Vol. 10, n. 2, ottobre 2024
TEORIE E MODELLI DIDATTICI
Letteratura come acceleratore esperienziale: Un’esplorazione educativa
Enrico Orsenigo1
Abstract
Le storie non hanno caratteristiche date una volta per tutte: esse si concretizzano nel processo e nelle relazioni che vengono a instaurarsi con le persone. In questo senso, ogni storia non solo viene esperita ma viene anche continuamente fatta, perché in quanto macchina pigra ha in sé, nella propria costituzione, la necessità di una voce narrante o, quantomeno, di una subvocalizzazione umana. Educare a questo tipo di rapporto con le storie significa identificare in queste ultime degli agenti vivi e in continua mutazione.
Il presente contributo esplora alcune delle dimensioni della letteratura come dispositivo che eroga esperienze, che consente una serie di rifrazioni nella/della soggettività; tra queste: le passeggiate inferenziali, il ruolo delle metafore, il passaggio da stato alfabetico a incorporazione delle narrazioni nell’unità della personalità. Letteratura, dunque, come potenziale corredo di atteggiamenti, stili, tattiche, da scoprire e portare nell’interazione con gli eventi della vita quotidiana. Ma allo stesso tempo una zona continuamente preparatoria, un laboratorio di esperienze da non condividere, destinate ad alimentare un’implacabile esegesi del Sé.
Parole chiave
Letteratura, Differenze individuali, Esegesi del Sé, Passeggiate inferenziali, Personalità.
THEORIES AND DIDACTIC MODELS
Literature as an experiential accelerator: An educational exploration
Enrico Orsenigo2
Abstract
The stories do not possess fixed characteristics once and for all: they materialize in the process and relationships that are established with people. In this sense, each story is not only experienced but also continuously created, because, being a lazy machine, it inherently carries within itself, in its constitution, the need for a narrative voice or, at the very least, human subvocalization. Educating towards this kind of relationship with stories means identifying living agents in them that are constantly changing.
This contribution explores some dimensions of literature as a device that delivers experiences, enabling a series of refractions in subjectivity; among these: inferential walks, the role of metaphors, the transition from an alphabetic state to the incorporation of narratives into the unity of personality. Literature, therefore, serves as a potential set of attitudes, styles, and tactics to be discovered and brought into interaction with everyday life events. At the same time, it is a continually preparatory zone, a laboratory of experiences not meant to be shared, destined to fuel an unrelenting exegesis of the self.
Keywords
literature, Individual differences, Exegesis of the self, Inferential walks, Personality.
Introduzione
L’arte in generale, ma in modo più specifico la letteratura, condensa in uno spazio limitato (le pagine) una moltitudine di esperienze relative alla condizione umana. In questo senso, il presente contributo identifica le storie letterarie (e naturalmente i personaggi) come acceleratori esperienziali, ossia dispositivi atti a fare incontrare i soggetti-fruitori con un numero tendenzialmente elevato di situazioni che, altrimenti, nella vita reale che si dispiega nel quotidiano, impiegherebbero molto tempo a emergere. In quest’ottica, le storie diventano un territorio di pratica di sé, nel quale autoeducarsi attraverso la lettura, l’ascolto, la produzione di nuovi significati, interpretazioni e comprensioni. Non raramente, le peripezie vissute da un personaggio letterario e dall’incontro di questo con altri coinvolgono il soggetto-fruitore anche in termini di revisione dei propri vissuti: la sospensione del patto di finzionalità non serve solo per potersi divertire e godere della storia letteraria, ma anche, e forse soprattutto, per tornare in sé e leggere le proprie esperienze da una prospettiva nuova, originale, inattuale.
