell’Ottocento, in altre parole, fiducioso nell’idea di progresso dell’umanità attraverso la scienza, elabora un progetto formativo non più fondato sull’educazione tradizionale «tutta incentrata sullo spirito e sulla morale, bensì un’educazione totale comprensiva della parte bio-fisiologica, fisica, cioè un’educazione del corpo nei suoi aspetti muscolari, igienici e sessuali» (Bonetta, 1990, pp. 13-14).

 

Conclusioni

Se il corpo dunque rappresenta, come abbiamo visto anche richiamandoci al dibattito contemporaneo emerso tra gli antropologi socio-costruttivisti, un campo di forze modellato dalla cultura, ecco che, seguendo una pista già indicata negli anni Settanta del Novecento da Pierre Bourdieu e dal suo concetto di habitus (Bourdieu, 1972), potremmo affermare che l’emozione è una costruzione sociale.

Lungi dal configurarsi come l’espressione spontanea di emozioni individuali, la categoria del sentimento si strutturerebbe, allora, nel corso delle epoche storiche, come un atteggiamento rispondente a codici culturali e simbolici messi a punto da una comunità che si riconosce in dispositivi prima di tutto comunicativi. Potremmo sostenere anche, seguendo Emile Durkheim, che esso sia, in larga misura, indipendente dallo stato effettivo degli individui, venendo a configurarsi come la codificazione di rituali che si adottano per consuetudine (Durkheim, 1963, pp. 433-434).

Una simile prospettiva però, tutta schiacciata sull’elemento “ambientale” del “sentire” individuale, risulta insufficiente per chi si occupa di emozioni e sentimenti in ambito pedagogico. In particolare spetta agli storici delle emozioni il compito di tentare una mediazione tra soggettivismo (la prospettiva in fondo della psicoanalisi) e oggettivismo. È questo ciò che tenta di fare lo storico Jan Plamper, alla cui posizione teorica abbiamo fatto riferimento in apertura di discorso e a cui vorremmo richiamarci in chiusura di questo lavoro. Egli, nel suo già richiamato lavoro Storia delle emozioni, auspica una cooperazione tra le neuroscienze e le scienze umane e sociali. In un certo senso, sottolinea, già da tempo molti neurobiologi, pur attenti allo studio anatomico del cervello che l’evoluzione della diagnostica per immagini permette loro, hanno cominciato a contaminare la loro disciplina con studi e suggestioni provenienti dagli storici delle emozioni. Parimenti questi ultimi hanno cominciato a prendere sul serio l’idea che le conoscenze sul cervello possano avere un effetto sullo studio della mentalità, della cultura e della storia (Plamper, 2018, pp. 366-367).

Potremmo dire, utilizzando un concetto caro all’epistemologia deweyana come quello di “transazione” (Alcaro, 1997), che «la vita lascia costantemente le sue impronte nel cervello e il cervello diviene oggetto di variabilità storica» (Plamper, 2018, p. 373). Superando definitivamente l’antica opposizione tra natura vs cultura, dovremmo allora pensare a cervelli “storicizzati”, mentre non dovremmo più considerare il cervello come un luogo immutabile. Andando ben oltre le prospettive ipotizzate negli anni Sessanta e Settanta del Novecento dall’epigenetica, le attuali neuroscienze guardano alla possibilità di costruire intersezioni epistemologiche con le scienze umane e sociali.[11]

In conclusione, l’idea di costruire un dialogo tra la prospettiva del sociocostruttivismo e quella dell’universalismo, potrebbe rappresentare un campo di indagine molto interessante, non solo, come abbiamo visto, per la storia delle emozioni, ma anche per la ricerca storico-educativa, in particolare per quanto attiene l’interpretazione del ruolo della fisicità e del corpo e dei diversi modi in cui esso è stato più o meno inibito per scopi educativi, rispondenti ai differenti codici pedagogici nel corso delle epoche storiche.