La letteratura come dispositivo che eroga esperienze, che consente una serie di rifrazioni della soggettività (reale per quanto riguarda il lettore, finzionale per quanto riguarda il personaggio), rientra tra i supporti candidati a trattenere le memorie; nella stessa lista si trovano bifacciali, pitture rupestri, art mobilier, figurine (Cometa, 2017, p. 70), e altri supporti utilizzati per la trasmissione intergenerazionale della conoscenza e, appunto, per la pratica di sé. In questo senso, embodiment e medialità sono facce della stessa medaglia, poiché la ricca comprensione ed enucleazione di significati da schemi di azione o stili di riflessione dei personaggi della letteratura fa pensare all’impegno di un soggetto-fruitore non in termini visuali (seguire le parole che si organizzano in frasi) ma corporei, come dimostrato dagli studi sul coinvolgimento estetico dei neuroni specchio.
Alla base della caratteristica di accelerazione esperienziale si trova il decoupling, il fenomeno di sganciamento dell’azione mentale dall’azione fisica; grazie a questo fenomeno l’uomo può elaborare informazioni non legate alla contingenza, appartenenti a uno spazio immaginale. Secondo Ellen Dissanayake il decoupling sarebbe una forma di meta-rappresentazione tipica dell’Homo Sapiens e che presiede la nascita delle storie: «I nostri antenati umani divennero a un certo punto capaci di ricordare gli eventi passati che erano desiderabili o indesiderabili e poi provarono a controllarli — ricreandoli o evitandoli — nel futuro» (2011, p. 63). Di fatto, tali esperienze non riguardano solo la configurazione in cui si trova il lettore, ossia di fronte a un supporto mediale, ma riguardano più generalmente gran parte del tempo della vita quotidiana; sia durante il giorno che durante la notte sviluppiamo storie.
Il potere delle storie, oltre che nel fenomeno descritto da Dissanayake, risiede anche nella capacità di simulazione. Questa capacità è possibile grazie all’uso delle metafore, come rilevato, ad esempio, da George Lakoff e Mark Turner (1989). Uno strumento nel quale si trovano condensati piacere, informazione, fantasia e conoscenza. Le metafore consentono agli uomini di proiettarsi nel futuro e di ipotizzare nuovi scenari, previsioni, futuri alternativi. Il potere di questa capacità risiede anche nella possibilità di illudersi e di praticare la finzione. Tuttavia, l’Homo Sapiens, a fianco all’abilità/necessità di illudersi, ha sviluppato la forza di comprendere anticipatamente e resistere agli inganni.
A quale fine vivere la letteratura come acceleratore esperienziale, costituito dall’insieme di fenomeni discussi in precedenza? Evidentemente non esiste un’unica risposta. Si può rilevare che il vivere la letteratura come laboratorio sperimentale di sé, degli altri reali e finzionali, dona una certa parvenza di controllo sul reale, un’illusione di potere nel formulare sensi e significati delle azioni e dei fenomeni che accadono. Anche se questo controllo sul reale ha il suo innesco in un dispositivo (la letteratura) che non segue quasi mai il principio di realtà, la non-verità e il non-fatto non raramente ottengono risultati più significativi delle spiegazioni razionali.
Umberto Eco, nel suo Lector in Fabula (1979), rifiuta l’idea che il significato di un’opera sia già contenuto in essa, di conseguenza pone il soggetto come agente con l’opera, attraverso di essa, per far emergere e raccogliere significati. Si tratta di una costruzione interpretativa che avviene in un rapporto tra soggetto e oggetto mediale, dove il primo porta con sé, inevitabilmente, le esperienze pregresse più o meno attinenti all’esperienza veicolata dall’oggetto, che nel caso della letteratura e dello studio di Eco è il testo. Qui, il soggetto incontra un bivio narrativo: è indirettamente chiamato a prevedere come andrà a finire, e quindi immaginare nuovi possibili scenari della storia, ma allo stesso tempo è vincolato e liberato nella sua enciclopedia personale, che fa del soggetto un centro d’azione ricco di narrativa (un centro di gravità narrativa, nel lessico di Daniel Dennett). Con l’entrata in gioco dell’enciclopedia personale, egli devia a più riprese, esce e rientra nel testo, effettua passeggiate inferenziali immaginando mondi possibili e impossibili, configurando così un lavoro con un approccio ispettivo nella comprensione (Cisotto, 2006).
Passeggiate inferenziali e mondi possibili
L’Odissea viene definita da Aristotele come narrazione costituita da un’unica azione intera, ovvero il ritorno a casa di Odisseo. Ricca di digressioni, quest’opera ha un unico obiettivo: aiutare il lettore a comprendere l’unica azione intera. Le digressioni, in questo senso, non possono essere intese come distrazioni. Le svolte nel testo, più o meno durature, hanno un senso specifico nell’economia della storia. Gli elementi che costituiscono le svolte, secondo Eric Auerbach, devono lasciare sufficiente spazio immaginale al lettore, perché rischiano di ostacolare la rappresentazione. Eccedere nella descrizione costituisce un problema per le passeggiate inferenziali, che nascono proprio con l’intento da un lato di lasciare del margine di costruzione interpretativa e dall’altro lato di curvare in sé, nelle proprie esperienze, i significati, ma anche i dubbi recepiti.
Per Auerbach esistono due modi per definire i principali stili narrativi della letteratura occidentale, ossia quello greco e quello ebraico. Di seguito si riporta un’efficace sintesi di Daniel Mendelsohn: «La tecnica omerica, o greca, che il grande critico affronta per prima si potrebbe definire “ottimista”. Come una luce brillante che appiattisce ombre e contorni mettendo tutto sullo stesso piano, passato e presente, Storia e leggenda, essa implica che ogni cosa può essere conosciuta, spiegata, illustrata. E poi c’è lo stile ebraico pieno di ombre, il “modo” pessimista, con la sua consapevolezza del fatto che, al pari di Dio stesso, anche la creazione non è mai del tutto conoscibile, ma può soltanto (come sostiene Auerbach nel prosieguo della sua analisi) essere oggetto di interpretazione» (2021, p. 38).
Nel primo stile, greco, la traiettoria narrativa è quella che conduce alla saturazione contenutistica e che intende porsi come eterotrainante per l’immaginazione del soggetto-fruitore. Nel secondo stile, ebraico, l’opacità che schiude la misteriosità dei significati relativi al testo si pone come autotrainante, chiamando in causa il soggetto-fruitore come parte integrata e necessaria all’emersione dei sensi e dei significati delle parole. È soprattutto incontrando un testo che lascia dei vuoti descrittivi che il soggetto accoglierà il gioco della previsione; se la fabula dice x sta andando verso y il lettore uscirà dal testo e azzarderà: siccome ogni volta che x va verso y si ha come esito z, allora la direzione scelta da x avrà come esito z. Ciò che accade durante la temporanea uscita dal testo, chiamata da Eco Passeggiata inferenziale (1979, pp. 115-17), rappresenta una sorta di accumulazione/filtraggio di sceneggiature comuni, esperienze del quotidiano, modi di dire, assunti scientifici, per rientrare nel testo ed effettuare la previsione.
La capacità umana di effettuare previsioni è facilitata dall’immedesimazione. È naturale l’esperienza della comprensione di una sofferenza o di un piacere provato da un personaggio letterario durante un’avventura; questo accade perché si conosce non solo il modo di chiamare l’emozione e il sentimento, ma anche il corrispettivo corporeo, il coinvolgimento della propria persona in quella specifica situazione. Il processo funziona anche al contrario, ovvero quando l’esperienza in cui è coinvolto il personaggio non fa parte delle esperienze vissute dal lettore; attraverso l’immedesimazione, e grazie ai neuroni specchio, si possono vedere e vivere per la prima volta situazioni non ancora vissute nella vita quotidiana. Questa è una capacità che non riguarda solo la letteratura, ma anche ogni altra forma di arte. Le esperienze, vissute indirettamente (sarebbe meglio dire indirettamente e direttamente contemporaneamente) attraverso la voce, lo stile, la personalità dei personaggi letterari, si affiancano alle esperienze della vita di tutti i giorni (Serafini, 2009).