In questa cornice interpretativa, allora, possiamo dire che la comunicazione umana non afferisce unicamente alla sfera “discorsiva”, ma essa si incarna anche, per dirla con Plamper, in corpi, gesti, espressioni facciali e sentimenti, ovvero in modi di comunicazione non linguistici, aventi la loro logica che, forse, la storia della pedagogia, in particolare quell’ambito di ricerca attento a cogliere la relazione, o per meglio dire, lo scarto spesso esistente tra teoria e prassi educativa, potrebbe contribuire a ricostruire nella sua complessità.

 

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[1] Intendono fare il punto su questa nuova “frontiera” gli storici Damien Boquet e Piroska Nagy a partire da un lavoro pubblicato in lingua francese nel 2009 (Booquet e Nagy, 2009). Sono da vedere anche Rosenwein (2016) e Reddy (2001). Inoltre in ambito italiano va segnalato l’importante volume monografico della «Rivista Storica Italiana» (2016), curato da Giuseppe Ricuperati, Tiziana Plebani e Alessandro Arcangeli, dedicato proprio al tema: Emozioni, passioni, sentimenti: per una possibile storia.

[2] Una nuova consapevolezza del rapporto tra teoria e prassi nella storia dei processi formativi ha permesso di esplorare nuovi ambiti di indagine, come ad esempio la storia sociale, la storia dell’infanzia e della letteratura per l’infanzia, della famiglia, della maternità e della paternità, e altri ancora (Covato, 2007).

[3] In relazione al tema si veda anche Gamelli (2001). Sulla necessità di integrare i corpi nel processo di apprendimento imprescindibile Massa (1983).

[4] Per una disamina degli aspetti storici della questione nella teoria pedagogica si veda Cambi (1996).

[5] Sui mutamenti relativi alla struttura familiare sono da vedere, fra i tanti: Barbagli (1984); Stone (1983).

[6] L’idea di Reddy è che non sono i legislatori a prescrivere in modo astratto un comportamento che in un secondo momento viene attuato, in quanto è all’interno di un determinato “regime emotivo” che vengono codificate le leggi che sanciscono gli “stati emotivi” di quel particolare regime. In altre parole, ogni società stabilisce un “regime emotivo” al cui interno sono indotte e mantenute un certo tipo di espressioni.

[7] “Un nuovo ottimismo circa la natura umana, basato in parte su una nuova fiducia nel potere della ragione umana, in parte sulla convinzione che certi naturali sentimenti proprii di ciascun essere umano, costituissero il fondamento della virtù e potessero servire come basi per una riforma della politica”. 

[8] Sull’influenza esercitata dall’idea di “virtù” da parte del pensiero di Rousseau sui giacobini e anche sui girondini si veda Blum (1986).

[9] Proprio Rousseau, colui che ha attribuito all’infanzia una nuova centralità, elabora una teoria antropologica del rapporto fra i generi finalizzata a stabilire «l’inferiorità intellettuale e una indiscussa subordinazione della donna nei confronti dell’uomo» (Covato, 2010, p. 108).

[10] Emanato in Francia nel 1804, il Codice civile napoleonico introdusse fra l’altro «la durata temporale della patria potestà, per la prima volta nella storia del diritto privato, circoscritta alla maggiore età dei figli. [Esso] ha rappresentato uno importante spartiacque fra l’affiorare […] di principi parzialmente innovatori rispetto alla tradizione precedente e, allo stesso tempo, la restaurazione di assetti normativi che condizioneranno a lungo la storia delle relazioni familiari sebbene in forme sempre più mitigate sul piano strettamente giuridico» (Covato, 2007, pp. 31-32).

[11] Il concetto di “neuroscienza sociale” fu introdotto da John T. Cacioppo (1992). In ambito italiano, nello stesso periodo, Mariagrazia Contini si poneva il compito di un confronto della pedagogia con il campo delle neuroscienze, nell’intento di evidenziare la specificità della comunicazione umana, consistente nella capacità relazionale propria della “attribuzione dei significati” che nessun discorso scientifico in senso tecnico sarà mai in grado di riassumere (Contini, 1980).




Autore per la corrispondenza

Chiara Meta
Indirizzo e-mail: chiarameta@libero.it
Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Roma Tre, Via del Castro Pretorio 20, 00185 Roma


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