Ritornando a Eco, nello specifico a un punto fondamentale nel testo Lector in Fabula (1979), egli identifica il testo come macchina pigra nei confronti della quale si è chiamato a cooperare per riempire spazi di non-detto o di già-detto. Da qui, si potrebbe rilevare la trasformazione dalla pigrizia alla solerzia una volta che il testo, grazie alla collaborazione del lettore, viene incorporato in quest’ultimo iniziando a interagire con esperienze (e non solo di lettura), intuizioni, progetti, sogni, pregiudizi. In altre parole, i costituenti alfabetici della macchina pigra, una volta transfugati all’interno del lettore, subiscono la traduzione in agenti di significato, talora anche oltre: fino a peculiari caratteristiche che determinano le differenze individuali.
È indispensabile sottolineare che una passeggiata inferenziale in seguito alla lettura di alcuni passaggi di un testo letterario è radicalmente differente rispetto a quella che avviene, ad esempio, in seguito alla fruizione di contenuti informazionali o narrativi veicolati da un dispositivo elettronico (sito, messaggistica istantanea, post); tale differenza è caratterizzata dal fatto che una svolta fuori dal testo letterario è tendenzialmente destinata a rientrare nel testo sì con intuizioni e previsioni, ma facendo i conti con il seguito della trama, il cui andamento e prosieguo sono stabiliti dall’autore. Il dispositivo elettronico, invece, a differenza di un supporto/dispositivo come può essere il libro, può essere strutturato da una convergenza mediale che raccoglie più media in sé e che dunque non vincola il fruitore al testo, bensì lascia a quest’ultimo la libertà di uscire dal testo per rientrare in un altro o in un’altra applicazione.
In letteratura sono numerosi gli esempi in cui il testo sembra rallentare, fino all’immobilità; questa funzione sembra decisiva per consentire al lettore di cogliere il volere dell’autore: riflettere e prevedere gli scenari che prenderanno vita di lì a poco. Il concetto di mondi possibili è in stretta relazione con questo patto implicito che si sviluppa tra autori e lettori, nel quale il primo invita (ha bisogno?) il secondo nella cooperazione interpretativa, avviando così un gioco di afflati, raccordi, correspondances. Tra gli esempi di testi che a più riprese rallentano per facilitare la procedura di cooperazione, troviamo Le Città invisibili (1972) di Italo Calvino, Notturno indiano (1984) di Antonio Tabucchi e Bartleby lo scrivano (1852/1991) di Herman Melville.
Le Città invisibili è costituito da brevi descrizioni di città immaginarie e brevi discorsi tra Marco Polo e Kublai Khan che richiedono una partecipazione attiva del lettore. La narrazione frammentata coinvolge attivamente nella costruzione del significato e viene stimolata da:
- le descrizioni aperte e ambigue di ogni città, presentate come microstorie indipendenti;
- la struttura non lineare, ossia la possibilità di saltare da una città all’altra e di scegliere autonomamente l’ordine di lettura;
- i discorsi tra i due personaggi che, a differenza della brevi descrizioni delle città, si sviluppano su riflessioni sulla natura dell’esistenza;
- le interazioni simboliche, giacché ogni città materializza in sé alcuni nuclei tematici quali l’identità, il senso della collettività, le problematiche ecologiche.
Attraverso un lessico ricco, ogni descrizione di città diventa un micromondo all’interno del quale il lettore può riconoscere somiglianze e differenze con quelli da lui conosciuti. Grazie alla moltitudine di parole utilizzate per definire l’urbanistica e il tipo di popolazione delle varie città, quest’opera si lega alla quarta lezione americana sulla Visibilità, nella quale Calvino (1988) rileva l’importanza di coltivare una pedagogia dell’immaginazione; tale pedagogia andrebbe testimoniata prima di tutto concentrandosi sulla forza trasfigurativa di cui è capace l’essere umano, da applicarsi nella traduzione di parole in immagini, di suoni in rappresentazioni astratte o, più semplicemente, di segni alfabetici in immagini mentali, via via più nitide.
In Notturno indiano il personaggio principale è alla ricerca di un vecchio amico in India. Lo stile di scrittura, poetico e riflessivo, può rientrare nella seconda tipologia individuata da Mendelsohn attraverso Auerbach, ossia lo stile ebraico, soggetto a un numero elevato di interpretazioni. La struttura non lineare fa degli incontri tra il personaggio principale e quelli secondari dei momenti fini a se stessi, che richiedono al lettore una dinamica riflessiva per intrecciare le relazioni. Tali incontri soffrono di ambiguità anche dovute all’uso di metafore, non solo nelle riflessioni filosofiche ma anche nelle spiegazioni di eventi del quotidiano. Il momento centrale (in tutti i sensi, visto che segna la metà del testo) e di massimo rallentamento della narrazione è rappresentato dalla scena in cui il personaggio decide di distendersi sopra a un’imbarcazione-zattera, a galla vicino alla costa di Mumbai. Da qui, il lettore si ritrova obbligato a fare i conti con un prosieguo del testo dove non viene specificato se si tratta di uno stato onirico o di veglia; nel primo caso il protagonista si sarebbe addormentato nell’imbarcazione-zattera, nel secondo caso la narrazione sembra passare a un’altra voce, quella dell’amico, che diventa il protagonista osservante e non più osservato.
In Bartleby lo scrivano il narratore, un avvocato di sessant’anni decide di raccontare la storia di uno scrivano dai comportamenti strani e originali. In questo testo, le passeggiate inferenziali vengono facilitate dagli interventi dello scrivano, anche se sarebbe più opportuno chiamarli al singolare visto che Bartleby utilizza sempre la stessa formula di risposta: «avrei preferenza di no». Sin dal primo momento, l’affermazione del protagonista segna un decisivo cambio di ritmo: dalla velocità e dall’idea di progresso perseguita dall’avvocato e dai suoi collaboratori all’interno di un ufficio che, nonostante le goffaggini di ognuno, conduce i lavori senza grandi intoppi, al rallentamento progressivo fino all’incomprensione (e irritazione), provocata da Bartleby, che inizia a circolare in ogni personaggio. Un’opera che, nonostante la sua brevità (appena quarantotto pagine), ha stimolato numerose interpretazioni. Il centro di gravità narrativa di questo racconto è un non conosciuto: la personalità di Bartleby, di cui non si sa nulla. Anche qui, come in Notturno Indiano, il lettore si trova coinvolto in un gioco opaco e ricco di punti di domanda. Le due storie, seppure radicalmente differenti, trovano nella costruzione di personalità torpide la loro propulsione. In entrambe, le descrizioni più precise riguardano i personaggi secondari e le ambientazioni.
Le passeggiate inferenziali, innescate da un passaggio di un testo letterario e dai mondi possibili che schiude tale testo, sono parti dello stesso dispositivo narrativo tanto quanto la struttura fisica del supporto in cui tale testo viene veicolato. In questo senso, è possibile sostenere che i Sé narrativi e le differenze individuali sono fatti di cose, e di simulazioni che si schiudono attraverso esse, almeno quanto sono fatti di intenzioni, pensieri, desideri (Gallagher, 2005; Gallese, 2005; Malafouris, 2008, 2013).
Fare, incorporare, testimoniare storie
Le storie non hanno caratteristiche date una volta per tutte: esse si concretizzano nel processo e nelle relazioni che vengono a instaurarsi con le persone. In questo senso, ogni storia non solo viene esperita ma viene anche continuamente fatta, perché in quanto macchina pigra ha in sé, nella propria costituzione, la necessità di una voce narrante o, quantomeno, di una subvocalizzazione umana. Educare a questo tipo di rapporto con le storie significa identificare in queste ultime degli agenti vivi e in continua mutazione. Certo, a livello strutturale le storie rimangono tali e quali (salvo qualche operazione sperimentale che avviene soprattutto nel web), ma in termini di testimonianza esse sono destinate a subire numerosi cambiamenti. A seconda del contesto storico-culturale in cui avviene la lettura, il racconto potrà subire significative variazioni di senso; si tratta di un’operazione classica in cui l’essere umano ricerca nella storia un migliore adattamento all’ambiente. Di fatto, l’evoluzione dell’Homo Sapiens è stata determinata anche dalla capacità di sviluppare narrazioni facilitanti l’emersione di significati, interpretazioni e comprensioni di eventi e relazioni interpersonali. La testimonianza di tali narrazioni per via intergenerazionale associata a un rapporto di fiducia educativa ha fatto il resto.
Fare-storie è un’operazione solida e peculiare della specie umana, tanto quanto la realizzazione di materiali e la manipolazione degli spazi e dei paesaggi. Chris Fowler ha dimostrato la possibilità di concepire una nozione di sé e di personalità molto più complessa di quella proposta nella cultura occidentale dal cartesianismo prima e dalla psicologia della personalità poi. Nel suo libro The archaeology of Personhood (2004) e nell’articolo From identity and material culture to personhood and materiality (2015), ha rilevato la distanza in termini di complessità tra ciò che generalmente si intende con persona che è qualcosa di più di un individuo. Nelle sue ricerche emerge la possibilità di approfondire la personalità attraverso il modo in cui i materiali sono stati manipolati; studiando i manufatti, gli spazi, i paesaggi, le storie, si potrebbe dunque risalire al tipo di personalità coinvolte. Si tratta del concetto di affordance degli oggetti (Gibson, 1986), di agency (Gell, 1998) e di network (Latour, 1996), in cui mente, azione e materia vengono tenuti insieme. La struttura e la processualità dei Sé narrativi che si può immaginare seguendo questi autori assomigliano più a una costruzione complessa e incarnata che si dispiega in un’azione capace di alterare l’ambiente, in definitiva la società, costituendo una nicchia narrativa. Le passeggiate inferenziali e le relazioni che i soggetti tessono durante l’esperienza con la letteratura possono essere molto più che un divertissement: esse hanno un ruolo centrale nell’alterazione delle reti relazionali e nei processi decisionali.
Così Umberto Margiotta, con Jerome S. Bruner:
La narrazione, sottolinea Bruner (1986), è il primo dispositivo interpretativo e conoscitivo di cui l’uomo, in quanto soggetto socioculturalmente situato, fa uso nella sua esperienza di vita. Essa produce rielaborazione personale, interiore, fondata sul raccordo io/racconto e sull’immedesimazione virtuale che tale raccordo promuove. La narrazione permette a ogni soggetto di entrare negli universi narrativi, di uscire dal proprio io contingente e fissato/definito, di entrare in un orizzonte umano più ampio, di riviverne le articolazioni, riportandole nel cerchio magico del proprio sé, arricchendolo, dilatandolo, complicandolo, ovvero universalizzandolo. La pratica narrativa, allora, svolge un ruolo eminentemente formativo, e non solo della mente o del linguaggio, bensì anche del soggetto-coscienza, potenziandone e dilatandone la coscienza di sé e dunque del proprio processo di formazione (Margiotta, 2015, pp. 156-157).
Questo movimento di entrata verso un orizzonte umano più ampio, per rivivere articolazioni destinate a rifrangersi nel proprio sé, viene identificato da Roberto Albarea attraverso la dimensione della «luce peregrina» (2015). Una luce di questo tipo, secondo Albarea, può indicare una direzione ma senza un’affermazione perentoria. Si tratta di racconti, certo, ma soprattutto di posture comunicative e più in generale dell’animo. L’autore le scorge in alcuni capolavori della tradizione letteraria e culturale, dalla risonanza universale (per questo tali luci possono essere sì soffuse ma anche diffuse). Tra queste opere troviamo I fiumi profondi di José Maria Arguedas (1971), Trilogia della città di K. Di Agota Kristof (2005), Herzog di Saul Bellow (2012), Fantasmagonia di Michele Mari (2012), Aracoeli di Elsa Morante (1982). Sono luci che esplorano la condizione umana, le cui voci dei vari personaggi affrontano riflessioni etiche su conflitti, disagi, tensioni, speranze. Si tratta dunque di una lettura di storie finzionali? È possibile definire in questo modo l’esperienza letteraria? Sì, anche se una simile definizione tecnica spiega troppo poco di quanto accade nel confronto e nello scontro con le figure di questa esperienza. In un certo senso sono mondi possibili frutto dell’immaginazione, ma rappresentano altresì plausibili direzioni da perseguire nella vita quotidiana. Come rilevato da Margiotta, anche la riflessione di Albarea si concentra sulla possibilità di dilatazione dei propri Sé narrativi attraverso l’esperienza narrativa, propria e altrui. Tale dilatazione, il cui innesco nel caso della letteratura è esterno al soggetto, e dunque proveniente da una cosa, è tanto rilevante quanto l’arricchimento che proviene, ad esempio, da una relazione amicale, da un evento significativo, da un rito di passaggio. In una certa misura, dunque, il fare-storie si posiziona a metà tra la produzione di un materiale e l’esperienza relazionale. «Un campo di forze», alla maniera descritta da Daniele Del Giudice nel suo Del narrare (2023), più esattamente come «“zona” e “campo di energie”. […] zona di detriti, materia calda e brulicante. Zona delle emergenze, di quel che emerge ai limiti del già conosciuto, informe, incompiuto, appena nato» (p. 167).
In una simile zona si entra con le proprie esperienze, intelligenze e nondimeno con le proprie mani. Quest’ultime non giocano solo il ruolo di sostegno del supporto nel quale viene veicolata la storia: le mani sfogliano, tengono il segno, pesano e bilanciano continuamente il supporto, informano e controllano l’andamento. Esse hanno un ruolo attivo sia come informatrici in merito alle forze fisiche in gioco nell’attività narrativa, sia come regolatrici del ritmo della lettura (e dunque del pensiero). Ne La costruzione della personalità attraverso l’organizzazione dei movimenti, Maria Montessori sostiene che «la personalità trova nell’azione, nella pratica il suo alimento» e «anche l’intelligenza nel costruirsi ha bisogno dell’attività motrice […]. Il pensiero si realizza nell’azione» (Montessori, 1932, p. 323). L’interdipendenza di pensiero e movimento modula l’incorporazione dei contenuti narrativi nelle maglie della personalità, rendendoli accessibili e in una certa misura esprimibili nelle differenze individuali. Inoltre, afferma Montessori, «l’azione che può avere l’influenza più profonda nell’organizzazione della personalità è quella che polarizza tutte le energie interiori, cioè l’esattezza» (1932, p. 327).
Coltivare la relazione con la letteratura come dispositivo che eroga esperienze e che consente una serie di rifrazioni della/nella soggettività è una pratica che in prima battuta coinvolge attenzione, concentrazione, ripetizione fino all’esattezza, rappresentata dal coordinamento dei movimenti e dalla scelta indipendente sia della tipologia che dell’andamento della relazione con la narrazione. In definitiva, la caratteristica di accelerazione esperienziale della letteratura si dà al massimo grado attraverso lo sviluppo di un’autoeducazione (che coinvolge tutto il corpo) prima alla relazione con le storie e il fare-storie e in seguito alla loro incorporazione ed espressione nell’unità della personalità.
Riflessioni conclusive
Il senso di un testo letterario non sempre è manifestato in forma diretta, spesso è latente; la sua scoperta, o illusione di scoperta a seconda dei livelli di complessità del testo, richiede dei passaggi obbligati: la conoscenza, frontale, con i caratteri dei personaggi, i messaggi e i meta-messaggi. Quando si tratta di romanzo di formazione, non raramente si partecipa a ritorni e anticipazioni, in un andirivieni di fabula e di intreccio. In questo tipo di romanzo, inoltre, la sperimentazione a cui è chiamato il lettore muoverà dall’intreccio dialettico tra contrasto e armonia (Dewey, 1953). Tale intreccio «è necessario» ed «è la combinazione inaspettata e la conseguente rivelazione di possibilità di cui non si aveva precedentemente sentore» (Dewey, 1953, p. 258). Qualcosa di simile accade nel teatro, come rileva Antonin Artaud; la forza di quest’arte, come del resto in letteratura, si fonda sulle variazioni della verosimiglianza dell’azione, ma ancora di più sull’intensità comunicativa.
Oltre ai contenuti, ad arricchire la sostanza narrativa della letteratura, del teatro, del cinema e non solo, sono i contenuti impliciti, le allusioni, il non detto. Grazie a questi elementi-secondi il soggetto-fruitore ha la possibilità di entrare negli interstizi liberi, ossia nelle zone che l’autore non ha né controllato né organizzato; tale stato grezzo, libero, può essere stato programmato anticipatamente, proprio per garantire al soggetto-fruitore dei margini di libertà: una sorta di spazio di prensione dove poter cominciare una cooperazione interpretativa ulteriore, che non riguarda in modo particolare la trama esplicita. Per cogliere ancora la portata del valore della narrazione, metaforicamente, prendendo come riferimento l’esercizio degli incastri solidi sviluppato da Maria Montessori (1996), si potrebbe dire che questi ultimi stanno al bambino come la letteratura sta al giovane e all’adulto. Il bambino, impegnato a osservare, appaiare, ordinare i pezzi solidi per collocarli all’interno della forma cava corretta, ricorda l’impegno e la partecipazione dell’adulto nel confronto con le storie, prima a livello intimo, personale, immaginale, poi traducendole in tensioni e moti nell’unità della personalità, infine disponibili per essere «giocate», collocate, nella situazione corretta.
Letteratura, dunque, come potenziale corredo di atteggiamenti, stili, tattiche, da scoprire e portare nell’interazione con gli eventi della vita quotidiana. Ma allo stesso tempo una zona continuamente preparatoria, un laboratorio di esperienze da non condividere, destinate ad alimentare un’implacabile esegesi del Sé. Una zona anzitutto naturale, perché rientra in una pedagogia naturale la dimensione della narratività, conosciuta dal bambino sin dalle prime interazioni con le figure di cura. Gli studi di Marya Schechtman (1996), Katherine Nelson (2000), Ellen Dissanayake (2011) identificano la narrazione come conditio sine qua non dello sviluppo della coscienza del tempo e del Sé. Immerso nel mondo linguistico della madre, il bambino giunge a concepire sequenze, intenzioni, ritmi, tensioni.
Con le semplici e altrettanto accurate parole di Nelson, si può affermare che «i bambini imparano a narrativizzare, e così facendo imparano a ricordare il loro specifico passato e a immaginare il loro specifico futuro. Essi acquisiscono il senso della continuità e discontinuità del tempo. Imparano a ordinare le sequenze delle azioni per creare un tutto che può essere scambiato con un’altra persona. Imparano ad ascoltare le versioni che gli altri hanno di uno stesso evento, e di fatto a riconoscere le prospettive differenti dell’altro. Da queste esperienze imparano a immaginare, sulla base delle storie che hanno sentito e letto, mondi che non hanno mai conosciuto» (Nelson, 2000, p. 192).
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1 Ph.D. Student in Learning Sciences and Digital Technologies, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia..
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2 Ph.D. Student in Learning Sciences and Digital Technologies, University of Modena and Reggio Emilia.
Vol. 10, Issue 2, October 2024